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La partita della parità – Economy Magazine


L’avvocato e il commercialista, il dirigente e l’impiegato, l’imprenditore e il libero professionista, il consulente e il promotore, il pensionato, lo studente universitario… e la casalinga. Al gioco delle professioni di Borsa Italiana vincono solo i maschi. Provare per credere: l’unico femminile sovraesteso previsto nel form di registrazione al sito internet di Piazza Affari è quello del secondo lavoro più antico del mondo: le faccende domestiche. Non c’è un meno sessista “disoccupato”, o quantomeno un “non occupato”, che pure la propria casa l’accudirà in qualche modo. E dire che – grazie alla Legge Golfo-Mosca – in Borsa Italiana di donne ce ne sono parecchie: superano il 48% nei board delle quotate (erano al 7% nel 2011)… grazie alla Legge Golfo-Mosca. E alla guida di Borsa Italiana c’è proprio una donna, la “presidente” (femminile professionale legittimato dall’Accademia della Crusca) Claudia Parzani, che peraltro si spende parecchio a supporto dell’empowerment femminile.

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Sarà per un tema di compliance? Quella con l’ordine esecutivo emanato dal presidente biondo che fa impazzire il mondo (al secolo, Donald Trump) il 21 febbraio, che descrive le politiche aziendali legate a De&I (Diversity, Equity & Inclusion) come “discriminazione illegale, pericolose, degradanti e immorali” e vietate nella Pubblica Amministrazione americana, che sta inviando, tramite le ambasciate locali, il nuovo diktat ai fornitori. E l’elenco delle aziende che si ritirano dal grande gioco della De&I si allunga: ci sono Meta e Amazon, Harley Davidson e Ford, Walmart e Mc Donald’s. E pure le big della consulenza si allineano alle nuove regole del gioco: Goldman Sachs e Deloitte hanno fanno marcia indietro sulle regole di inclusione e diversità. Ironia della sorte: è toccato a una donna, Julie Sweet, presidente e amministratrice delegata di Accenture, indirizzare alle centinaia di migliaia di “Accenture People”nel mondo “alcuni aggiornamenti su inclusione e diversità in Accenture”, risultato della “continua valutazione delle nostre politiche e pratiche interne” ma anche “del panorama in evoluzione negli Stati Uniti, compresi i recenti ordini esecutivi a cui dobbiamo attenerci”. Ed è toccato a una donna, Jane Fraser, amminustratrice delegata di Citigroup, spiegare a tutti i dipendenti la decisione del gruppo bancario americano di rivedere i programmi di diversità e inclusione.

Eppure, secondo UN Global Compact, il Pil pro capite sarebbe quasi il 20% più alto se si colmassero i divari occupazionali di genere. Peccato che secondo il Global Gender Gap Index 2024 del World Economic Forum, senza interventi strutturali l’azzeramento del gap economico tra uomini e donne è proiettato a oltre 150 anni. Lo studio del Wef ha posizionato l’Italia all’87° posto nel mondo, segnando una perdita di otto posizioni rispetto al 2023. E, a livello europeo, il Gender Equality Index 2024 dell’European Institute for Gender Equality conferma che l’Italia occupa l’ultimo posto tra gli Stati membri per la parità di genere nel lavoro. «Nonostante questi dati, il settore privato italiano sta dimostrando una crescente attenzione al tema», sottolinea Daniela Bernacchi, Executive Director dell’UN Global Compact Network Italia. «In poco più di

due anni oltre 16.000 aziende hanno ottenuto la certificazione Uni/PdR 125, che sta dando quindi un forte impulso all’inclusione e alla valorizzazione dei talenti femminili. Una spinta ulteriore arriverà sicuramente Direttiva UE 2023/970, che introduce nuovi obblighi per le aziende europee, al fine di garantire la parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. La Direttiva impone alle imprese di adottare misure correttive qualora il divario salariale superi il 5%, rafforzando così i meccanismi di trasparenza retributiva e responsabilizzazione. Gli Stati membri dell’Unione Europea dovranno recepire la normativa entro giugno 2026».

FERME UN TURNO

Sarà che un bel gioco dura poco, ma quello della parità di genere, appena iniziato, sembra aver già stufato. Almeno secondo l’indagine che Lhh, società parte del Gruppo Adecco specializzata nello sviluppo di soluzioni HR end-to-end rivolte al cambiamento aziendale e allo sviluppo dei talenti, ha effettuato sul tema De&I (Diversity, Equity & Inclusion) nelle aziende italiane: secondo oltre la metà dei manager (56%) questi programmi non sono prioritari. Intanto, sebbene quasi la metà dei dipendenti (44%) si senta rispettato in azienda e dai propri team, emergono tre aspetti cruciali: che in oltre la metà delle aziende italiane (54%) non siano presenti iniziative di De&I, che in 3 consigli d’amministrazione su 4 (76%) non siano rappresentate le diversità e che 1 manager su 10 (15%) non sia informato sul tema o comunque non abbia interesse in merito. Esiste anche uno scollamento nel percepito delle figure dirigenziali e dei loro sottoposti sulle tematiche legate alla De&I: a sentirsi più responsabili sul tema e a vedere maggiormente calate su di loro le politiche e le iniziative di De&I in azienda sono gli intervistati in ruoli apicali e alla guida di team importanti, a differenza di quanto affiora dai loro sottoposti che stenta ancora a vedere nel concreto programmi aziendali atti a promuovere l’equità (62%). E per oltre la metà delle aziende (56%) i programmi De&I non sono una priorità. Non solo: un’zienda su 4 (25%) non sa definire se questi siano effettivamente prioritari o meno. «Considerare fondamentale l’importanza dell’inclusione e il rispetto delle diversità nel mondo del lavoro è cruciale ed è un’esigenza reale», commenta Luca Semeraro, Country President Italy e Svp Recruitment Solutions Dch, Netherlands and Poland di Lhh. «Il management e i C-level sono chiamati a giocare un ruolo cardine nel veicolare messaggi di inclusività affinché raggiungano tutti i livelli della gerarchia aziendale. Nello specifico, le figure apicali sono il canale preferenziale per trasferire best practice, sono loro ad avere il margine necessario per veicolare approcci realmente innovativi e a far in modo che anche i sottoposti percepiscano le iniziative De&I messe in atto. Dare spazio all’onestà intellettuale e allenare l’intelligenza emotiva per assumere punti di vista variegati, consente al management di essere realmente integrato nella realtà degli individui, ancor prima che dei dipendenti. L’attuale scenario lavorativo sta richiedendo sempre più apertura mentale e resilienza, dunque, non solo prospettive», conclude Semeraro, «ma anche impegno concreto per considerare primaria la centralità della persona».

Anche perché chi gioca alla pari, vince: sempre stando all’indagine di Lhh, c’è la consapevolezza che un pool di tipologie di talenti variegato favorisca empatia (49%), che le prospettive diverse stimolino nuove idee (54%) e che l’inclusività tenda a evitare turn over di talenti (40%) traducendosi inevitabilmente anche in maggiore efficienza (37%). Peccato che gli aspetti che consentono di definire un’azienda come inclusiva, nella percezione dei manager, siano quasi unicamente legati alla sfera della performance e della remunerazione, ovvero consentire pari opportunità di crescita professionale (75%), equa retribuzione (55%) e promozione del senso di appartenenza (cultura aziendale) (43%). E che passino in secondo piano alcuni aspetti che potrebbero fare davvero la differenza in ottica di inclusività, come la flessibilità oraria (18%), una effettiva apertura a smartworking e programmi “work from anywhere” (15%), la flessibilità circa congedi parentali e di assistenza familiare (10%), i servizi supplementari in azienda come mensa o asilo nido (10%) e i benefit-welfare non monetari (9%).

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È un po’ come nel Gioco dell’Oca: arrivati alla casella 19, la locanda, si paga la posta e si rimane fermi per un turno. Un turno particolarmente lungo, stando al 10° report “Women in the workplace” di McKinsey, che conferma per l’ennesima volta che anche nel corso del 2024 il numero delle donne promosse al ruolo di manager continua a essere sensibilmente inferiore a quello degli uomini, di circa il 20%: per ogni 100 uomini promossi a ruoli dirigenziali, lo scorso anno solo 81 sono state le colleghe donne che hanno goduto della medesima opportunità. Un dato che, peraltro, non si discosta dalla media delle ultime sei rilevazioni, rivelandosi anche peggiore dei dati collezionati dal 2020 al 2023. «Nonostante gli innegabili progressi compiuti negli ultimi decenni, il gap di genere nelle posizioni apicali nelle aziende rimane una realtà difficile da superare», commenta Debora Moretti, Co-Ceo di Zeta Service, azienda italiana specializzata nella consulenza e servizi HR e Presidente di Fondazione Libellula. «Questo divario, che purtroppo persiste anche nelle organizzazioni di grandi dimensioni, a dispetto degli sforzi dedicati alle politiche De&I, non è solo una questione di equità, ma una vera e propria sfida che impedisce alle organizzazioni, anche a quelle più complesse, di sfruttare appieno il potenziale di talento a loro disposizione sul mercato del lavoro. Le cause? Sono molteplici e, se da un lato i fattori culturali hanno certamente un ruolo determinante, dall’altro esistono anche elementi di natura strutturale, che influenzano il processo di promozione delle persone presenti in azienda. È, però, in fase di selezione e di accesso che bisogna intervenire, cercando nuovi canali di reclutamento per arrivare a candidature che con gli approcci tradizionali non si riescono a raggiungere».

Uno dei motivi alla base di questi numeri è, infatti, la quota minoritaria di donne presenti nelle aziende a ogni livello. Così, nonostante il 59% delle lauree sia conseguita da donne e queste rappresentino circa il 51% della popolazione, le donne in azienda coprono solo il 48% delle posizioni entry level o da specialist e progressivamente diminuiscono (con grande rapidità) al risalire della piramide aziendale. Accade quindi che solo il 39% dei manager siano donne e la percentuale scende al 29% per le posizioni dirigenziali. E, se da un lato bisogna riconoscere che questo dato è migliore rispetto al 17% nel 2015, dall’altro questo incremento, secondo il report, è dovuto principalmente alla complessiva riduzione di queste posizioni e, parallelamente, a un incremento dei ruoli di staff (Hr, ufficio legale, IT), che vengono coperti da donne. Ma, poiché è irrealistico attendersi che le aziende “creino” nuove posizioni all’infinito, non si può ancora parlare di una reale progressione della parità.

Speriamo di non fermarci, proprio come nel Gioco dell’Oca alla casella 42, il labirinto: lì si torna indietro, alla casella 39. I dati dell’ultimo Gender policy report 2024 di Inapp sono impietosi: le donne guadagnano in media il 43% in meno degli uomini, superando la media UE del 36,2%. E quando la famiglia chiama, a sacrificarsi è quasi sempre la donna, perdendo importanti opportunità di crescita professionale: l’80% dei congedi parentali viene richiesto da lavoratrici, e il 16% abbandona il lavoro dopo la maternità, un dato nettamente superiore al 2,8% registrato tra gli uomini.

IL REBUS FEMMINILE

D’altra parte le regole del gioco, tra maschi e femmine, sono diverse. O meglio: le regole sono le stesse, ma non vengono applicate nello stesso modo. Nell’ultimo Rendiconto di genere dell’Inps relativo al 2024 abbiamo la conferma della disparità di trattamento salariale e di contratto. La femminilizzazione di alcuni lavori – la scuola, la sanità – e la maschilizzazione di altri – l’edilizia, le fabbriche, per citarne alcuni – è un problema per tutti. La docente di economia politica Barbara Martini parla di “pavimento appiccicoso”, lo sticky floor in letteratura anglosassone, che mostra una segregazione di genere orizzontale (il pavimento) e verticale (soffitto di cristallo), per cui sono maschi il 71% degli operai, il 43% degli impiegati, il 77% dei quadri e il 78% dei dirigenti. Nel 2023, il tasso di occupazione femminile in Italia si è attestato al 52,5%, rispetto al 70,4% degli uomini, evidenziando un divario di genere significativo pari al 17,9 punti percentuali. Inoltre, le assunzioni femminili hanno rappresentato solo il 42,3% del totale. Anche l’instabilità occupazionale coinvolge soprattutto il genere femminile in quanto solo il 18% delle assunzioni di donne sono a tempo indeterminato a fronte del 22,6% degli uomini. Le lavoratrici con un contratto a tempo parziale sono il 64,4% del totale e anche il part-time involontario è prevalentemente femminile, rappresentando il 15,6% degli occupati, rispetto al 5,1% dei maschi. Il gap retributivo di genere rimane un aspetto critico, con le donne che percepiscono stipendi inferiori di oltre venti punti percentuali rispetto agli uomini. In particolare, fra i principali settori economici, la differenza

è pari al 20% nelle attività manifatturiere, 23,7% nel commercio, 16,3% nei servizi di alloggio e ristorazione, 32,1% nelle attività finanziarie, assicurative e servizi alle imprese. Appena il 21,1% dei dirigenti è donna, mentre tra i quadri il genere femminile rappresenta solo il 32,4%. Ma il disagio non è solo economico: secondo gli ultimi rilievi di Eurispes, molte lavoratrici lamentano carichi troppo pesanti di lavoro (41,1%), rapporti conflittuali con i superiori (38,2%) e mancanza di tempo da dedicare a se stesse (37,8%). Il 30,2% delle lavoratrici è in burn out, il 28,3% soffre l’insicurezza del posto di lavoro, il 26,1% ritiene che i propri diritti siano scarsamente tutelati e circa il 25,4% è preoccupata dalla precarietà del contratto; quasi un quarto (23,6%) sperimenta l’irregolarità nei pagamenti. Ben un terzo (33,3%) ha svolto un doppio lavoro, quasi una su 4 ha svolto un lavoro meno qualificato rispetto alle sue competenze, il 14,3% ha svolto un lavoro notturno.

E non importa che nel 2023 le donne abbiano superato gli uomini sia tra i diplomati (52,6%) sia tra i laureati (59,9%): questa superiorità nel percorso di studi non si traduce in una maggiore presenza nelle posizioni di vertice nel mondo del lavoro. Non solo: le donne continuano a farsi carico della maggior parte del lavoro di cura. Nel 2023, le giornate di congedo parentale utilizzate dalle donne sono state 14,4 milioni, contro appena 2,1 milioni degli uomini. Secondo Roberto Ghiselli, Presidente del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’Inps, «affrontare il problema delle discriminazioni di genere significa agire su tutte le dimensioni del problema, che riguardano il mercato del lavoro e i modelli organizzativi nel lavoro, la rete dei servizi, la dimensione familiare e quella culturale. Viene pertanto chiamata in causa la responsabilità e l’impegno di tutti gli attori istituzionali, politici e associativi per far sì che i timidi passi avanti che si sono registrati in questi anni, diventino al più presto l’affermazione di una piena condizione di parità, rimuovendo gli ostacolo che ne sono di impedimento». Lo dice un uomo. Perché invece, secondo Eurispes, circa la metà delle donne è contraria alle quote rosa (49,9%).

LA POSTA IN GIOCO

E non è che, finito il gioco (del lavoro) la situazione migliori. Anzi. Il divario di genere nelle pensioni, dice l’Istat, è ormai a quota 553 euro. O meglio: era. Il dato, relativo al 2023 è più alto di 37 euro (+7,17%) rispetto ai 516 euro del 2022. Le donne che hanno svolto un lavoro dipendente percepiscono in media 1.008,3 euro al mese, gli uomini, invece, ricevono 1.561,3 euro: una differenza del 35,4%. Ancora peggio nell’ambito del lavoro autonomo: 730 euro per le donne, contro i 1.285,8 degli uomini, con un divario del 43,2%. Più nel dettaglio, pensioni di anzianità e pensioni anticipate del settore privato vedono un divario del 23,5%, con un importo medio di 1.728,7 euro per le donne e 2.259,1 euro per gli uomini.Nelle pensioni di vecchiaia il divario raggiunge il 45,8%, con un importo medio di 754,7 euro per le donne rispetto ai 1.392 euro degli uomini. Nel settore pubblico, che al contrario di quello privato è altamente regolamentato, va un po’ meglio: il divario è del 26,5%, con le donne che percepiscono mediamente 1.815 euro al mese rispetto ai 2.468,6 degli uomini. Le cause della disparità? Le donne guadagnano mediamente meno degli uomini in molti settori economici, riducendo l’ammontare dei contributi versati durante la carriera lavorativa, e quasi il 48% delle lavoratrici ha un impiego part-time, a fronte di meno del 18% degli uomini. Anche la tipologia di contratto influisce: nel settore privato, i contratti a tempo indeterminato riguardano il 59,9% degli uomini contro il 40,1% delle donne, mentre i contratti a tempo determinato, che prevedono una contribuzione più frazionate e discontinua nel tempo, sono quasi equamente distribuiti (48,3% donne e 51,7% uomini). Nei contratti a tempo indeterminato, inoltre, salta agli occhi il gender gap tra le figure di quadri e dirigenti. Solo il 21,1% delle donne, infatti, ha contratti da dirigente contro il 78,9% dei colleghi uomini. Nei contratti da quadri le donne raggiungono il 32,4% mentre gli uomini rappresentano il 67,6%.

La soluzione? La previdenza complementare. Peccato che, secondo Covip, solo il 38,2% degli iscritti ai fondi pensione integrativi sia donna. E che la contribuzione annua media delle donne sia inferiore a quella degli uomini: 2.480 euro contro 2.950 euro nel 2022. Questo significa che, al momento del pensionamento, le donne accumulano un capitale previdenziale molto inferiore rispetto agli uomini.

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Intanto le pedine – nel senso delle donne in gioco – stanno aumentando: secondo il dossier della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, la crescita in termini occupazionali delle donne si è accompagnata anche a un miglioramento della condizione professionale e contrattuale: tra il 2019 e il 2024, infatti, è aumentato il numero di quadri, dirigenti e imprenditrici (+31%), ma anche di occupate nelle professioni intellettuali (+6,5%) e tecniche (+6,8%). Su 385 mila nuove occupate, ben 284 mila svolgono una professione a elevata qualificazione. Non solo: se nel dopo Covid le donne hanno faticato di più a recuperare i livelli occupazionali, nel 2024, il tasso di crescita delle lavoratrici (+2,3%) è stato di gran lunga superiore a quello degli uomini (+1,4%). Nel complesso, l’occupazione femminile ha avuto un incremento netto di 227 mila lavoratrici su 413 mila nuovi occupati; in buona sostanza, le donne hanno determinato il 55% del saldo occupazionale dell’anno.

Non solo: in Italia la quota di aziende del mid-market prive di donne nei ruoli manageriali si è dimezzata, passando dall’8,6% nel 2024 al 4,2% nel 2025, secondo il rapporto Women in Business 2025 di Grant Thornton. Peccato che, se in Europa le donne che ricoprono posizioni di leadership rappresentano il 35% (in crescita di un misero 0,3%), l’Italia registri già un lieve calo di un punto percentuale rispetto al 2024 (35,7%). E peccato, anche, che il 42% delle imprese italiane che hanno aumentato la presenza femminile nei ruoli dirigenziali lo abbia fatto in risposta alle sollecitazioni esterne. In particolare, a esercitare maggiore pressione sono i potenziali nuovi clienti (23,2%) e le banche o enti finanziatori (21,1%), segno che l’inclusione sta diventando un parametro sempre più rilevante anche nelle valutazioni legate al credito. «La crescente pressione da parte degli stakeholder, in primis investitori e clienti, sulla diversità di genere è un fattore molto positivo, perché dimostra che l’inclusione non è solo una questione etica, ma anche un elemento strategico per il successo aziendale», conferma Simonetta La Grutta, responsabile De&I di Bernoni Grant Thornton: «infatti, le imprese che adottano politiche concrete per la parità di genere non solo attraggono maggiori investimenti, ma beneficiano anche di una leadership più diversificata, che favorisce innovazione e competitività nel lungo termine». In Italia, le aziende danno priorità alla parità salariale (41,1%), al reclutamento e alla promozione delle donne nei ruoli di leadership (34,7%) e ai programmi di formazione (34,7%). Tuttavia, il mentoring (15,8%) e il networking (14,7%) rimangono strumenti ancora poco utilizzati. «Il percorso verso una reale parità è ancora lungo», commenta Roberta Cipollini, partner di Ria Grant Thornton. «Il fatto che una giovane donna che entra oggi nel mondo del lavoro debba attendere oltre 25 anni prima di poter lavorare in un’azienda con una leadership equamente distribuita dimostra che esiste il concreto rischio di perdere una generazione di donne leader, privando le imprese del loro contributo e del valore che potrebbero apportare».

VERSO LA META

Fortunatamente le aziende italiane continuano a stare al gioco, o almeno ci provano: stando a un’analisi di Mindwork, l’81% delle imprese prevede di proseguire o avviare gli investimenti in iniziative Dei nel 2025, il 74% delle imprese intervistate dichiara di voler rafforzare l’integrazione delle iniziative Dei all’interno della propria strategia aziendale, o di collegarle in modo più diretto alla performance, e un’azienda su tre afferma che modificherà il modo in cui comunica internamente ed esternamente le proprie azioni in ambito Dei. E non è questione di wokismo, ma di regole del gioco, appunto: quelle del nuovo Regolamento UE 2024/2462, che entrerà in vigore nel 2026 introducendo criteri più stringenti per la trasparenza salariale e la parità di trattamento, rafforzando il ruolo delle politiche Dei nelle strategie aziendali. «Le politiche statunitensi su diversità, equità e inclusione hanno certamente stimolato una riflessione da parte di molte aziende, anche se per adesso i dati non segnalano un’inversione di rotta», conferma Mario Alessandra, amministratore delegato di Mindwork. «Con ogni probabilità si assisterà però nei prossimi mesi ad un riposizionamento delle iniziative Dei orientata non necessariamente ad una riduzione delle stesse, bensì ad una maggiore connessione alla performance dell’azienda».

C’è poi una partita che le donne giocano da sole: quella imprenditoriale. Perché se il lavoro manca, bisogna crearselo. E infatti, nonostante le donne italiane siano quelle con il tasso più basso di occupazione in Europa, per numero assoluto sono quelle dallo spirito più imprenditoriale: dai dati di Confartigianato Imprese risulta infatti che le donne italiane che hanno deciso di abbracciare la professione di imprenditrice siano oltre 1,6 milioni nel 2023, seguite poi dalla Francia con 1,4 milioni di imprenditrici, avendo dunque un primato in Europa di cui si può essere felici. Dai dati Istat emerge una fotografia piuttosto chiara: le imprenditrici hanno un’età media di 49 anni (rispetto ai 52 degli uomini), non hanno dipendenti (nel 64,8% dei casi) e il 34,5% di loro ha almeno una laurea. Prendendo invece i dati Unioncamere emerge come la maggioranza delle imprenditrici sia al Sud ma che allo stesso tempo il tasso di successo per le imprese a conduzione femminile dopo 5 anni dall’inizio dell’attività sia del 67,6% contro il 73,3% degli uomini. «Fare impresa non è semplice in Italia, per questo è importante farlo in modo consapevole, prendendosi comunque un rischio che possiamo definire informato», spiega Giulia D’Amato, co-fondatrice di Startup Geeks. «Conoscendo chi sono si possono costruire percorsi e agevolazioni per rendere il loro progetto più favorevole, in un mercato dominato dagli uomini». E aggiunge: «La formazione rimane un elemento primario per la longevità di un’impresa innovativa ma anche i sussidi del governo sono un valido aiuto per aiutare la sostenibilità di un’impresa».

A confermare lo spirito imprenditoriale delle donne, è il quadro che emerge dalla nuova ricerca di Mastercard “Empowerment for all”: il 58% delle italiane appartenenti alla Gen Z aspira ad avviare una propria impresa. E una su sette dichiara di essere un’imprenditrice (il 13% in Italia contro il 18% in Europa) con una percentuale che sale al 28% per le donne Gen Z. Tra le imprenditrici intervistate, il 13% dichiara infatti di averlo fatto perché non si sentiva valorizzata sul posto di lavoro precedente, rispetto all’ 8% degli uomini. Altri fattori chiave includono il desiderio di una maggiore flessibilità lavorativa (43% donne vs 38% uomini), guidato dalla volontà di essere ‘imprenditrici di sé stesse’ e di non lavorare per altri (36% donne vs 25% uomini), insieme al desiderio di realizzare i propri sogni (34% donne vs 32% uomini). Non basta (lo stipendio): il 25% delle italiane intervistate ha dichiarato di avere anche una seconda attività lavorativa, percentuale che aumenta (37%) se consideriamo le Millennial. I motivi che spingono le donne a lavorare molto sono: la necessità di percepire un reddito aggiuntivo (44%), di risparmiare denaro per un obiettivo specifico (26%) e di avere maggiore sicurezza economica in caso di emergenze (25%). La ciliegina sulla torta? L’ottimismo: il 68% delle donne titolari d’impresa si aspetta infatti una crescita del fatturato annuo del proprio business nei prossimi cinque anni, rispetto al 62% degli uomini. E una donna su sette (13%), inoltre, prevede una crescita superiore al 50%, rispetto al solo 2% degli uomini. Giocando con questo spirito, la (ri)vincita è dietro l’angolo.

 

Il CREDIT GENDER GAP

Non c’è solo un gap in busta paga, che gioca a sfavore delle donne: secondo la Federazione autonoma bancari italiani (Fabi) esiste anche il gender credit gap e vale, 68 miliardi di euro. Le donne accedono a meno del 20% del totale del credito erogato alle famiglie, mentre agli uomini ne è destinato oltre il 34%. Il restante 45% è costituito da finanziamenti cointestati – congiuntamente a un uomo e una donna o a più persone – che però non garantiscono di per sé autonomia finanziaria alle donne. Se poi si considera quindi il credito intestato individualmente, il divario risulta evidente: gli uomini ricevono oltre un terzo del credito complessivo, mentre alle donne spetta appena un quinto del totale. Tradotto in soldoni, si tratta di circa 68 miliardi di euro in favore degli uomini: su un ammontare complessivo di 472 miliardi, 162 miliardi sono stati concessi a clienti maschili, mentre solo 94 miliardi a clienti femminili. «Il divario nell’accesso al credito tra uomini e donne trova spesso radici in stereotipi culturali ancora radicati, procedure burocratiche complesse e scarsa attenzione del sistema bancario alle specifiche esigenze femminili», sottolinea la dirigente sindacale Fabi, Annalisa Campana, che ha curato la ricerca. «Le banche, pur essendo sempre più attente alle politiche di inclusione e dimostrando alta sensibilità sociale, mostrano ancora una tendenza a richiedere maggiori garanzie alle donne, influenzando negativamente le possibilità di sviluppo economico e il rafforzamento del ruolo delle donne nella società. Superare questo ostacolo è necessario non soltanto per ragioni di equità sociale, ma anche perché garantire un accesso più equo e diffuso al credito per le donne produrrebbe effetti benefici per l’intera economia nazionale. L’accesso al credito rappresenta un indicatore fondamentale per misurare l’inclusione finanziaria e l’autonomia economica delle persone. Tuttavia, in Italia, le differenze di genere nel credito bancario restano significative e diffondono una disparità che incide sulla possibilità delle donne di investire, acquistare una casa o avviare un’attività imprenditoriale. Laddove l’accesso al credito per le donne è equo e inclusivo, si ottengono risultati migliori in termini di crescita economica, innovazione, occupazione e benessere sociale».

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Eppure c’è una relazione virtuosa tra bilanciamento di genere nelle imprese e rischio di credito: le aziende più equilibrate dal punto di vista del “gender gap”, soprattutto ai livelli apicali, avrebbero fino al 30% in meno di probabilità di default rispetto a quelle che non lo sono, e hanno mostrato di saper mantenere standard creditizi elevati anche negli ultimi 10 anni, caratterizzati da contesti di policrisi. Stando ai dati di febbraio 2025 elaborati da Cerved Rating Agency, infatti, sia le aziende con Ceo donna e il Cda o un organo di governo a prevalenza maschile, sia quelle a relazione invertita (Ceo uomo affiancato dal Cda o un organo di governo con almeno il 20% di presenza femminile), presentano un rischio di default molto simile (rispettivamente 3,6% e 3,9%) e nettamente inferiore a quelle in cui la leadership è fortemente polarizzata sui generi: tutta maschile (5,8%) o tutta femminile (6,3%). E questo vale indipendentemente dalle dimensioni aziendali (dal -14% delle grandi imprese al -31% delle micro), dal settore di appartenenza e dall’area geografica. «I risultati del nostro Osservatorio sul gender gap confermano la presenza di una relazione tra bilanciamento di genere e rischio creditizio», conferma Fabrizio Negri, amministratore delegato di Cerved Rating Agency. «I dati indicano, infatti, che le imprese con una maggiore inclusione di genere presenterebbero anche una minore rischiosità creditizia, fino al 30%, e una maggior tenuta agli shock esogeni susseguitesi negli ultimi 10 anni».

 

Bonus

Bonus assunzione donne: il Decreto Coesione 2025 prevede un’esenzione totale dal versamento dei contributi previdenziali per chi assume donne a tempo indeterminato. L’agevolazione, valida per tutte le lavoratrici indipendentemente dall’età, è soggetta a un limite di 650 euro mensili per un massimo di 24 mesi.

Fondo Impresa Femminile: è un’iniziativa del Ministero delle Imprese e del Made in Italy che mira a favorire la partecipazione delle donne al mondo imprenditoriale. Questo fondo offre contributi a fondo perduto e finanziamenti agevolati per sostenere sia la creazione di nuove imprese femminili che il consolidamento di quelle esistenti. Le agevolazioni coprono una percentuale delle spese ammissibili, variabile in base all’anzianità dell’impresa e all’entità del progetto.

Bonus mamme lavoratrici: è un esonero del 100% sui contributi previdenziali, a carico delle madri lavoratrici, dipendenti del settore pubblico o privato, con almeno 3 figli. Che si traduce in un aumento dello stipendio delle madri che può arrivare fino ad un massimo di 3.000 euro. l’esonero è applicabile fino al compimento del diciottesimo anno di età del figlio più giovane.

Assegno di maternità dello Stato: è un sostegno finanziario per mamme lavoratrici comprese quelle con lavori occasionali o irregolari, purché abbia versato un contributo minimo. Si può richiedere entro 6 mesi dalla nascita del bambino o dall’ingresso del minore in famiglia tramite adozione o affidamento. Questa misura è pensata per le mamme che non riescono ad accedere alla maternità obbligatoria pagata dal datore di lavoro oppure hanno una maternità di importo molto basso.

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Misura ON, Oltre Nuove imprese a tasso zero: permette di finanziare, su tutto il territorio nazionale, la creazione e sviluppo di micro e piccole imprese fondate dai giovani tra i 18 ed i 35 anni oppure da donne di tutte le età. Il finanziamento prevede una copertura che può arrivare fino al 90% delle spese ammissibili a seconda delle caratteristiche dell’impresa e del tipo di progetto. Le risorse finanziarie vengono destinate a iniziative per l’acquisto di beni materiali e immateriali, la consulenza e altre spese relative all’avvio e al consolidamento dell’impresa.

QUANTE MOLESTIE

Quanto alla casella “imprevisti”, come nel Monopoli, le carte abbondano, ma metà delle aziende non se ne cura. Lo dimostra l’indagine che Aifos, la principale associazione italiana di operatori e formatori sulla sicurezza sul lavoro, ha realizzato su un campione di oltre 300 rispondenti sul tema della valutazione dei rischi nei luoghi di lavoro in base al genere. Ebbene: il 45% delle aziende ha redatto un documento di valutazione dei rischi (obbligatorio per legge) connessi alle in generale alle differenze di genere, contro il 40% che non l’ha fatto, mentre solo il 25% dei rispondenti ha implementato ed attuato un sistema di gestione delle pari opportunità. Rispetto al tema specifico della predisposizione di un documento di valutazione del rischio violenze e molestie nei luoghi di lavoro, solo il 35% delle aziende ha risposto in modo affermativo contro circa il 50% che ha dato una risposta negativa. Per la maggior parte del campione, oltre il 90%, le difficoltà in questo senso sono soprattutto legate ad una scarsa sensibilità culturale nei confronti della tematica. L’88% degli esperti di formazione in salute e sicurezza sul lavoro, tuttavia, sostiene che tra gli argomenti più importanti da conoscere in un corso di formazione sulla tematica di genere, sia proprio quello degli abusi e delle violenze sui luoghi di lavoro. Il 47% circa delle aziende ha adottato misure preventive e protettive rispetto ai rischi connessi alla differenza di genere. Il 37% ha attuato corsi di formazione e aggiornamento sulla tematica contro circa il 50% che non l’ha fatto. «La tutela della salute e sicurezza sul lavoro delle donne è influenzata dalla disuguaglianza di genere nel mercato del lavoro e dalla società nel suo complesso», spiega Paolo Carminati, Direttore Generale di Aifos. «Molti elementi critici che possono rendere pericoloso il lavoro per le donne sono stati costantemente sottovalutati e solo di recente hanno iniziato a venire alla luce. Storicamente, si è supposto che i ruoli maschili siano più pericolosi e più impegnativi, sia fisicamente che mentalmente, rispetto a quelli delle donne: proprio questa considerazione si dimostra lenta ad essere modificata, nonostante vi siano sempre più prove che contestano questa ipotesi. I dati raccolti sul campo ci dicono che ancora oggi stenta a diffondersi un’attenzione concreta verso quei fattori di rischio, spesso di natura relazionale o psicosociale, che riguardano in prima battuta le donne lavoratrici. La gestione della salute e sicurezza appare ancora troppo spesso una tematica neutra rispetto alle differenze di genere, ma la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali non potrà mai dirsi davvero efficace se non terrà conto a tutto tondo delle differenze di genere».



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