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Il secolo della forza lavoro in declino


La popolazione mondiale non è mai cresciuta in modo così differenziato nelle varie fasce d’età e nelle diverse aree del mondo. Questa crescita disomogenea è dovuta ai diversi tempi in cui si sta realizzando la transizione demografica e ai differenti livelli degli indicatori demografici raggiunti nella fase avanzata di tale processo.

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Uno degli esiti principali della transizione è la riduzione a livelli molto bassi dei rischi di morte dalla nascita fino alla fine dell’età lavorativa (e oltre). Il secondo grande cambiamento è la diminuzione della fecondità. Nel 1950 il tasso di fecondità mondiale era di circa 5 figli per donna, mentre è oggi pari a 2,3. Se il tasso di fecondità si stabilizza attorno ai 2 figli, la popolazione in età lavorativa trova una sua configurazione solida e stabile: la base demografica perde la configurazione a piramide e assume una forma rettangolare, con coorti che entrano in età lavorativa equivalenti a quelle che escono.

Ciò che di certo produce la transizione demografica è l’aumento della popolazione anziana, una sfida comune che tutti i Paesi del mondo sono destinati ad affrontare, pur con tempi e intensità diverse. Non solo: c’è anche che la popolazione in età giovanile e centrale adulta tende a smettere di crescere

Si aprono però, e qui sta l’incertezza, due possibili scenari. Il primo è quello di una popolazione in età lavorativa che si mantiene sostanzialmente costante, grazie a un tasso di fecondità che rimane vicino al livello di equilibrio tra generazioni (oppure scende poco sotto, su livelli però tali da consentire alla riduzione endogena delle nuove generazioni di essere compensata con adeguati flussi migratori). 

Il secondo scenario è quello di una fecondità che scende sotto 1,5 e rimane persistentemente inferiore a tale livello. In tal caso si entra in una “trappola demografica”, ovvero in una spirale di continua riduzione delle nuove generazioni rispetto alle precedenti, con l’immigrazione che diventa sempre meno in grado, pur con flussi consistenti, di compensare gli squilibri.

Alcuni casi studio

Attualmente il mondo è diviso in tre gruppi. Nel primo si trovano i Paesi in cui la fecondità, pur in tendenziale diminuzione, è ancora elevata (superiore alla media dei 2 figli per donna). Il resto del mondo si divide nei due scenari sopra illustrati.

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Gli Stati Uniti d’America sono un esempio di Paese finora riuscito a mantenere solide le entrate in età lavorativa. La popolazione in età 25-49 anni è attualmente vicina a 110 milioni, di fatto costante rispetto al valore di inizio secolo. Secondo le previsioni delle Nazioni Unite, potrebbe consolidarsi ulteriormente, arrivando attorno a 120 milioni nel 2050. Vanno però precisati tre punti. Il primo è il fatto che la popolazione anziana aumenta più della popolazione in età lavorativa, pertanto l’indice di dipendenza è comunque in peggioramento. In secondo luogo, le dinamiche recenti della fecondità, scesa a valori attorno a 1,6, portano a prospettare una fase di diminuzione dopo la metà del secolo. Infine, l’immigrazione ha contribuito in modo determinante a rafforzare la popolazione attiva. Senza flussi migratori la popolazione americana al centro dell’età lavorativa si troverebbe, infatti, già in fase di diminuzione: le proiezioni delle Nazioni Unite “zero migration” contemplano una riduzione di circa 20 milioni di unità da oggi al 2050. 

Il Giappone e la Corea del Sud, ma anche la Cina, sono esempi di Paesi che, invece, rientrano nel secondo dei due scenari, quello in cui la popolazione in età lavorativa è già in declino a causa di un tasso di fecondità posizionato persistentemente sotto 1,5 figli per donna. Attualmente, il Giappone presenta una popolazione in età 25-49 di circa 35 milioni, mentre era superiore a 43 milioni nel 2000. Secondo le previsioni dello scenario mediano dell’ONU, andrà ulteriormente a diminuire scendendo a 28 milioni a metà secolo. La Corea del Sud ha subito più tardi la caduta della fecondità rispetto al Giappone, ma questa è poi stata più accentuata, precipitando sotto un figlio per donna. La popolazione in età 25-49 risulta in diminuzione da circa 15 anni, periodo in cui è scesa da oltre 20 milioni a circa 18,5 milioni. La fase di diminuzione più consistente è però quella che si osserverà nei prossimi decenni. A metà secolo, secondo le previsioni dell’ONU, il dato sarà attorno a 11 milioni. La popolazione in età centrale lavorativa cinese è essa stessa in contrazione da 10 anni. Dopo aver toccato oltre 550 milioni è oggi vicina a 500 milioni. Nel 2050 è prevista scendere sotto 380 milioni.

L’Europa si trova, nel suo complesso, in una situazione intermedia tra il percorso degli Stati Uniti e i Paesi dell’Asia orientale qui considerati. La fascia 25-49 era vicina a 270 milioni nei primi anni del XXI secolo ed è poi entrata in fase di riduzione, scendendo sotto 250 milioni negli anni recenti e con previsione di scendere sotto 210 milioni nel 2050. Si tratta di una riduzione vicina al 15% nei prossimi 25 anni, contro oltre 20% per il Giappone, circa il 25% per la Cina e il 40% per la Corea del Sud (Figura). L’Europa è in ogni caso molto eterogenea al proprio interno, con vari Paesi del Sud più vicini alla situazione dell’Asia orientale e altri dell’Europa nord-occidentale più simili alla fecondità degli USA.

Preservare il capitale umano

Contenere la riduzione della forza lavoro potenziale è una sfida cruciale: mantenere il tasso di fecondità non troppo sotto i 2 figli per donna e governare i flussi migratori in modo efficace possono contribuire a stabilizzare le basi demografiche. Ma queste azioni, pur indispensabili, non sono sufficienti a garantire sviluppo e benessere nelle prossime decadi.

Diventa allora fondamentale intervenire sul versante qualitativo. La capacità di generare valore in una società che invecchia e che si confronta con coorti giovanili sempre meno numerose dipenderà in larga parte dalla valorizzazione del capitale umano in relazione positiva con le opportunità dell’innovazione tecnologica.



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