Negli ultimi anni, la Cina ha accelerato la sua corsa per diventare leader mondiale nel settore biotecnologico, suscitando crescenti preoccupazioni tra le nazioni occidentali riguardo alle implicazioni economiche, etiche e di sicurezza nazionale.
L’ascesa delle biotecnologie cinesi
La corsa cinese alla leadership mondiale nelle biotecnologie è diventato un sottofondo costante nelle riunioni ad alto livello di Washington, Bruxelles e Tokyo.
A far rumore non sono soltanto i laboratori “Fire‑Eye”, ma un intero ecosistema industriale cresciuto a ritmi inediti grazie a un mix di incentivi statali, accesso privilegiato a banche dati biologiche domestiche e una strategia governativa che da anni considera la bioeconomia un pilastro della sicurezza nazionale al pari dei semiconduttori.
Sotto la sigla “Made in China 2025” prima e con l’attuale politica della “doppia circolazione” poi, Pechino ha riversato miliardi di yuan in ricerca applicata, attirato ricercatori tornati dall’estero con salari competitivi e un welfare scientifico che include agevolazioni per la proprietà intellettuale, cicli autorizzativi rapidi e trattamenti fiscali di favore. Il risultato è un salto di qualità che ha portato aziende nate in parchi tecnologici periferici a competere – e spesso primeggiare – nella produzione di vaccini a mRNA, di reagenti per la diagnostica molecolare, nella sintesi di principi attivi farmaceutici e perfino negli strumenti di sequenziamento di nuova generazione, un dominio tradizionalmente statunitense.
La reazione americana all’escalation cinese nel settore delle biotecnologie
Negli Stati Uniti l’escalation ha innescato una reazione bipartisan. Il Biosecure Act, approvato dalla Camera nell’autunno 2024, vieta ai dipartimenti federali di stipulare contratti con soggetti ritenuti a rischio per la sicurezza nazionale e introduce un meccanismo di esclusione a cascata che coinvolge i loro partner.
La norma prende di mira in particolare due giganti: BGI, il colosso del sequenziamento genomico, e WuXi AppTec, colosso globale di ricerca e produzione farmaceutica. Il semplice annuncio del provvedimento ha congelato accordi di fornitura con la Difesa e costretto i venture capitalist a rivedere la due diligence su decine di start‑up che s’appoggiavano a piattaforme o reagenti marchiati made in Shenzhen.
Le tensioni commerciali sono solo una parte dello scontro: al Pentagono preoccupa la possibilità che database genetici alimentati da milioni di test prenatali e campioni clinici raccolti all’estero possano confluire in programmi di riconoscimento biometrico o in ricerche sugli agenti patogeni potenziati, un timore alimentato dalla dottrina cinese di “fusione civile‑militare”, che abbatte il muro fra ricerca accademica e interessi strategici.
Il dilemma europeo sulle biotecnologie cinesi
Quanto più Washington stringe i cordoni, tanto più l’Europa scopre di camminare su un filo. Il continente, che negli ultimi vent’anni ha puntato sull’apertura scientifica e sul principio di reciprocità, importa oltre il 70% degli ingredienti farmaceutici attivi da Cina e India e affida gran parte dei test genetici a piattaforme asiatiche.
Le università di Cambridge, Leida o Heidelberg collaborano regolarmente con istituti cinesi di oncologia e genomica, e le start‑up continentali s’affidano spesso a fabbriche del delta del fiume Azzurro per la produzione di lotti clinici. Nel 2024 la Commissione ha reagito proponendo linee guida sul “research security” e includendo le biotecnologie fra le tecnologie critiche da sottoporre a uno screening rafforzato sugli investimenti esteri. Parallelamente ha avviato un programma di procurement europeo per ridurre la dipendenza da fornitori extra‑UE, ma il dibattito interno resta acceso: industriali e venture capital temono che un protezionismo biologico finisca per soffocare l’innovazione invece di stimolarla, mentre governi nordici e baltici chiedono misure dure, memori delle interferenze russe nel settore energetico.
I primati delle biotecnologie cinesi nel contesto globale
La Cina, intanto, macina record. Nel solo 2023 oltre trenta terapie di editing genico sviluppate fra Pechino e Shenzhen sono entrate in sperimentazione clinica: si va da protocolli di base‑editing contro l’emofilia a CAR‑T di nuova generazione per tumori solidi restii ai trattamenti convenzionali.
Il segmento Crispr, stimato in poco più di quattro miliardi di dollari a livello globale nel 2024, potrebbe quadruplicare nel prossimo decennio con l’Asia‑Pacifico in testa. L’ecosistema cinese beneficia di un bacino di pazienti vasto e di un quadro regolatorio modellato per privilegiare la velocità; i comitati etici, pur esistendo, non hanno il peso rallentante che caratterizza l’approccio occidentale, e le autorità locali competono fra loro offrendo titoli di proprietà intellettuale scontati, zone franche per la manifattura di principi attivi e corsie preferenziali di rimborso.
In questo contesto non stupisce che i grandi del pharma – da AstraZeneca a Merck, passando per giganti della diagnostica come Thermo Fisher – continuino a firmare joint venture e ad ampliare i centri di ricerca nella Repubblica popolare, tentando di restare agganciati a un mercato che vale già un quinto dei trial clinici globali.
Il cortocircuito fra interdipendenza economica e rivalità geopolitica nelle storie individuali
Il cortocircuito fra interdipendenza economica e rivalità geopolitica appare più netto nelle storie individuali. Un ricercatore australiano, la cui start‑up di terapia genica dipende da reagenti prodotti a Hangzhou, racconta di aver ricevuto inviti insistenti a trasferire il laboratorio in Cina in cambio di finanziamenti a fondo perduto e accesso a campioni umani “difficili da ottenere in Occidente”.
Dall’altra parte, un ospedale pediatrico del Midwest ha bloccato i test neonatali basati su chip cinesi dopo che la propria assicurazione cyber ha alzato i premi denunciando il rischio di “data exfiltration”, ossia sulle troppe incognite relative a dove transitano le sequenze del DNA e sulle troppe lacune normative sulle clausole di data governance. Episodi che riassumono il paradosso contemporaneo: la medicina di precisione promette cure rivoluzionarie, ma richiede un volume di dati clinici, genomici e fenotipici enorme; e quei dati, se finiscono nelle mani sbagliate, diventano dati biologici anche di valore militare.
I costi della decentralizzazione dalle biotecnologie cinesi
Il ritiro delle catene di fornitura, tuttavia, non è un’operazione indolore. Le agenzie del farmaco statunitense ed europea stimano che la ri‑localizzazione di soli cinque principi attivi critici nel mondo occidentale costerebbe fino a dieci miliardi di dollari, comporterebbe anni di lavori infrastrutturali e aumenterebbe del 20‑30 per cento il prezzo di alcuni medicinali essenziali. Gli stessi che in pubblico difendono la necessità di ridurre la dipendenza, in privato ammettono che senza le economie di scala ottenibili in Cina molti lotti sperimentali semplicemente non vedrebbero la luce.
La tentazione, dunque, è cercare un equilibrio: mantenere aperto il canale commerciale, ma blindare i set di dati sensibili, rafforzare i controlli sugli investimenti, senza arrestare i flussi di capitale di rischio, costruire standard comuni di sicurezza biologica, invece di fabbricare nuovi muri.
Scenari futuri per le biotecnologie cinesi e globali
Il futuro potrebbe scivolare verso una balcanizzazione della scienza, con blocchi che adottano protocolli di raccolta dei dati e formati digitali incompatibili. Così un software di analisi trascrittomica sviluppato a Boston potrebbe non dialogare più con un dataset raccolto a Chengdu e un algoritmo di intelligenza artificiale addestrato a Monaco non sarebbe in grado di validare i risultati di un ospedale di Nanchino.
In questo scenario, i ricercatori sarebbero costretti a scegliere passaporto e alleato prima di scegliere il protocollo più adatto ai pazienti, mentre i malati rischierebbero di vedere restringersi l’orizzonte terapeutico a seconda del blocco geopolitico di appartenenza.
La via della la governance internazionale delle biotecnologie
Esiste però anche una via alternativa, più stretta ma non impossibile. Alcuni ipotizzano una “non‑proliferazione biologica” che, sul modello dei trattati nucleari, imponga certificazioni multilaterali sui laboratori ad alto contenimento, tracciabilità obbligatoria per i campioni biologici e audit periodici sugli algoritmi di intelligenza artificiale impiegati nella ricerca medica.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, con il suo nuovo hub di prevenzione pandemica a Berlino, prova a candidarsi come foro neutrale; il G7, presieduto dall’Italia nel 2024, ha creato un gruppo di lavoro che studia standard di sicurezza condivisi per la sintesi di DNA e la distribuzione dei bio-rischi.
Resta da vedere se i grandi attori, Cina compresa, accetteranno di sacrificare una parte della propria sovranità scientifica in nome della fiducia reciproca.
Quel che è certo è che le biotecnologie sono destinate a ridefinire l’agricoltura con colture editate per resistere alla siccità, a trasformare la manifattura con enzimi che sostituiscono processi chimici inquinanti e a rivoluzionare la medicina offrendo cure personalizzate in base al profilo genetico di ciascuno.
La domanda ancora aperta è se il motore della prossima ondata di innovazione sarà guidato da regole condivise oppure se, per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, la frontiera della scienza si frantumerà in zone d’influenza impermeabili.
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