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Europa, imprese più protette se tornano capitali e impianti


di
Stefano Caselli

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Per il sistema industriale si apre un nuovo scenario con tempi imprevedibili Come reagire? Vanno rafforzati i mezzi propri e attratti in Ue talenti e siti di produzione

Quali scelte per le imprese? Che cosa possiamo fare per aiutarle, in questo momento senza precedenti? A cinque anni dallo shock della pandemia e a tre dal conflitto in Ucraina, le aziende si trovano ad affrontare la tempesta dei dazi che mette in discussione non soltanto i ricavi, ma anche il modo di essere e agire sul mercato. Se il Covid ha messo a nudo l’interdipendenza delle catene di produzione portando a un blocco della logistica, il virus dei dazi rende questo concetto ancora più potente. Nei giorni scorsi il Wall Street Journal ha smontato pezzo per pezzo l’iPhone nelle sue centinaia di componenti, indicando per ciascuna di esse da quale dazio e contro-dazio risulti colpita e arrivando a concludere con due certezze: minori profitti per l’azienda e un costo più alto di 300 dollari per i consumatori di qualsiasi Paese della terra.

Di fronte a questa immagine, pervasiva come il Covid, ci troviamo di fronte a interrogativi che sono i medesimi di cinque anni fa. Quanto durerà? Che cosa fare perché le imprese siano protette? Sui tempi: i primi giorni della pandemia portarono a tracciare scenari contraddittori che oscillavano da un paio di mesi a un paio di anni. Anche ora il danno è fatto. Il virus dei dazi è partito, con la speranza che di fronte a una reazione così forte del mercato finanziario la strada della marcia indietro e della negoziazione di chissà quali condizioni ancora esista.




















































Quanto a ciò che possiamo fare per le imprese, è purtroppo ancora presto per dirlo. La certezza è che, come allora, le aziende vanno protette come motore di occupazione, quindi di benessere sociale in senso lato. Il punto, però, più importante dopo cinque anni è che per la seconda volta — la terza, se consideriamo il conflitto in Ucraina — il contesto di mercato impone di definire strategie e modelli organizzativi capaci di resistere all’onda d’urto di eventi imponderabili, come la chiusura pandemica e l’irragionevole chiusura dei commerci mondiali.

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Spalle forti e petrimoni

La prima riflessione è che, senza capitali propri, l’impresa ha meno forza per affrontare non soltanto la volatilità delle grandezze in gioco, ma anche i rischi non ponderabili che troverà sulla sua strada. Tanti anni di tassi prossimi allo zero hanno lasciato l’idea che un mondo a debito sia un ragionevole modo di prosperare. I tassi che ci aspettano non avranno certamente il sapore dei tassi prossimi allo zero e l’incertezza richiede la robustezza che soltanto tanto capitale di rischio può dare. A prescindere dalla dimensione dell’impresa e a partire dalle aziende più piccole, una maggiore capitalizzazione non solo è la base per qualsiasi investimento, ma offre anche la spinta a una gestione della liquidità con spazi di manovra più ampi e maggiore forza nell’ottenere credito dalle banche.

Non ci sono più alibi: una pandemia, una crisi energetica indotta dalla guerra e ora le barriere agli scambi commerciali richiedono iniezioni robuste dei capitali. Sarà ciascun imprenditore a dover valutare — e cogliere l’opportunità — se usare parte delle proprie risorse o aprire il capitale. Di certo, uno spostamento strutturale della ricchezza come investimento verso le aziende è più che necessario e potrà essere accompagnato da una leva fiscale che lo sostenga. Soprattutto per le aziende più piccole.
La seconda riflessione è che le imprese devono ripensare a lungo termine la propria presenza geografica. Se la reazione di questi mesi è valutare la delocalizzazione negli Stati Uniti (e il reshoring americano è chiaramente uno degli obiettivi di questa offensiva dei dazi), la scelta è difficile sia per i costi attuali e prospettici sia per la disponibilità di mano d’opera, in uno scenario dove gli immigrati vengono deportati. A meno che il dollaro non diventi così conveniente da compensare tutto questo, mettendo l’America in vendita: difficile, anche nella follia dei tempi che viviamo. La prospettiva dev’essere più ampia. Soprattutto, la carta del reshoring europeo e, in Europa, all’interno di ciascun Paese va giocata con forza. A livello sia di narrativa collettiva (che non può essere sottovoce), sia di politiche industriali sia di scelte delle singole imprese.

Delocalizzazione e aggregazione

Così come l’apertura decisa ai commerci verso i sistemi che hanno la potenzialità degli scambi, che passa da trovare un rapporto equilibrato con la Cina fino alla piattaforma del Golfo, all’India e alla riscoperta dell’America Latina e del continente africano. Il reshoring europeo sarebbe peraltro un modo straordinario di capitalizzare i vantaggi e gli sforzi di questi anni: dalla moneta unica all’assenza di barriere e frontiere, dalla disponibilità di direttive comuni in tanti settori a un quadro evoluto di sviluppo sostenibile, fino a un’Unione bancaria e, in prospettiva, dei Capitali. Il reshoring europeo è un modo per distribuire a tutti il beneficio dell’Europa e costruire le premesse per attrarre talenti e intelligenza nel Continente.

La terza riflessione è quella della crescita e delle aggregazioni. Un sistema di imprese forti ha bisogno di varietà, con grandissime imprese che competono su scala globale diversificando i rischi e di aziende piccole e medie, che ha in Italia e in Europa hanno una forza straordinaria. Più volte abbiamo scritto che sul versante delle grandissime imprese l’Italia, ma in generale l’Europa, è carente rispetto a Usa e Cina. Una pandemia, una guerra e ora un mondo di dazi sono più che sufficienti a spingere — adesso o mai più — verso alleanze e integrazioni nell’Ue. A partire dalle banche, che sono una piattaforma a sostegno dello sviluppo economico e dei commerci, ma poi anche per le imprese. Le sfide si vincono nel medio termine con la qualità dell’eco-sistema che si costruisce. Questa è l’ultima chiamata. Non possiamo sprecare gli ingredienti che abbiamo già a disposizione: un mercato europeo ampio, la solidità delle istituzioni, una posizione geografica centrale per gli scambi.

Per aiutare le imprese, e quindi la collettività garantendo occupazione, è necessario che queste componenti siano elaborate rapidamente, per chi guida le decisioni delle imprese e per organizzare le scelte politiche. Perché la nuova globalizzazione è in Europa.

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