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Aiuti all’Africa: USA e UE frenano, il Golfo accelera


Dopo i tagli dei finanziamenti occidentali, il continente diventa terreno di conquista per nuovi player

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Con la dismissione di USAID voluta da Trump e l’UE alle prese con la crisi economica della Germania e il conflitto in Ucraina, per altre potenze si aprono spazi di manovra per venire incontro alle richieste di sostegno del continente. Qatar in testa tra le monarchie del Golfo

Il principe saudita Mohammed bin Salman con il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa)

Il report diffuso il 23 aprile dalla European Training Foundation (ETF), dal titolo “Impact of USAID withdrawal on global education and skills development”, segnala che nel gennaio 2025 con la chiusura dell’agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale sono stati cancellati 396 programmi educativi attivi in ​​58 paesi in tutto il mondo.

Nel 2024 il budget stanziato per l’agenzia dal Congresso americano era stato di 1,2 miliardi di dollari: soldi destinati soprattutto a Medioriente e Nordafrica (341 milioni) e Africa subsahariana (275 milioni), con quest’ultima regione che ha beneficiato del maggior numero di programmi finanziati (153).

Nella lista dei 25 paesi che nel triennio 2022-2024 hanno ricevuto più fondi ci sono molti stati africani: Egitto, al secondo posto dietro la Giordania, poi Malawi, Kenya, Repubblica democratica del Congo, Senegal, Liberia, Somalia, Mozambico, Nigeria, Uganda, Etiopia, Zambia e Tanzania.

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Secondo il report di ETF a colmare il vuoto causato dalla chiusura di USAID voluta dall’amministrazione Trump, e a cui presto potrebbe sommarsi anche un giro di vite sulla presenza di presidii e personale diplomatico statunitense in Africa, saranno già nel breve periodo altri attori: la Cina in primis, attraverso nuovi prestiti e investimenti in infrastrutture, e in parallelo i paesi del Golfo, l’India, la Corea del Sud e la Turchia, tramite accordi commerciali ed energetici e interventi di soft power.

Se per la Russia è prevedibile un aumento delle attività di penetrazione militare e di propaganda soprattutto nel Sahel, l’Unione Europea appare invece molto più concentrata su altri fronti: quello economico, aggravato dalla crisi tedesca; e quello della difesa, con gli stati membri che in ordine sparso stanno aumentando la spesa pubblica destinata a questo settore e Bruxelles alle prese con il tentativo di non farsi scavalcare del tutto da Trump nella ricerca di una mediazione con Mosca.

Europa al risparmio 

A inizio marzo Africa Confidential ha pubblicato un’interessante analisi, “Western aid cuts reshape the geopolitical landscape”, che inquadra prospettive e soprattutto limiti dell’azione dei paesi UE in Africa ora che gli aiuti destinati allo sviluppo del continente iniziano a scarseggiare, e non solo per via dello stop imposto a USAID da Trump.  

L’UE rimane il principale partner commerciale dell’Africa subsahariana, con scambi che ammontano a circa 300 miliardi di dollari all’anno. L’Unione esporta nella regione soprattutto macchinari, prodotti chimici e veicoli, mentre importa materie prime, minerali e petrolio. Il primato regge ma non sarà così ancora per molto, considerato l’aumento costante delle importazioni dell’Africa subsahariana dalla Cina e la presenza sempre più capillare di altri attori.

Sul piano degli aiuti, tutti i paesi membri dell’Unione stanno mediamente rivedendo i loro budget al ribasso. Dal 2022 la Germania ha tagliato il suo di oltre 5,3 miliardi di dollari. La Francia prevede di sforbiciarlo di oltre 1 miliardo di dollari entro quest’anno. A febbraio, i Paesi Bassi hanno presentato un piano di riduzione di 2,4 miliardi di euro a partire dal 2027, alleggerendo soprattutto gli interventi per l’adattamento alla crisi climatica e per la parità di genere.

I soldi risparmiati andranno in altre direzioni, qui come in buona parte del Vecchio continente: gestione dei flussi migratori e, ovviamente, difesa. Vale anche per il Regno Unito, dove gli aiuti allo sviluppo rispetto al 2020 saranno più che dimezzati entro il 2030, con quasi la metà del bilancio da destinare agli aiuti allo sviluppo che verrà spesa internamente per i richiedenti asilo.

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Chi approfitterà di più delle limitate possibilità di investimento in aiuti allo sviluppo dell’UE in Africa sono i paesi del Golfo, come segnalato in un policy brief di fine marzo pubblicato dal Consiglio europeo per le relazioni estere, intitolato “Diversification nations: the Gulf way to engage with Africa”.

Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar sono le potenze più in grado di riempire nell’immediato il vuoto di liquidità lasciato in Africa da Stati Uniti ed Europa.

Una capacità che sono in grado di far fruttare al meglio per tre motivi: nel proporsi a sostegno dei paesi africani non soffiano sulla retorica anti-occidentale, a differenza della Russia, evitando così di inimicarsi Stati Uniti e UE con cui vogliono continuare a fare affari; la loro offerta di cooperazione non si discosta molto dagli standard occidentali, ma è generalmente più flessibile, rapida e non chiede in cambio contropartite come ad esempio maggiori garanzie sulla tutela dei diritti umani; in questi stati le agende dei governi e dei player economici coincidono sempre, rispondendo entrambe ai diktat delle rispettive famiglie reali, e ciò accelera enormemente l’erogazione di investimenti una volta individuato il partner da “soccorrere” su cui puntare.

Nel blocco del Golfo il Qatar è il più incline a fare leva su azioni di soft power. Nel 2022 la piccola monarchia ha promesso una donazione di 200 milioni di dollari per progetti di adattamento climatico nei paesi africani più vulnerabili, da destinare a programmi contro la siccità e le inondazioni ma anche per estendere l’accesso all’energia elettrica nelle comunità rurali attraverso l’uso di fonti rinnovabili.

Nel 2024 ha contribuito alla creazione del Virunga Africa Fund I, un piano di finanziamenti da 250 milioni di dollari lanciato dal Kigali International Financial Centre (KIFC) per migliorare i servizi sociali e far crescere le imprese private in settori innovativi in ​​Rwanda e in altre parti dell’Africa.

Sono tutti interventi che nel breve-medio termine hanno prodotto effetti benefici per il Qatar, migliorando significativamente la sua reputazione nel continente e ampliando al contempo il raggio della sua sfera di influenza.

Doha si è così ritagliata un ruolo di primo piano nella mediazione dei conflitti nel continente: lo ha fatto nel Darfur, nella disputa per i confini tra Eritrea e Gibuti, negli sforzi di riconciliazione nazionale in Somalia e, recentemente, portando al tavolo delle trattative nel marzo scorso i presidenti di Rwanda e RDC, Paul Kagame e Félix Tshisekedi, per fermare le violenze innescate dall’avanzata del movimento ribelle M23.

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In questa strategia il Qatar può fare perno sulle proprie immense riserve di gas naturale liquefatto (GNL) che da una parte continuerà ancora a lungo a essere richiesto e consumato in Africa al pari del petrolio (ad oggi nel continente le fonti fossili coprono il 40% della domanda energetica) e, dall’altra, è una fonte più “pulita” rispetto al greggio e, quindi, meglio sopportata per il momento nel processo globale di transizione energetica. 





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