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Primo maggio, Pietro Ichino: «Ha ancora senso se sgombriamo il campo dall’ipocrisia»


La festa del Primo Maggio ha ancora senso solo «se sgombriamo il campo dalla retorica e dall’ipocrisia», dice Pietro Ichino, giuslavorista dell’Università di Milano, ex senatore del Partito democratico, considerato il padre del Jobs act, la riforma del lavoro contro cui il Pd di Elly Schlein ha scagliato la pietra dei referendum abrogativi proposti dalla Cgil. Un esempio di ipocrisia? «A ogni infortunio grave tutti a stracciarsi le vesti, ma la misura più concretamente utile, quella di riforma dell’ispettorato, è rimasta inattuata per otto anni e ora l’hanno cancellata». E circa i referendum abrogativi su cui si vota l’8 e il 9 giugno: «Ne penso molto male», risponde Ichino, «è un’iniziativa dettata da un rifiuto fazioso del Jobs Act, che mira solo a cancellarlo, un po’ come si fece vent’anni fa contro la Legge Biagi, senza alcun obiettivo serio di politica del lavoro». E non mancano i paradossi, evidenzia Ichino: «Se dovesse passare il sì al ripristino dell’articolo 18 versione Fornero, i dipendenti delle imprese sopra i 15 vedrebbero il proprio indennizzo massimo, in caso di licenziamento, ridursi da 36 a 24 mensilità, mentre per il licenziamento nelle piccole imprese verrebbe previsto un indennizzo illimitato». 

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Primo Maggio, ci risiamo: professore, un rito un po’ stantio o che ha ancora senso?

Ha ancora un senso se cogliamo l’occasione di questa festa per fare due cose: una forse più facile, che è chiederci a che punto siamo sulle questioni-chiave della politica del lavoro; l’altra certamente molto problematica.

Incominciamo da quella più problematica.

Sgombrare il campo dalla retorica e dall’ipocrisia.

Qualche esempio?

A ogni infortunio grave sul lavoro, dunque quasi tutti i giorni, i media condannano, i sindacati protestano, le autorità promettono giri di vite nella disciplina anti-infortunistica e rafforzamento delle attività ispettive. Ma la misura più concretamente utile è rimasta inattuata per otto anni, e poi abrogata alla chetichella l’anno scorso nell’indifferenza generale. Salvo il giorno dopo ricominciare a stracciarsi le vesti contro la strage continua.

A quale misura si riferisce?

Alla riorganizzazione unitaria degli ispettori del lavoro, attualmente ripartiti in quattro organici distinti e tra loro scollegati: quello del ministero, quello dell’Inps, quello dell’Inail e quello delle Aziende sanitarie locali. L’unificazione era stata disposta da uno dei decreti attuativi del Jobs Act, il n. 149 del 2015. Ma i sindacati di categoria si sono opposti strenuamente alla sua attuazione. E alla fine il governo li ha accontentati, con un minuscolo comma nascosto nell’articolo 31 del decreto legge n. 19/2024, che ha cancellato il decreto n. 149/2015. Nessuno ha fiatato.

Passiamo alle questioni-chiave aperte in tema di politica del lavoro.

Politiche attive del lavoro: siamo ancora all’anno zero, o quasi. L’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro-ANPAL, cui il Jobs Act affidava la funzione di controllare il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni da parte delle Regioni e di intervenire in via sussidiaria nei casi di inefficienza più grave, è stata abolita; ma nessuno ha chiarito chi e come dovrebbe svolgere, ora, la sua funzione: certo non è in grado di farlo l’apparato ministeriale.

 

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La ministra del lavoro Calderone, però, ha annunciato l’entrata in funzione del SIISL, il Sistema Informativo che dovrà dare nuovo impulso ed efficienza ai servizi per l’impiego.

Già, il SIISL, che doveva essere in funzione già dall’inizio del 2024. Ma risulta che a tutt’oggi nessun Centro per l’Impiego abbia potuto avvalersene: a un anno e mezzo di distanza ancora buio totale. Poi il dl n. 60/2024 ha stabilito che il SIISL debba avvalersi dell’Intelligenza Artificiale per controllare l’efficacia della formazione professionale finanziata con i soldi pubblici, molti miliardi ogni anno, per metà della Ue; ma quel monitoraggio era già previsto dal Jobs Act e a dieci anni di distanza ancora non si è neppure incominciato ad attuarlo.

Salari bassi, ne ha parlato anche il Presidente della Repubblica come di uno dei problemi del nostro sistema. In Italia le retribuzioni oggi sono più basse del 2008, abbiamo la performance peggiore dei paesi del G20. Perché?

Perché ristagna la produttività del lavoro. Per farla crescere sono indispensabili due cose: smettere di tenere in vita a tutti i costi le aziende marginali e persino quelle sub-marginali, magari tenendole in Cig a zero ore per anni, chiudere le imprese cosiddette in house tenute in vita inutilmente da Comuni, Regioni e Stato nonostante livelli di produttività vicini allo zero, e creare i percorsi di formazione e addestramento per portare i loro dipendenti a occupare le centinaia di migliaia di posti che restano permanentemente vacanti nelle imprese più produttive, le quali, come mostrano i dati Unioncamere, in metà dei casi non trovano il personale di cui hanno bisogno.

In una situazione di bassa produttività i contratti a tempo determinato non rappresentano una ulteriore causa di incertezza per i lavoratori?

La quota di contratti a termine sul totale dell’occupazione dipendente, in Italia, è perfettamente in linea con la media europea: in termini di stock, poco meno di un contratto su sei. Non mi sembra questo il problema. Certo, nel flusso delle nuove assunzioni, i contratti a termine sono più di quelli stabili, perché l’inserimento nel tessuto produttivo avviene normalmente così; ma, appunto, cinque volte su sei il rapporto di lavoro poi si stabilizza.

L’8 e 9 giugno si voterà sui quesiti referendari sul lavoro promossi dalla Cgil. Che cosa ne pensa?

Ne penso molto male: è una iniziativa dettata da un rifiuto fazioso del Jobs Act, che mira solo a cancellarlo, un po’ come si fece vent’anni fa contro la Legge Biagi, senza alcun obiettivo serio di politica del lavoro e senza preoccuparsi se per i lavoratori ne deriva in concreto un vantaggio.

Il ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non costituirebbe un vantaggio?

Se prevalesse il “sì”, si tornerebbe per tutte le imprese sopra i 15 dipendenti alla disciplina prevista dalla legge Fornero del 2012, con un effetto paradossale e del tutto irragionevole.

Dov’è il paradosso?

I dipendenti delle imprese sopra i 15 vedrebbero il proprio indennizzo massimo, in caso di licenziamento, ridursi da 36 a 24 mensilità, mentre per il licenziamento nelle piccole imprese verrebbe previsto un indennizzo illimitato! Un risultato davvero insensato.

Al referendum c’è anche il quesito che mira a estendere la responsabilità dell’impresa committente agli infortuni sul lavoro che accadono nell’impresa appaltatrice: non sarebbe un’arma in più per la sicurezza dei lavoratori?

Questa riforma avrebbe un senso se fosse limitata ai casi in cui tra l’impresa committente e l’appaltatrice c’è un rapporto di dipendenza economica: cioè quando la seconda lavora solo o quasi soltanto per la prima. Oppure quando la seconda opera all’interno del perimetro aziendale della prima. Altrimenti la cosa non ha molto senso: perché mai la piccola o media impresa committente dovrebbe rispondere per un difetto di organizzazione di una appaltatrice totalmente indipendente sul piano economico ed operativo, che fornisce i propri servizi a centinaia di altre imprese?

Cgil e Uil non rinnovano i contratti pubblici, la Cisl sì; però si ritroveranno assieme per il concertone del Primo Maggio. L’unità sindacale è ormai solo di facciata?

Direi che l’unità non esiste più da tempo. Ma non sarebbe un dramma, se ci fosse un quadro di regole legislative chiare entro il quale la competizione tra i modelli di sindacato diversi potesse svolgersi, senza tradursi in paralisi. Invece la legge sulla rappresentanza e la contrattazione è ancora ferma al palo.

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Il segretario della Cgil invoca la rivolta sociale, la segretaria della Cisl il dialogo con il governo. Il sindacato oggi che ruolo ha, o dovrebbe avere?

La metterei così. La Cgil oggi è un sindacato che rivendica diritti, certezze. La Cisl è un sindacato che rivendica partecipazione, disposta a valutare il piano industriale innovativo e, se la valutazione è positiva, guidare i lavoratori nella scommessa comune con il buon imprenditore su quel piano. C’è spazio per entrambi i modelli, nel nostro sistema; e la competizione è utile a entrambi. Purché le regole della competizione siano chiare e ci sia chi le fa applicare.

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