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La Spagna taglia l’orario di lavoro, l’Italia è pronta?


Con la sempre maggiore diffusione della tecnologia, oggi il lavoro, a vari livelli, può essere “alleggerito”. Si pensi, tra le altre, alle potenzialità dell’intelligenza artificiale e al dibattito, attualissimo, sulla necessità di recuperare un giusto equilibrio tra tempo in ufficio e tempo dedicato alla vita privata.

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In Spagna il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera alla diminuzione dell’orario di lavoro settimanale, che potrebbe scendere da 40 a 37,5 ore a parità di retribuzione. La decisione finale, e l’eventuale varo di una nuova legge, sarà in mano al Parlamento iberico, che vaglierà il disegno di legge approvato dall’Esecutivo.

Ma nel nostro Paese uno scenario del genere sarebbe davvero possibile? La domanda è ricorrente tra i lavoratori dipendenti, specie ora che un grande Paese europeo come la Spagna ha deciso di muoversi in questa direzione. Cerchiamo di capirlo di seguito, offrendo qualche spunto per una riflessione sulle probabilità reali di un taglio dell’orario di lavoro anche da noi.

L’iniziativa spagnola non mette d’accordo tutti

“Aiutiamo a far sì che le persone siano un po’ più felici”, queste sono le parole della vicepremier e ministra del lavoro, Yolanda Diaz, che sostiene il citato disegno di legge in un’ottica di solidarietà nei confronti dei lavoratori che non riescono “a stare con i loro figli semplicemente perché non hanno tempo”.

Per il successo del disegno di legge, il premier Sanchez – sostenuto dai due maggiori sindacati della Spagna, Ugt e Ccoo – sta cercando il consenso delle aziende spagnole e dei datori di lavoro privati. L’imprenditoria, sottolinea lo stesso primo Ministro spagnolo, potrebbe ampiamente giovarsi della novità, grazie al maggior rendimento individuale di chi si impegnerà con più energia e passione nelle proprie mansioni, contando su un orario settimanale minore (e anche eventualmente su quattro giorni di lavoro e non cinque).

 

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Tuttavia, secondo quanto trapela dalle notizie dei quotidiani iberici, sia i partiti dell’opposizione che gli stessi imprenditori hanno espresso dubbi sulla bontà della misura, e avvertito l’Esecutivo sul forte impatto che la riduzione dell’orario di lavoro potrebbe avere sulla produttività delle piccole e medie imprese, proponendo una contrattazione collettiva.

Riduzione orario di lavoro a parità di salario: gli ostacoli in Italia

I promotori dell’iniziativa di legge spagnola pongono l’attenzione sul capitale umano e sul miglior equilibrio tra lavoro e vita privata, senza che prezzi bassi e orari lunghi possano intaccare aspettative, speranze e umore di chi tutti i giorni si alza presto per lavorare. Ma da noi il dibattito sulla riduzione dell’orario settimanale a che punto è?

Ebbene, in Italia siamo sostanzialmente in una fase di stallo, perché se è vero che alcuni partiti dell’opposizione hanno depositato un disegno di legge in materia, è altrettanto vero che da tempo il testo è fermo alla Camera. Al momento non si registrano – quindi – sostanziali progressi ma, a dire il vero, anche qui una riduzione dell’orario legale di lavoro settimanale da 40 a 37,5 ore a parità di stipendio incontrerebbe più ostacoli, sia di natura giuridica, sia economico-politica. Vediamo quali sono.

Vincoli contrattuali e legislativi

Secondo i dati Ocse, l’Italia è il grande Paese europeo in cui si lavora più ore. La disciplina nazionale dell’orario di lavoro è contenuta nel d. lgs. 66/2003, che fissa le 40 ore settimanali come orario “normale”, ma è pur vero che, in molti casi, la durata effettiva è già regolata da contratti collettivi nazionali, che possono disporre orari più brevi.

Modificare la soglia legale richiederebbe un intervento del legislatore che dovrebbe tenere conto della concertazione con le parti sociali (sindacati e associazioni datoriali): un’operazione che potrebbe allungare i tempi e alimentare ulteriormente il dibattito politico, rendendolo ancora più incandescente.

Costi per le imprese e sostenibilità per il bilancio pubblico

Ridurre l’orario mantenendo lo stesso salario implicherebbe un aumento del costo del lavoro che per ora, che molte imprese, specialmente le PMI, potrebbero non sostenere senza aiuti pubblici. È lo stesso allarme lanciato dalle imprese spagnole che temono un possibile calo di produttività, se alla riduzione delle ore di lavoro settimanali non si unirà innovazione tecnologica e riorganizzazione del lavoro.

Non solo. Se lo Stato volesse davvero incentivare la riduzione dell’orario con ulteriori sgravi fiscali o contributivi, sarebbe necessario un massiccio impegno finanziario pubblico, in un contesto in cui il debito italiano è già assai elevato e in cui ogni anno la manovra finanziaria è il risultato di un delicato sistema di “contrappesi” tra entrate e uscite.

La questione salari

C’è poi il tema dei salari reali, più bassi dell’8% rispetto al 2021. Lo dice l’Organizzazione internazionale del lavoro e in una situazione come questa è più probabile che le persone preferiscano o chiedano ore di straordinario, per arrotondare. Si pensi ad es. alla nota questione dei part time involontari, ossia quei contratti di persone che gradirebbero lavorare di più ma che non possono farlo per ragioni da loro indipendenti.

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È come una sorta di coperta corta: per pensare a una riduzione dell’orario di lavoro sarebbe indispensabile avere, alla base, elevata produttività e salari reali in grado di fronteggiare la variabile inflazione.

Disparità settoriali

Non dimentichiamo inoltre che non tutti i settori potrebbero far valere una riduzione uniforme. Ad es. quelli ad alta intensità di manodopera (si pensi ad es. alla logistica, edilizia, sanità) potrebbero avere più difficoltà rispetto a quelli più digitalizzati.

Al contempo, anche il lavoro nelle PA potrebbe subire forti resistenze, sia per motivi organizzativi che di opinione pubblica. A nessun cittadino, ovviamente, piacerebbe trovare chiuso un ufficio pubblico il venerdì.

Come ridurre l’orario di lavoro in Italia

La riduzione dell’orario settimanale di lavoro in Italia non è utopia, ma solo se affrontata in modo graduale e sostenibile, con il coinvolgimento di tutti gli attori sociali e tenendo conto della varietà economica dei settori produttivi.

Si potrebbe pensare all’allargamento della sperimentazione, con l’avvio di progetti pilota in settori pubblici e privati volontari, misurando nel tempo produttività, benessere dei lavoratori e impatti economici. In verità è un modello già seguito da alcuni Paesi nordici e da imprese operanti in Italia, come ad es. Intesa Sanpaolo o Luxottica.

Un’altra opzione per la riduzione dell’orario settimanale è la maggior apertura alla contrattazione collettiva per introdurre la riduzione dell’orario nei settori in cui è effettivamente sostenibile, magari prevedendo modelli flessibili (ad es. 4 giorni a settimana ma giornate più lunghe).

Non solo. I sopra citati incentivi potrebbero essere “mirati”, ossia il legislatore potrebbe prevedere sgravi contributivi per le aziende che adottano la riduzione oraria senza diminuire i salari, in cambio di mantenimento dei livelli occupazionali e investimenti in formazione, produttività e tecnologia.

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