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Parisi: «Urgente un piano per attrarre in Europa i ricercatori americani»


di
Riccardo Luna

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Il Nobel per la Fisica: l’intelligenza artificiale non è una battaglia persa, si può recuperare il ritardo

«Il piano del governo italiano per attirare i ricercatori americani che vogliono lasciare l’America di Trump è una cosa giusta. Come Europa abbiamo il dovere di accoglierli ma anche l’opportunità di far crescere il nostro capitale umano esattamente come accadde negli anni Trenta quando tanti scienziati dovettero lasciare l’Europa a causa delle leggi razziali e andarono in America dove contribuirono alla crescita scientifica e tecnologica che ebbero gli Stati Uniti. Ovviamente la situazione è diversa da allora, ma le minacce del governo Usa all’indipendenza degli atenei sono reali e stanno spingendo molti ricercatori a porsi il problema di dove continuare il proprio lavoro. Il piano presentato dal ministro Bernini è un segnale importante ma le dimensioni non sono sufficienti». Il premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi, 76 anni, è in un salottino dell’Accademia dei Lincei dove da poco si è conclusa una riunione del consiglio direttivo che per l’ennesima volta ha fatto un appello per aumentare i fondi per la ricerca.

Faceva parte dell’Accademia dei Lincei anche un altro premio Nobel per la Fisica, Enrico Fermi, che nel 1938, a causa delle leggi razziali, lasciò l’Italia per approdare prima a New York e poi a Chicago dove ebbe un ruolo chiave nel «progetto Manhattan» che portò alla realizzazione della bomba atomica. Nel 1932 era stato Albert Einstein a lasciare la Germania nazista per accasarsi a Princeton (l’università che si è vista sospendere 210 milioni di dollari di fondi dal governo americano); e dopo di lui partirono molti altri. Lo poterono fare perché nel 1933 era stato creato un fondo per accogliere gli studiosi in fuga dal nazismo: «The Emergency Committee in Aid of Displaced Foreign Scholars». Dice Parisi: «Serve un piano di scala europea. Abbiamo una grande opportunità per recuperare il ritardo in tanti settori, in particolare sull’intelligenza artificiale». L’incontro era stato fissato per parlare degli ultimi sviluppi dell’intelligenza artificiale e di «Disclaimer», il tour nelle università che il Corriere della Sera e il Cineca hanno annunciato per rendere tutti più consapevoli di questa ennesima rivoluzione tecnologica. Salvifica o addirittura esiziale, come dicono alcuni, per la specie umana? «Io penso che sarà una favola a lieto fine. Ovviamente ci possono essere problemi ma sta a noi evitare che ci siano».




















































A ogni rivoluzione tecnologica si è temuta la fine del mondo. Non è che a forza di gridare «al lupo al lupo» quando il lupo arriverà davvero non ce ne accorgeremo più? Stiamo sottovalutando i rischi?
«È chiaro che se a un aumento della produttività non si accompagna una riduzione dell’orario di lavoro si crea disoccupazione, su questo dovremo vigilare. Un altro problema sarà il rapporto con i testi scritti e vedo un impatto sul mondo dell’informazione: se le persone si accontentano dei riassunti fatti dall’intelligenza artificiale delle notizie pubblicate sui giornali, chi si abbonerà più ai giornali? Ma se i giornali chiudono, cosa riassumerà l’intelligenza artificiale?».

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Quando è arrivata l’intelligenza artificiale generativa qualcuno l’ha definita «un pappagallo stocastico» che indovina una successione di parole. Sta diventando qualcosa di più?
«È stata addestrata come un pappagallo a stocastico, su questo non c’è nessun dubbio, ma a forza di indovinare sta diventando un pappagallo che qualcosa capisce».

Comincia ad avere un’idea di mondo?
«Direi di no. L’intelligenza artificiale è assolutamente disincarnata: può parlare di tristezza però non l’ha mai provata e non ha un’idea di cosa sia davvero. Praticamente connette parole con altre parole senza avere poi il senso di quello che succede. L’altro limite è il fatto di avere delle allucinazioni, cioè di dare delle risposte false con assoluta certezza».

Lei una volta ha raccontato di aver convinto l’intelligenza artificiale che 4 per 5 fa 25. Oggi Chat GPT lo sa che 4 per 5 non fa 25.
«I modelli sono migliorati enormemente e tutta una serie di errori non li fanno più. Ma ogni tanto inventano delle risposte: recentemente un chatbot ha inventato delle citazioni per un mio articolo. La domanda chiave da fare sempre è: ne sei proprio sicuro? Una volta mi ha detto: no, ho tirato a indovinare».

Il professor Nello Cristianini afferma che gli ultimi modelli sono a livello dell’intelligenza umana. Concorda con chi dice che questo è l’ultimo anno in cui la specie umana è la più intelligente sul pianeta Terra?
«Ma no, perché intanto vorrei vedere questi modelli che inventano cose nuove. L’intelligenza artificiale non può inventare il futuro. Ha la conoscenza di tutto quello che ha scritto l’umanità e lo ricombina. Anche la nostra creatività mette assieme tutto quello che abbiamo letto, imparato, sentito, provato e vissuto e da lì genera delle idee. Però il futuro non si crea tirando a indovinare ma cercando di combinare l’esperienza con un’idea di mondo. Che i chatbot non hanno».

Quindi concorda con il filosofo Miguel Benasayag il quale sostiene che «Chat GPT non pensa»?
«Dovremmo definire esattamente cosa sia il pensiero e supporre che gli umani pensino. È evidente che le macchine fanno qualcosa di diverso anche se, come dice Amleto, c’è del metodo nella loro pazzia. Però fanno cose completamente coerenti e in qualche caso ci aiutano tantissimo. Ad esempio le traduzioni sono diventate molto buone, a volte migliori di quelle fatte da un essere umano. Io l’ho usata per controllare la qualità della traduzione di un mio libro in cinese e ho scoperto delle inesattezze dei traduttori umani».

Come cambia il lavoro di voi scienziati? A lei è di aiuto?
«Mi ha molto impressionato una cosa: avevo scritto delle formule a mano nella mia cattiva calligrafia e l’intelligenza artificiale non solo me l’ha lette, le ha messe in ordine in un formato matematico e ha aggiunto i commenti giusti fra una formula e l’altra. Proprio un bravo pappagallo!».

Quasi tutta questa partita si gioca tra la Silicon Valley e la Cina. Il ruolo marginale degli attori pubblici è un problema non banale, no?
«Assolutamente. C’è bisogno di un’iniziativa transnazionale come per esempio il Cern, ovvero di un grosso laboratorio nel quale ci siano un migliaio di scienziati che lavorino assieme. Al punto in cui siamo la cosa fondamentale non è tanto l’hardware, cioè gli investimenti nei supercomputer, perché quelli ci sono».

E in Italia c’è Leonardo, uno dei migliori del mondo come capacità di calcolo.
«Il punto fondamentale è mettere gli scienziati in contatto, farli lavorare nello stesso posto, farli discutere. Per avere un supercomputer basta staccare un assegno, invece avere i cervelli è molto più difficile; per questo sarebbe fondamentale partire da un centro europeo di intelligenza artificiale localizzato fisicamente da qualche parte e dirottare una piccola parte dei fondi europei sul capitale umano».

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Professore, lei questa cosa la dice da qualche mese. Cosa possiamo fare per far sì che si passi da auspicio a progetto?
«Sono otto anni che se ne parla, io mi sono aggiunto solo all’ultimo. Abbiamo perso una quantità di tempo enorme e nel frattempo l’intelligenza artificiale si è molto evoluta. Ora dobbiamo evitare la rassegnazione, pensare che ormai siamo indietro e non c’è nulla da fare. La partita è ancora aperta e l’Europa può giocare un ruolo».

E l’Italia? Sulla fisica abbiamo una tradizione formidabile ma lei oggi consiglierebbe a un ricercatore sull’AI di stare in Italia?
«Il problema è che l’Italia non investe nella ricerca. Rimanere in Italia può essere conveniente in alcune nicchie ma per il resto la mancanza di programmazione e di fondi fa danni terribili».

In conclusione, qual è il suo «disclaimer» sulla rivoluzione in corso?
«Abbiamo tutte le competenze per poter sviluppare l’intelligenza artificiale ma dobbiamo dare le risorse alla ricerca altrimenti i migliori giovani se ne vanno via».

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10 maggio 2025 ( modifica il 10 maggio 2025 | 21:21)

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