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Il Documento di finanza pubblica è un documento composito a contenuto macroeconomico, che da rilevanza alla nuova disciplina di bilancio europea, incentrata sulla sostenibilità del debito, seguendo la Debt Sustainability Analysis stabilita in sede UE. Il DFP valorizza, quale premessa, il piano strutturale di bilancio di medio termine in cui viene decisa la misura della pressione fiscale e, quindi, l’entità prevista delle entrate tributarie; a seguire si può dar corso alle scelte di finanza relative alle uscite. Nel senso che, quando è nota la torta delle risorse di cui si può disporre, un razionale assetto decisorio richiederebbe che si ragionasse in termini di quota parte della torta, in percentuale, che deve essere destinata al finanziamento delle varie categorie di spese. E se il dibattito politico e parlamentare si svolgesse in modo che gli elettori possano avere informazioni chiare su chi vuol fare che cosa, indicando come la torta di risorse disponibili deve essere ripartita tra le varie tipologie di spesa, sarebbe consentito loro di farsi un’opinione sulle scelte di ciascuna parte politica e di scegliere conseguentemente. Ci saranno politici coraggiosi per innovare questo scenario nel futuro?

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Il Documento di finanza pubblica è un documento composito che valorizza, in particolare, quale premessa, il Piano strutturale di bilancio di medio termine 2025-2029. Le nuove regole europee considerano in primo luogo i termini di gradualità dell’aggiustamento di bilancio, di anticiclicità, di orizzonte di programmazione e di integrazione tra le varie componenti della politica economica. Si tratta, quindi, di un elaborato a contenuto macroeconomico che da rilevanza alla nuova disciplina di bilancio europea, incentrata sulla sostenibilità del debito seguendo la cosiddetta Debt Sustainability Analysis (DSA) stabilita in sede UE. Con esso il Governo ha rivisto al ribasso la stima di quest’anno del deficit in termini di PIL, dal 4,3 al 3,8 per cento e conferma l’obiettivo di ridurre l’indebitamento a meno del 3 per cento del PIL nel 2026. Senza entrare nei particolari tecnicismi del documento, è doveroso restringere l’analisi allo spazio fiscale risultante tra andamenti del saldo nominale primario e quello a legislazione vigente, finalizzato al finanziamento delle politiche invariate e delle nuove misure che il Governo intende adottare. Specifiche misure di politica fiscale sono destinate a procurare risorse derivanti dall’adempimento collaborativo ed altre mirano a contrastare l’evasione fiscale, mentre sembrano meno forti quelle di contenimento delle uscite.

Un breve cenno va fatto al percorso macroeconomico di finanza pubblica, contenuto nel DFP, per rilevare come il nostro Paese, come tutta l’Europa, è pienamente esposto a diverse tendenze di fondo, quali il calo demografico, i cambiamenti climatici e la riconfigurazione delle catene del valore globali. Non è ancora chiaro, secondo il DFP quale sarà il punto di arrivo della transizione né quale ruolo riuscirà a rivestire il continente europeo nel contesto globale alla fine del processo. L’esito finale dipenderà anche dalla capacità dei Paesi dell’Unione europea di sfruttare al massimo le opportunità offerte da questo momento di transizione.

Il quadro innanzi delineato evoca le discussioni parlamentari della legge di Bilancio sulla sostenibilità dei conti pubblici. Il pareggio di bilancio è, infatti, sancito da una norma costituzionale, l’art. 81 in particolare, col quale occorre misurarsi. La sovranità del Parlamento sulle decisioni di finanza pubblica inserite nella legge di Bilancio non può essere, infatti, sconfinata e trova un naturale limite nell’osservanza del citato precetto costituzionale. Le modalità con cui si realizzano gli equilibri di bilancio possono però cambiare in sede di discussione parlamentare. Se si vogliono prevedere nuove spese occorre indicare le relative coperture (entrate) in modo che il saldo di bilancio resti invariato. A questo assetto normativo deve aggiungersi, però, un metodo decisorio che sia razionale e di sistema.

Credo non ci siano dubbi sul fatto che si debba innanzitutto stabilire quale deve essere l’apporto dei contribuenti alla spesa pubblica in termini di imposte, tasse e contributi. In genere questa misura viene espressa in termini di rapporto (pressione fiscale) tra le entrate tributarie e ricchezza nazionale (il PIL). La scelta rientra nelle grandi prerogative del Parlamento ed ha natura politica, dipendendo dalla sensibilità delle varie forze politiche di dosare in misura maggiore o minore la leva fiscale. S’intende che in questa sede dovrà essere verificata la fattibilità delle esortazioni delle forze politiche che richiedono una riduzione delle “tasse”. S’inserisce a questo punto sempre la polemica politica tra chi ritiene che ci siano un partito delle tasse ed uno delle spese, spesso disarticolando le due cose, cioè propugnando la riduzione delle tasse ma non quella delle spese.

 

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Una volta decisa la misura della pressione fiscale e, quindi, l’entità prevista delle entrate tributarie, considerando quelle non tributarie di scarsa consistenza, si può dar quindi corso alle scelte di finanza relative alle uscite. Nel senso che, quando è nota la torta delle risorse di cui si può disporre, un razionale assetto decisorio richiederebbe che si ragionasse in termini di quota parte della torta, in percentuale, che deve essere destinata al finanziamento delle varie categorie di spese: sanità, istruzione, sicurezza interna, difesa, politica estera, welfare nelle varie declinazioni (pensioni, politiche di assistenza ed altre spese sociali, ecc.), politiche economiche di sostegno all’economia. È in questo dibattito che si vedono le differenze tra i vari partiti nelle politiche delle spese sociali ed il contenimento, ad esempio, delle spese militari o gli aiuti all’economia e quelli che propugnano un minore Stato assistenzialista e, comunque, meno interventista in economia, con tutte le possibili varianti tra le due posizioni. Se il dibattito politico e parlamentare si svolgesse in modo che gli elettori possano avere informazioni chiare su chi vuol fare che cosa indicando come la torta di risorse disponibili deve essere ripartita tra le varie tipologie di spesa, sarebbe consentito ai cittadini di farsi un’opinione sulle scelte di ciascuna parte politica e di scegliere conseguentemente.

È facile obiettare che tutti vorrebbero maggiori spese sociali o di altro tipo assistenziale per blandire il proprio elettorato, ma si vedrebbero le differenze nella coerenza complessiva della spesa pubblica. Se ci sono, infatti, spese pubbliche pressoché fisse (spese per il personale e per le pensioni ed altre spese per il funzionamento dell’apparato amministrativo-burocratico, trasferimento alle Regioni ed enti locali, oneri a servizio del debito pubblico per interessi e riduzione del debito), le scelte vere tra le altre spese riguardano il residuo della torta. E qui dovrebbero venir fuori le differenti politiche della spesa, senza alibi, confusioni e furbizie e le discussioni sulle relative coerenze e compatibilità di finanza pubblica.

Eventuali sforamenti finanziati a debito (pubblico) dovrebbero richiedere future maggiori risorse per il relativo ammortamento, derivanti dalla maggiore crescita (aumento della torta) o da riduzione di altre spese. Tertium non datur.

In questo contesto avrebbero anche senso le scelte di carattere fiscale che ciascun partito può fare tra le varie opzioni (imposte sul patrimonio, tra cui quelle sulla casa, imposte sui redditi delle persone fisiche e delle società ed enti, IVA ed altre imposte indirette). Esse hanno sicuramente un impatto politico che sarebbe giudicato dagli elettori, che hanno bisogno di chiarezza per scegliere a loro volta.

Ci saranno politici coraggiosi per innovare questo scenario nel futuro?

È utopistico pensare di sì?

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