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Parità di genere, è corsa verso la certificazione


Le aziende sono sempre più attente ai temi della sostenibilità. Prova ne sia la corsa verso la certificazione per la parità di genere, che ha di gran lunga superato le attese. La misura rientra nell’ambito della missione cinque del PNRR, quella dedicata all’inclusione e alla coesione. Lo stanziamento è di 10 milioni di euro e la finalità quella di creare un sistema nazionale di certificazione alle dipendenze del Dipartimento per le Pari Opportunità. Il target prevedeva di arrivare a una copertura di almeno 800 imprese, delle quali 450 tra micro, piccole e medie imprese. Idealmente entro il secondo trimestre del 2026. «Invece abbiamo già superato quota 5mila» dice Ciro Cafiero, Founding Partner dello studio legale Cafiero Pezzali e Associati.

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Risalgono a marzo scorso gli ultimi aggiornamenti normativi

«Sì, con il Decreto direttoriale numero 115 emanato il 17 marzo 2025. Così sono state adottate le Linee guida per la programmazione e progettazione delle attività di formazione propedeutiche all’ottenimento della certificazione della parità di genere».

Come si inquadra il testo tecnicamente?

«Il Ministero del Lavoro lo ha voluto per stimolare le amministrazioni regionali a erogare corsi di formazione specifici. Dal punto di vista giuridico è un documento strategico connotato da natura propositiva e non vincolante. Sostanzialmente quello che è stato fatto è rifinanziare i percorsi che consentono di accedere alla certificazione, perché non sempre le imprese sono in grado di gestirne l’attuazione in autonomia».

Va dunque erogata formazione

«Sì e nel decreto sono definite le diverse tipologie che le Regioni hanno il compito di promuovere. La prima è una di tipo introduttivo sull’utilità della certificazione. Le imprese devono avere un quadro chiaro sulle origini della prassi, le procedure su cui poggia ma anche dei vantaggi che genera. Serve poi un assesment interno per comprendere autonomamente se la propria azienda sia o meno certificabile.

Può fare qualche esempio?

«A titolo esemplificativo la formazione può riguardare l’importanza di garantire la fruizione dei congedi genitoriali, di iniziative a supporto delle lavoratrici al rientro dal la gravidanza, ma anche di politiche di tolleranza zero rispetto a ogni forma di violenza nei confronti delle lavoratrici. L’ultimo genere di formazione è invece verticale sugli specifici requisiti».

Di cosa si tratta?

Ci sono 33 Key Perfomance Indicators. Sono sei aree strategiche chiave su cui le aziende si devono allineare: cultura e strategia, governance, processi HR, opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda, equità remunerativa per genere e infine genitorialità e conciliazione vita-lavoro. A titolo esemplificativo i criteri possono riguardare l’importanza di una politica per la parità di genere, codici etici, un organigramma bilanciato tra generi, così come progressioni di carriera informate alla parità di genere».

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Come va erogata la formazione?

«Il decreto direttoriale offre diverse modalità procedurali. Tra le ipotesi c’è un accordo tra la Regione e Unioncamere oppure l’Unione Regionale della Camere di Commercio. O ancora un bando ad hoc su iniziativa delle Regioni oppure un finanziamento da far valere sulla programmazione del Fondo Sociale Europeo per il sostegno all’occupazione e alla garanzia di opportunità lavorative più eque per tutti».

Servono esperti per dirigere un’azienda verso l’ottenimento della certificazione?

«È sempre auspicabile che a essere incaricato di gestirla sia un consulente del lavoro, un giuslavorista o comunque un esperto perché le Linee guida richiedono una due diligence sugli strumenti di flessibilità che un’azienda mette a disposizione delle lavoratrici. Si parte in genere sulle eque retribuzioni, ma non si esaurisce in quello».

A quanto ammontano i fondi?

«Il decreto ha rifinanziato un fondo di Unioncamere che prevede un contributo intorno ai 10mila euro a copertura dei costi per la certificazione. Sono soprattutto pensati per le PMI: per accedere i requisiti richiesti sono minimi, come la presenza di una semplice partita Iva, proprio per favorirle. Anche perché è evidente che le grandi imprese non hanno un problema di risorse».

Un budget quindi a copertura dei costi del professionista che prende l’incarico?

«Sì ma non solo. Il percorso non si esaurisce nella retribuzione del professionista, perché dopo l’iter da lui portato avanti si passa all’ente certificatore. A quel punto si aprono altri due step».

Quali sono i passaggi previsti?

«Per ottenere la certificazione quello che si fa è sostanzialmente scattare una fotografia all’impresa. Per poi iniziare un percorso che si articola su cinque livelli, tutti però tarati sul piano del work life balance e della progressione di carriera. Quindi ad esempio si valuta quante donne ci sono in posizioni apicali, come sono fatti gli organici e così via. Tecnicamente la prassi di riferimento è la UNI/PdR 125:2022».

I criteri sono quindi precisi

«Sì, sono sia di tipo qualitativo che quantitativo, e variano in base alla grandezza dell’impresa. Per le micro da uno a 9 dipendenti ci sono 8 KPI. Per le piccole dai 10 ai 49 dipendenti, 13 KPI. Per le medio-grandi dai 50 ai 249 dipendenti 31 KPI».

Le imprese a loro volta traggono vantaggi dall’acquisizione del bollino

«Sì, sono per esempio concessi bonus contributivi sul versamento dei contributi previdenziali complessivi a carico del datore di lavoro. L’esonero è applicato su base mensile e parametrato in misura non superiore all’1% del dovuto, nel limite massimo di 50.000 euro annui per ciascuna azienda. In alcuni casi è anche riconosciuto un punteggio premiale per la valutazione, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti».

Non per fare l’avvocato del diavolo, ma quanto è concreto il rischio pink washing?

«Ci saranno anche alcuni casi, però quello che penso è che in generale le aziende credano davvero nella parità di genere. E comunque le idee belle affascinano anche chi le avversa e poi magari le utilizza in modi diversi».

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Entro breve ci si dovrà anche adeguare alla Direttiva europea sulla trasparenza retributiva

«Sì entro giugno 2026. L’Italia dovrà recepirla e le conseguenze non sono da poco. Consideri che il gender pay gap non potrà più per legge superare la soglia del 5%. In caso contrario si potrà sporgere denuncia presso le organizzazioni sindacali o le autorità competenti, quindi gli ispettorati del lavoro. Si sta ragionando anche sull’inserimento di sanzioni sullo stile della privacy, che potrebbero anche essere pesanti. Il Regolamento Ue sulle privacy 679/16 ha previsto sanzioni fino al 3% del fatturato globale delle aziende».

Su questi punti insomma non si indietreggerà

«No, nonostante gli strali che arrivano dagli Stati Uniti, che sembrano invece voler mettere in discussione tutto il sistema delle policy di inclusione».

Perché si fa tanta fatica a mettere in pratica certi obiettivi riguardo per esempio l’uguaglianza di stipendi tra uomini e donne e il raggiungimento di un maggiore tasso di occupazione femminile?

«Penso dietro ci siano bias tipici della cultura fordista del ventesimo secolo. Quando si è instaurata, il pensiero dominante era che l’utilità della forza lavoro si basasse sulla forza fisica. Del resto tutto era incentrato sulla catena di montaggio e le lavoratrici in questo senso erano penalizzate in quanto dotate di una minore robustezza corporea».

Davvero si può ancorare il discorso a un fenomeno così lontano nel tempo?

«Sì perché è così che è iniziata la svalutazione della forza lavoro femminile. Poi nei decenni sono arrivati i contratti collettivi di lavoro, che hanno previsto retribuzioni al netto dei sessi, che non fanno distinzioni. Dentro ci sono infatti anche le donne, che fanno meno carriera e quindi prendono stipendi inferiori. Ricordiamo che in Italia il divario retributivo è superiore al 5%. Nel 2021 il reddito medio degli uomini è stato di circa 26mila euro e quello delle donne di circa 19mila».

C’entra anche il part time?

«È una delle cause per cui le donne sono penalizzate nella progressione di carriera. E una delle radici del gender pay gap. Purtroppo sulle donne pesano le assenze dal lavoro dovute alla gravidanza, all’accudimento dei figli o degli anziani. Sono sempre loro a farsene carico e quindi scontano una vita lavorativa disomogenea».

C’è dell’altro?

«Bias ne abbiamo ancora in tutti i contesti. Gli uomini continuano a essere molto più garantiti delle donne, sono sempre favoriti nei meccanismi premiali. Vale ancora il pregiudizio per cui si considerano più performanti rispetto alle donne».

Qual è la strada giusta per uscire da queste trappole, che poi in fondo sono anche psicologiche?

«Io credo che non si possa rimettere nelle mani di una legge l’aspettativa di risolvere tutto. Una norma solitaria e astratta può poco rispetto alla parità. Possono invece molto le aziende, le comunità territoriali, le pratiche migliorative virtuose. Devo dire però che nel caso della certificazione di genere c’è stato un rovesciamento».

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Può spiegarlo?

«In questo caso si delegano non le leggi, ma le aziende a mettere in pratica azioni concrete. C’è un atto di fiducia nei loro confronti, chiedendo di porre in atto prassi virtuose. È alle organizzazioni che si demanda la risoluzione del tema del gender gap, insomma».

Per Lei che si occupa di questi temi, quali sono le pratiche più efficaci da attuare?

«È importante per le imprese mettere al centro i bisogni personali. Non dare nulla per scontato offrendo soluzioni per così dire format. Faccio degli esempi da evitare: creare asili nido aziendali dove non si fanno figli oppure creare RSA dove non ci sono anziani. Se invece si agisce sul riconoscimento di cluster di bisogni, cioè dei bisogni specifici delle lavoratrici e dei lavoratori, allora le cose sì che potranno andare meglio».                                               

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📸 Credits: Canva   

Articolo tratto dal numero del 15 maggio de il Bollettino. Abbonati!      

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