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Escalation India-Pakistan: cosa sta succedendo e come siamo arrivati fin qui


Nella notte tra il 6 e il 7 maggio, l’esercito indiano ha lanciato un attacco missilistico contro quelle che ha definito come nove “infrastrutture terroristiche” di organizzazioni con sede in Pakistan e collegate all’attentato in Kashmir del 22 aprile. Sono state colpite principalmente tre aree: Muzaffarabad e Kotli, nel Kashmir amministrato dal Pakistan, e Bahawalpur nella provincia pakistana del Punjab.

 

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L’attacco indiano è stato denominato “Operazione Sindoor”; Sindoor è il termine hindi per il vermiglio, un pigmento rosso che le donne hindu sposate applicano sulla fronte. Il nome dell’operazione militare indiana fa riferimento al modo in cui gli attentatori, durante l’attacco a Pahalgam del 22 aprile, hanno separato i turisti maschi dalle donne, identificando quelli non musulmani prima di ucciderli, lasciando vedove le mogli hindu. Tradizionalmente, il sindoor non viene più indossato dopo la morte del marito.

Il Pakistan, che ha negato qualsiasi coinvolgimento nell’attentato dello scorso mese, ha descritto gli attacchi come “ingiustificati”, con il primo pinistro Shehbaz Sharif che ha affermato che “l’atroce atto di aggressione non rimarrà impunito”.

Cosa ha riacceso le tensioni tra Pakistan e India?

Nel pomeriggio di martedì 22 aprile è stato aperto il fuoco su una folla di turisti poco distante dalla città di Pahalgam, nella regione del Jammu e Kashmir, amministrata dall’India. A rivendicare l’attacco, che ha provocato almeno 26 morti, è stato il gruppo terroristico “Fronte della Resistenza”, una frangia affiliata al gruppo pakistano “Lashkar-e-Taiba”. Il governo indiano ha subito identificato tre potenziali sospetti, due provenienti dal Pakistan e uno dal Nepal, e ha immediatamente ipotizzato, per la precisione e il metodo con cui è stato condotto l’attacco, un coinvolgimento dell’esercito di Islamabad nella vicenda. L’episodio ha avuto luogo durante una visita diplomatica nel Paese da parte del vicepresidente USA JD Vance, in viaggio per incontrare diversi esponenti del governo di New Delhi e discutere le prospettive della partnership tra le due nazioni. La risposta indiana non si è fatta attendere e il giorno successivo all’attacco sono state disposte una serie di manovre diplomatiche e commerciali: New Delhi ha immediatamente sospeso i visti per il Paese e dichiarato il ministro della Difesa di Islamabad persona non grata, entrambe misure applicate parimenti anche dal Pakistan; sul piano economico ha invece proibito l’import di petrolio dal Pakistan, bloccato le comunicazioni postali e impedito l’accesso delle navi pakistane nei porti del Paese, così come l’accesso allo spazio aereo. Tuttavia, a misura più notevole è stata la sospensione del Trattato delle Acque dell’Indo, un accordo con cui veniva ripartito tra i due Paesi lo sfruttamento delle acque del fiume, in essere dal settembre 1960.

Come siamo arrivati fino a qui?

La contesa della regione del Kashmir tra India e Pakistan risale al momento dell’indipendenza dall’Impero Britannico: da allora, si sono susseguiti momenti di scontro a periodi di accordi, formali o informali, per l’amministrazione di questi territori. I conflitti veri e propri tra i due si sono verificati in quattro occasioni:

  • a ridosso dell’indipendenza nel 1947-48, scontro conclusosi poi gli accordi di Karachi per una suddivisione del controllo sul Jammu e Kashmir;
  • un’altra guerra Indo-Pakistana nel 1965;
  • un intervento militare indiano nella guerra per l’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan nel 1971;
  • la guerra che scoppiò dopo la tentata occupazione pakistana delle alture del Kargil, nel 1999.

Dal 2000 ad oggi si sono inoltre registrati diversi attacchi che, pur non avendo originato un conflitto su larga scala, hanno preso di mira obiettivi sia civili – per lo più turisti, come nel caso di questo attacco – che militari, come l’attentato di Pulwama del 2019, a cui l’India rispose con un raid aereo mirato contro un avamposto terroristico in territorio pakistano. L’attacco seguiva la revoca unilaterale da parte dell’India dello stato di parziale autonomia al Kashmir (che aveva due zone di amministrazione, una indiana e una pakistana) e la sua successiva suddivisione in due regioni, quella di Jammu a sud-ovest e Ladakh a nord-est, sotto il controllo di New Delhi.

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Come si muove la Cina?

Pur in assenza di scontri frequenti su larga scala, le relazioni tra India e Pakistan si sono mantenute negli ultimi anni in uno stato di tensione latente sul piano commerciale, diplomatico e di sicurezza. Fece infatti scalpore la presenza del ministro degli Affari esteri di New Delhi S. Jaishankar all’incontro ministeriale dello Shanghai Cooperation Organization (SCO) tenutosi il 15-16 ottobre 2024 a Karachi, in Pakistan. Allo stesso tempo, gli assetti nella regione sono dettati principalmente dalla competizione tra potenze sul piano economico. In particolare, la Cina intrattiene rapporti con tutti i principali attori regionali. Se con l’India il rapporto rimane teso, con il Pakistan si è instaurata una partnership solida e duratura. Anche grazie alla sua posizione geografica, in quanto garantisce uno sbocco sul Mar Arabico, il Pakistan è infatti un anello fondamentale del progetto della Belt and Road Initiative (BRI) con il China-Pakistan Economic Corridor. Oltre agli investimenti infrastrutturali, la Cina è il principale partner commerciale del Pakistan e la principale fonte di importazioni. Secondo i dati della dogana cinese, il commercio bilaterale totale di beni tra Cina e Pakistan ha raggiunto i 23,1 miliardi di dollari nel 2024, con un aumento dell’11,1% rispetto all’anno precedente. Di questo interscambio fanno parte anche le armi, che Islamabad compra sempre di più dalla Cina e meno da Stati Uniti e altri paesi occidentali.

La crescente influenza cinese alimenta la competizione con l’India, con cui è in sospeso anche la questione del confine conteso, sulla quale c’è stata apparente distensione a ottobre 2024. La rivalità tra i due giganti asiatici si gioca soprattutto nei Paesi dell’Asia meridionale, come il Bangladesh e lo Sri Lanka, che stanno attraversando importanti transizioni politiche interne e fanno grande affidamento sia su Pechino che su New Delhi per ottenere il supporto finanziario necessario per la loro ripresa economica, cosa che non viene vista di buon occhio dall’amministrazione Modi. Infine, pur aspirando alla leadership del Sud Globale, l’India punta ugualmente a mantenere ottime relazioni con l’Occidente, soprattutto sul piano economico: lo testimoniano l’accelerazione nelle procedure per la realizzazione di un accordo di libero scambio con l’Unione Europea e, soprattutto, la recente visita del vicepresidente USA Vance, per trovare maggiore allineamento nel campo della cooperazione bilaterale.

E gli Stati Uniti?

Donald Trump ha commentato la vicenda in modo piuttosto vago: “È un peccato. Ho appena sentito della cosa. Penso che la gente sapesse che qualcosa sarebbe successo, basandosi su un po’ del passato. Si sono combattuti per molto tempo, per molte, molte decadi. Spero che finisca molto rapidamente.” Nonostante il commento superficiale, è probabile che la diplomazia statunitense stia comunque facendo pressione per evitare una vera escalation. In passato, l’India ha rifiutato l’intervento esterno nella disputa sul Kashmir, mentre il Pakistan ha cercato il sostegno internazionale a favore della propria posizione. Tuttavia, nella crisi attuale, l’India ha chiesto l’aiuto degli Stati Uniti per fare pressione sul Pakistan affinché ponga fine all’infiltrazione di militanti oltreconfine nel territorio conteso. Gli Stati Uniti hanno inoltre acquisito una significativa influenza sul governo pakistano nell’ultimo anno, dopo che Islamabad ha deciso di unirsi alla coalizione internazionale nella guerra globale contro il terrorismo.

Il legame più solido però ad oggi è sicuramente quello tra India e USA. L’India, infatti, ha acquisito un ruolo sempre più centrale nella politica internazionale e nella strategia del Pivot to Asia degli Stati Uniti. A guidare questa ascesa è stata in gran parte la crescita economica del paese, che ha saputo sfruttare anche la graduale ridefinizione delle catene del valore globale che abbiamo osservato negli ultimi anni. Allo stesso modo, New Delhi è riuscita a mantenere una posizione neutrale nella competizione tra le grandi potenze, acquistando petrolio russo ma avvicinandosi agli Stati Uniti per contenere l’espansione dell’influenza di Pechino. Il rafforzamento dei legami tra India e Stati Uniti si è tradotto anche in un consistente acquisto di equipaggiamenti militari da parte dell’India, per miliardi di dollari, da USA e altri fornitori occidentali, riducendo drasticamente la sua dipendenza dalle forniture russe in questo settore. In questo contesto, con il Pakistan più ancorato all’influenza cinese e l’India che si avvicina a Washington, è inevitabile considerare il conflitto come un potenziale tassello all’interno della più ampia competizione tra Stati Uniti e Cina. Tuttavia, New Delhi ha dimostrato di saper rimanere fedele alla sua politica di non allineamento, perseguendo i propri interessi anche a costo di far storcere il naso all’Occidente. Per questo motivo, sebbene gli Stati Uniti e la Cina possano giocare un ruolo nel conflitto, è importante ricordare la natura storica e radicata che lo caratterizza, una caratteristica che potrebbe renderlo più impermeabile alle pressioni esterne.

Cosa succede ora?

Sulla base dei precedenti e della natura dell’Operazione Sindoor, un’escalation su larga scala sembra comunque improbabile. L’India si è impegnata a mantenere l’attacco su obiettivi non militari ma legati a gruppi terroristici, secondo la propria intelligence, nel tentativo di mitigare la possibilità di escalation da parte del Pakistan. Nonostante la minaccia di ritorsioni, la risposta di Islamabad, limitata a fuoco d’artiglieria e dichiarazioni di condanna, rientra in uno schema già visto. I precedenti storici (come gli attacchi del 2016 e del 2019) indicano che le due parti potrebbero ora orientarsi verso una de-escalation attraverso i canali diplomatici, spinte anche dalle pressioni internazionali, in particolare dagli Stati Uniti. Tuttavia, le tensioni resteranno elevate, soprattutto in Kashmir, dove a pagare il prezzo più alto continuano a essere i civili. Il rischio di ricadute regionali, soprattutto nei Paesi vicini del Sud Asia, potrebbe aggravare ulteriormente la situazione, anche in assenza di un conflitto aperto.



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