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le imprese non possono più aspettare


Oggi sappiamo che il cambiamento climatico non è più un rischio teorico né una questione esclusivamente ambientale. Invece è una realtà tangibile che impatta direttamente la stabilità economica globale e il futuro delle imprese.

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Ce lo dimostrano gli eventi climatici estremi, che dal 2000 hanno generato danni per oltre 3.600 miliardi di dollari, di cui ben 1.000 miliardi solo tra il 2020 e il 2024, con tempeste e uragani responsabili di più della metà di questi costi. Le conseguenze si ripercuotono soprattutto sulle infrastrutture e sulle catene di
approvvigionamento, le attività produttive e i mercati assicurativi.

Di fronte a un simile scenario, l’inazione climatica non è una scelta sostenibile, poiché ignorare i segnali significa trovarsi a pagare un prezzo esorbitante quando il rischio diventa realtà.

Il report sull’inazione climatica

Ogni ritardo nell’adattamento e nella transizione rappresenta un costo crescente per le imprese e per l’economia globale, senza contare i costi sui cittadini.

Pur andando oltre gli impatti sulle comunità, infatti, il report “The Cost of Inaction: A CEO Guide to Navigating Climate Risk” di Boston Consulting Group in collaborazione con il World Economic Forum, quantifica gli impatti economici che avranno le aziende che non intraprendono azioni concrete per affrontare i rischi climatici, pari alla perdita del 25% dei loro profitti entro il 2050.

La doppia vulnerabilità delle imprese

L’adattamento climatico, quindi, è un investimento necessario e improrogabile. Uno dei maggiori problemi riguarda alcune aree del pianeta – in particolare Europa e Stati Uniti – che stanno diventando progressivamente “uninsurable”, ovvero con una propensione al rischio tale da non poter più disporre di una copertura assicurativa.

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Il progressivo ritiro degli assicuratori ha impatti diretti su diversi fronti: la riduzione degli investimenti e l’aumento dei costi di ricostruzione e, di conseguenza, una perdita di valore a livello immobiliare.
Questo problema non è distribuito in modo omogeneo a livello geografico e l’impatto risulta ancora più grave nei Paesi a basso e medio reddito che, seppur contribuendo meno alle emissioni globali, subiscono i danni maggiori poiché mancano di infrastrutture resilienti.

Per esempio, in Africa subsahariana, 160 milioni di persone vivono oggi in condizioni di scarsità idrica, criticità che si riflette direttamente sul settore agricolo, dato che il 95% delle coltivazioni dipende dalle precipitazioni. Considerando che l’agricoltura contribuisce fino al 70% del PIL locale, questa forte dipendenza dalle piogge rende l’intera economia estremamente vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico.

La doppia sfida per le aziende

Le imprese si trovano dunque esposte a una doppia sfida: da un lato ci sono i rischi fisici, legati alla maggiore frequenza e intensità degli eventi climatici; dall’altro, i rischi di transizione, che derivano dalle trasformazioni economiche e regolatorie necessarie per contrastare il cambiamento climatico.
I rischi di transizione nascono principalmente dall’aumento dei costi legati alla carbon tax e alla progressiva svalutazione degli asset legati ai combustibili fossili.

Infatti, la domanda di carbone, destinata a ridursi del 90% entro il 2050, impedirà agli impianti costruiti dopo il 2010 di completare il loro ciclo di vita operativa, stimato tra i 20 e i 25 anni.

Di conseguenza, aumenteranno i costi operativi per le aziende più esposte al rischio, mentre il valore degli asset fossili potrebbe subire una svalutazione fino al –35% entro il 2030.

Nonostante l’evidenza, molte aziende continuano a sottovalutare l’impatto finanziario del cambiamento climatico: secondo l’analisi di BCG, la percezione media è di perdite tra l’1% e il 3%, mentre le stime reali indicano potenziali impatti fino al 25% del margine operativo lordo (EBITDA).
E a livello macroeconomico? Per mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C, occorrerebbe investire circa il 2% del PIL globale in mitigazione e un ulteriore 1% in adattamento: un impegno che eviterebbe perdite comprese tra il 10% e il 15% del PIL mondiale entro fine secolo.

Economia verde: un mercato in rapida espansione, nonché unica via d’uscita

Le imprese che sapranno innovare con anticipo i propri modelli di business e integrare la sostenibilità nei processi aziendali saranno le protagoniste della nuova economia, in cui potranno costruire un nuovo modello di competitività. Come ci dicono i dati, il valore dell’economia verde globale potrebbe infatti passare dai 5.000 miliardi di dollari attuali ai 14.000 miliardi entro il 2030, trainato da tre settori chiave: in primis l’energia alternativa, che da sola
rappresenterà il 49% del totale; a seguire i trasporti sostenibili (16%) e i prodotti di consumo eco-compatibili (13%), tutti ambiti che crescono a tassi annuali tra il 10% e il 20%, ben oltre la media di molti settori maturi.

L’impatto sul capitale umano

Questa trasformazione non riguarda solo i mercati, ma coinvolge anche il capitale umano e le scelte delle persone. Non a caso, il 24% dei talenti intervistati dichiara di non voler lavorare per aziende percepite come non sostenibili. Allo stesso modo, i beni di consumo a basso impatto ambientale crescono a un tasso medio annuo di quasi il 10%, contribuendo da soli a un terzo della crescita complessiva del settore, pur rappresentando oggi solo il 18,5% del mercato.

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I costi dell’inazione climatica

Eppure, nonostante le prospettive incoraggianti, la transizione viene spesso percepita come un costo e non come una leva di crescita.

I dati dimostrano che, con politiche mirate e investimenti calibrati, le imprese che investono nella decarbonizzazione possono ridurre fino al 60% le proprie emissioni senza dover sostenere costi aggiuntivi.
La vera questione non è più se la transizione avverrà, ma quali saranno le conseguenze per chi resterà indietro.

Le aziende sono quindi chiamate a riconsiderare il proprio ruolo: non più semplici esecutori di norme ambientali, ma attori strategici di un cambiamento sistemico.
Questo significa riconoscere che la sostenibilità è ormai un parametro strutturale della performance economica e che in gioco non c’è solo la capacità di contenere i rischi, ma anche quella di interpretare le nuove opportunità per ottenere vantaggio competitivo a lungo termine.



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