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Primo Maggio, cosa non dicono i sindacati che festeggiano


Nel giorno dedicato ai lavoratori, i sindacati celebrano il lavoro mentre faticano a difenderlo e a capirne la trasformazione. L’analisi di Mario Seminerio, curatore del blog Phastidio

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Alla vigilia del primo maggio, torna anche il frastuono retorico sulla difficile condizione del mercato italiano del lavoro. Tutti sono impegnati a cercare cause e rimedi della mancata crescita delle retribuzioni e a svuotare cassetti pieni di proiettili d’argento. La produttività non cresce, e siamo d’accordo. Ma se crescesse, e dove è cresciuta, verrebbe e viene redistribuita o tesaurizzata negli utili aziendali e nella remunerazione del capitale?

E la crisi demografica, che sta sfiancando a morte questo paese e trasformandolo in un parco a tema per ricchi turisti, come si inverte? Tutte cose già dette, lette e scritte. Intanto, la demografia scava su archi temporali incoerenti con i tempi della politica, che punta alla prossima elezione, incluse quelle locali. Quindi ha un indubbio “vantaggio” strategico, quando prende una direzione maligna.

PIÙ OCCUPATI MA IMPOVERITI?

Poi c’è tutta la sequenza di criticità, in ordine di caos: abbiamo pochi laureati e quelli che abbiamo e non emigrano si trovano spesso in lavori con contenuti professionali inferiori alle loro competenze. Di certo, la soluzione non consiste nell’importare laureati anche se, importando persone senza qualifiche ed esportando laureati, la nostra produttività farà una brutta fine.

Però i numeri del mercato del lavoro sono molto tonici: forse troppo, rispetto al tasso di crescita. Che sia conseguenza dell’invecchiamento della popolazione, che aumenta in modo inerziale la quota di occupati, oppure accaparramento di forza lavoro da parte delle imprese, il dato esiste ed occorre farci i conti. Possiamo dire che l’Italia cresce anche perché la sua forza lavoro costa progressivamente meno in termini reali? Ma se le cose stessero così, avremmo un effetto negativo sullo sviluppo della digitalizzazione e dell’automazione, in termini di prezzi relativi tra lavoro e capitale.

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Poi ci sono le piccole e medie imprese, considerate responsabili dell’andamento esangue della produttività. Generalizzare non è mai utile ma possiamo dire che una parte del sistema produttivo italiano è destinata a fungere da ammortizzatore dei costi per l’ecosistema delle imprese, anche quando si tratta di realtà che non operano nel sommerso.

Aumentare la dimensione media d’impresa servirebbe? Forse, ma non è automatico. In alcuni casi, le inefficienze si sommerebbero. Non basta dire che la spesa in ricerca e sviluppo è positivamente correlata alla dimensione media aziendale. Senza contare che il sistema proprietario con tutta probabilità non ha particolare appetito per perdere il controllo aziendale o mettersi altri soci in casa. E questo è un elemento su cui riflettere, quando vediamo le spinte forsennate a portare in quotazione le Pmi più strutturate e promettenti, quasi fosse la linea del Piave del sistema paese. Se l’imprenditore ritiene, a torto o a ragione, che ricorrere a capitale di rischio esterno sia più costoso rispetto al tradizionale credito bancario, non vedo come bonus di quotazione e sgravi sui costi di consulenza propedeutica alla medesima siano utili a portare il cavallo a bere, cioè a quotarsi.

Esistono imperfezioni competitive del mercato del lavoro italiano? Cose del tipo potere di monopsonio e patti di non concorrenza applicati ai lavoratori in modo tale da soffocare la contrattazione? Si indaghino e si verifichi, anche a livello territoriale.

Esiste una penalizzazione oggettiva al lavoro dipendente, in termini di costi e oneri fiscali e parafiscali? Certamente sì, e la condizione dell’Irpef lo testimonia. Progressivamente svuotata e destinata a stringere il cappio attorno al collo dei lavoratori “ad alto reddito”, che confrontato con quello di altri paesi europei mostra che il nostro sta diventando un paese di straccioni. Veri e finti, come accade al lavoro autonomo col regime forfettario, che concorre attivamente alla distruzione del sistema dell’Irpef e ostacola la crescita dimensionale.

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Poi ci sono i “rimedi” da primo maggio, cioè i proiettili d’argento di una propaganda imbolsita. Come il salario minimo, la leva con cui la segretaria del Pd e i suoi sodali-coltelli di coalizione pensano di riuscire a sollevarsi da terra tirandosi per le stringhe delle scarpe. “Aumentiamo la domanda interna col salario minimo!” Che tenerezza.

Poi, nel ricco campionario di proiettili d’argento, c’è la formula magica: “detassiamo la contrattazione integrativa!”. Servirebbero coperture e meccanismi per evitare enormi elusioni fiscali e contributive. Perché di detassazione e decontribuzione si muore, e questo paese è ben avviato su quella strada, a partire dal regime dei forfettari passando per gli 80 euro di Renzi divenuti 100 con Conte per arrivare alla decontribuzione/defiscalizzazione per chi sta sotto la soglia del benessere italiano dei 35 mila lordi annui realizzata dal governo Meloni. È tutto un ritagliare spazi e comprare pacchi di voti, alla fine.

E ancora: “aboliamo i contratti pirata!”. Facciamolo ma al contempo teniamo presente che quei contratti sono la reazione all’onerosità di sistema e la spinta al decentramento della contrattazione a livello aziendale. Rompere il termometro fa scomparire la febbre?

Praticamente nessuno dice che il re, più che nudo, è morto. E parlo del re della contrattazione collettiva nella sua forma attuale. Che resta nazionale con la catena cortissima (per motivi fiscali) di quella integrativa aziendale. Decentrare davvero a livello aziendale e territoriale permetterebbe di inserire in modo meno disorganico la leva del salario minimo, sia pure con grande attenzione per evitare fughe nel sommerso.

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Per tutto il resto, ci sono i referendum della Cgil che guardano al passato e servono soprattutto alla sedicente coalizione progressista per trovare punti di contatto immaginari, e al segretario generale della Cgil per porsi come nume tutelare (i.e. federatore), oppure addirittura come front runner per le elezioni del 2027. Cosa piuttosto improbabile, visto che quel posto spetterà di diritto a Giuseppe Conte. Perché? Perché o così o niente, è scritto nei fatti. Dubito vedremo la chitarra di Elly Schlein a Palazzo Chigi ma posso sbagliarmi e due anni sono un’eternità anche in un paese che muore sotto l’imbalsamazione, come il nostro.

Un paese zavorrato da pesantissimi oneri di sistema, a cui si tenta di rimediare con pezze non meno costose per la fiscalità generale, e per i pochi intimi che restano prigionieri di un’Irpef sempre più simile a un cappio, non porta esiti virtuosi. E il sistema delle parti sociali e della rappresentanza produce sempre più vertici confindustriali e sindacali che oscillano tra il velleitarismo e l’inconsistenza. Fate caso alla sequenza dei presidenti di Confindustria negli ultimi anni. Certo, l’organizzazione ha ormai raggiunto un grado di eterogeneità degli associati tale da far pensare che l’unico modo per smettere di farla soffrire sia il suo scioglimento. Del lato sindacale, ho detto. Cgil con velleità di dominus della coalizione progressista, Uil suo ruotino di scorta, Cisl riformista esangue che sogna la Mitbestimmung tedesca e non si accorge che tutto cambia a velocità incredibile, fuori dai confini di questo sclerotizzato paese, il cui dibattito pubblico sembra alimentato da ricerche su Internet Explorer.

Nel recente libro “La questione salariale“, un ottimo compendio di tutto quello che sappiamo necessitare di riforma, l’economista Andrea Garnero e il giornalista Roberto Mania si chiedono se sia giunto il momento, per la politica, di ritirare o ridimensionare uno dei totem di questo paese, l’affidamento della contrattazione alle parti sociali, visti i risultati assai poco confortanti sin qui conseguiti. Suggestione interessante ma mi chiedo: con questa classe politica, e col fatto che a sinistra stanno invece cercando (non so se per convinzione o per scelta tattica di coalizione immaginaria) di resuscitare l’idea vintage (i.e. ammuffita) del ruolo centrale del sindacato come demiurgo del modello di sviluppo, siete sicuri che sia una buona idea?

Buon primo maggio.

Articolo pubblicato sul blog phastidio.net



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