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una sfida per il futuro dell’Italia Zeta


Nel corso della storia, ogni epoca ha avuto le sue risorse strategiche: elementi essenziali per la sicurezza e la competitività economica di uno Stato. Per buona parte del Novecento, queste risorse erano petrolio e gas.

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Oggi, la supremazia geopolitica passa invece per strumenti intangibili, ma fondamentali come software, chip, infrastrutture cloud e reti digitali. Viviamo in un’epoca in cui i dati sono diventati la nuova valuta. Il controllo delle infrastrutture digitali – dalle piattaforme di intelligenza artificiale ai server cloud – può influenzare profondamente le scelte politiche, militari ed economiche di un Paese. Come spiega Paolo Spagnoletti, docente di Cybersecurity e Digital Transformation all’Università Luiss, «oggi i servizi digitali si basano su architetture distribuite, in cui ogni funzione dipende da una galassia di microservizi che girano fisicamente su macchine sparse in vari Paesi». Il problema, secondo Spagnoletti, è che in questo contesto diventa difficile garantire affidabilità e sicurezza.

Per l’Italia, questa trasformazione ha fatto emergere una vulnerabilità strutturale: una forte dipendenza da tecnologie e fornitori esteri, sia per quanto riguarda l’hardware (microchip, router, data center) sia per i software e i servizi digitali, dal cloud alla cybersicurezza.
Un caso emblematico è quello della rete 5G. Nel 2019, l’Italia ha autorizzato la cinese Huawei a partecipare allo sviluppo della nuova rete mobile, destinata a connettere non solo smartphone, ma anche veicoli autonomi, ospedali, sistemi industriali. La decisione ha suscitato le preoccupazioni degli Stati Uniti, che temevano rischi di spionaggio. In risposta, ilgoverno italiano ha esercitato il cosiddetto Golden Power, un potere speciale che consente di limitare o bloccare acquisizioni estere in settori ritenuti strategici. Il rischio principale? La possibilità che dispositivi di rete contengano backdoor, cioè accessi nascosti utilizzabili per spiare o compromettere i sistemi.

Un’altra area critica è il cloud. Oggi, gran parte dei dati delle pubbliche amministrazioni italiane – incluse informazioni sensibili su cittadini, sanità e giustizia – è ospitata su infrastrutture controllate da aziende statunitensi come Amazon Web Services, Microsoft Azure e Google Cloud. Queste imprese, oltre ad avere una quota di mercato globale che supera il 70%, sono soggette al Cloud Act, una legge americana del 2018 che consente alle autorità statunitensi di accedere ai dati anche se fisicamente conservati all’estero.
Per affrontare questa dipendenza, il governo ha promosso la creazione del Polo StrategicoNazionale (PSN), una rete di data center “sovrana” pensata per ospitare i dati più sensibili della Pubblica Amministrazione. Il progetto è gestito da una cordata composta da TIM, Leonardo, CDP e Sogei, ma resta comunque basato su tecnologie di origine statunitense, come i servizi cloud di Google. Questo compromette almeno in parte l’obiettivo di piena autonomia.
Anche nel settore sanitario i rischi sono elevati. Sistemi come le cartelle cliniche elettroniche o le piattaforme di telemedicina sono spesso sviluppati o gestiti da fornitori privati, a volte internazionali. In assenza di garanzie sufficienti, questi dati potrebbero essere oggetto di
attacchi informatici o accessi non autorizzati.

Per coordinare le politiche di difesa digitale, nel 2021 è stata istituita l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (ACN). L’agenzia ha il compito di proteggere le infrastrutture critiche e promuovere standard di sicurezza. Tuttavia, come osserva ancora Spagnoletti, «l’Agenzia non può agire direttamente contro gli attaccanti, ma può garantire che le norme vengano attuate e non restino sulla carta». Uno degli strumenti messi in campo è il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che destina circa 6,7 miliardi di euro alla digitalizzazione della Pubblica amministrazione, inclusa la transizione verso servizi cloud più sicuri.
Resta però un ostacolo strutturale: l’assenza in Europa di grandi aziende tecnologiche in grado di competere con i colossi americani e cinesi. Secondo una ricerca della European Digital SME Alliance, oltre l’80% dei servizi digitali essenziali – dal cloud computing all’e-commerce, fino ai sistemi di pagamento – è oggi fornito da aziende extraeuropee.

Questo significa che database governativi, infrastrutture urbane e applicazioni sanitarie critiche sono spesso nelle mani di multinazionali non soggette a regole europee.

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Un’iniziativa per invertire la tendenza è Gaia-X, un progetto europeo nato per definire standard comuni di sicurezza e interoperabilità. L’obiettivo è garantire che anche i fornitori non europei possano offrire servizi in Europa solo rispettando regole precise in materia di trasparenza e protezione dei dati.
Secondo Spagnoletti, però, immaginare una vera “autonomia digitale nazionale” è poco realistico: «Internet è una rete globale e frammentarla in blocchi sovrani è una contraddizione in termini». L’unica via percorribile, suggerisce, è quella della cooperazione europea, unita a politiche industriali lungimiranti per sostenere la nascita di un ecosistema tecnologico sovrano.

Il problema, in ultima analisi, non è solo tecnico, ma politico: lasciare a soggetti stranieri il controllo delle infrastrutture digitali significa anche cedere quote della propria sovranità. In un mondo in cui i conflitti si combattono anche con algoritmi e codici, essere digitalmente dipendenti equivale a limitare la propria libertà d’azione.
Per l’Italia, la sfida è chiara: servono investimenti in ricerca e innovazione, formazione digitale e supporto alle imprese tecnologiche locali. La sovranità digitale non è un’astrazione: è una condizione necessaria per garantire sicurezza, indipendenza e democrazia nel XXI secolo.

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