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Medio Oriente: di guerra in guerra


Nessuna manifestazione ne celebra la ricorrenza, ma questi sono i giorni in cui fu combattuta la guerra del giugno 1967. La più breve della storia d’Israele: quella dei Sei Giorni. In uno spazio di tempo così ristretto, lo Stato ebraico quadruplicò le dimensioni del suo territorio: il Sinai, il Golan, soprattutto Gaza, Gerusalemme Est e Cisgiordania. Sono dunque cinquantotto anni di occupazione dei territori palestinesi. Non è questa una somma di anni che impone commemorazioni: si celebrano i 25, i 50, gli 80 anni. Non i 58. Ma a Gaza si sta combattendo la guerra più atroce del conflitto fra israeliani e palestinesi, incominciato molto prima dell’occupazione del 1967.

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I morti israeliani sono già più di duemila, se si sommano le vittime dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e i soldati caduti in combattimento. Quelli palestinesi si avvicinano ai 60.000, soprattutto civili. Ancora non si contano le vittime rimaste sotto le macerie dei bombardamenti, né coloro – soprattutto bambini – che stanno morendo di fame: vittime di un assedio medievale condotto dall’esercito israeliano da quasi tre mesi. Quindi non è così singolare ricordare i 58 anni di occupazione dei territori palestinesi. Non lo è anche perché quella dei Sei Giorni fu la più breve delle molte guerre combattute da Israele; questa di Gaza, arrivata il 7 giugno al suo ventesimo mese, è la più lunga.

E soprattutto perché, anche a una distanza temporale di oltre mezzo secolo, il massacro di Gaza è una conseguenza del primo conflitto che spinse Israele a conquistare territori palestinesi oltre la “linea verde”: i suoi confini riconosciuti dalla comunità internazionale. Le battaglie del 1967 garantirono a Israele una sicurezza che non sarebbe stata di lunga durata. Neanche la più splendente delle vittorie militari era riuscita a dare una risposta alle cause politiche che l’avevano causata. È una tradizione d’Israele vincere più guerre che paci. Eventualmente tregue o armistizi di breve durata. Nel corso degli anni, l’occupazione militare di Gaza e Cisgiordania e l’annessione della Gerusalemme Est araba hanno avvelenato la società israeliana, come lo scrittore Abraham Yehoshua aveva previsto.

Secondo un recente sondaggio dell’Università di Tel Aviv, il 53% della popolazione ebraica d’Israele è favorevole al trasferimento in altri paesi dei 2 milioni di palestinesi di Gaza. Poche volte l’ormai centenario confronto fra israeliani e palestinesi è stato combattuto con i carri armati: talvolta col terrorismo palestinese ma anche ebraico; soprattutto con la burocrazia dell’occupante, i permessi negati, i posti di blocco, gli arresti immotivati, il moltiplicarsi delle colonie ebraiche. Raramente si è preferito il dialogo.

L’unica volta che accadde fu durante la trattativa di Oslo, negli anni ’90. I principali responsabili del suo fallimento furono gli estremisti di Hamas e i nazional-religiosi israeliani. Gli stessi che oggi impediscono una via d’uscita alla guerra di Gaza: i primi con la folle presunzione di eliminare Israele, i secondi con l’idea millenaristica di una grande Israele che non prevede l’esistenza di un popolo chiamato palestinese. Le conquiste territoriali del 1967 hanno intossicato la società israeliana, spingendone una parte crescente a credere in questa visione biblica. Fino a quei giorni di giugno, Elyakim Ha’etzny era stato avvocato a Tel Aviv e votava laburista.

La vittoria fu per lui una folgorazione. Lasciò il lavoro, fondò il movimento radicale Gush Emounim, il Blocco della Fede, e costruì Kiryat Arba, forse ancora oggi la più estrema delle colonie. Molti anni fa andai a trovarlo nella sua casa, che stava alla sottostante Hebron come la dimora di un boero sudafricano a una township nera. Ha’etzny era lì perché nel 1967 re Hussein di Giordania aveva attaccato Israele, ingannato da Nasser che gli aveva garantito una vittoria certa. Gli chiesi cosa avrebbe fatto se Hussein non avesse commesso quell’errore che cambiò la Storia. “Niente”, rispose. “Farei ancora l’avvocato a Tel Aviv”.

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Oggi i successori di Elyakim Ha’etzny sono al governo. Ne custodiscono le idee razziste e, insieme a Bibi Netanyahu, impediscono una soluzione politica della guerra di Gaza.


Ps. Com’era scontato, gli israeliani hanno bloccato lo yacht Madleen, che aveva l’intenzione di portare aiuti umanitari alla popolazione affamata di Gaza. A bordo c’era anche Greta Thunberg.

La barca è stata abbordata e sequestrata in acque internazionali; i membri dell’equipaggio sono stati fermati. Prima di essere imbarcati su voli internazionali, le autorità israeliane hanno mostrato loro un filmato sulle brutalità di Hamas, commesse nell’assalto del 7 ottobre 2024.

Ora: è probabile che nessuno dell’equipaggio di pacifisti abbia mai messo in discussione il massacro del 7 ottobre. Ma è umanamente comprensibile aver pensato che, 20 mesi e 60mila morti palestinesi più tardi, fosse il momento di aiutare la popolazione stremata di Gaza.

Nella narrazione del governo israeliano, invece, esiste solo il 7 ottobre. Il resto è silenzio o, peggio, giustificata punizione.

Parte di questa esposizione della realtà è l’infamante accusa del ministro della Difesa Israel Katz a Greta Thunberg, prima di essere rimandata a casa: è un’antisemita.

Forse la giovane svedese è una velleitaria, probabilmente ignora il realismo della politica, ha trasformato la questione dei mutamenti climatici in una religione – e questo non aiuta ad affrontare il problema. Thunberg ha il difetto di essere un’idealista, caratteristica che probabilmente sfugge a Katz.

Ma perché antisemita? Se lo è, anche la maggioranza dell’opinione pubblica mondiale – sia occidentale che del Global South – che condanna i comportamenti israeliani a Gaza, è antisemita. Antisemita! È l’unica cosa che il governo di Gerusalemme e i suoi sostenitori sanno dire, non avendo niente da dire.

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Sono molti anni che anche io vengo accusato di esserlo. Prima del web, quando si usavano ancora le “Lettere al Direttore”, una volta un lettore – naturalmente anonimo – scrisse al Sole che non mi accontentavo di essere antisemita: insegnavo anche ai miei figli a diventarlo.

Una volta ne soffrivo profondamente. Ora non più: mi arrabbio.

Fino all’anno scorso Israel Katz era un mediocre ministro degli Esteri: deve la sua lunga carriera politica a Bibi Netanyahu. Se il premier gli ordinasse di affermare che la Terra è piatta, lui probabilmente lo farebbe.

Ora è alla Difesa e c’è da augurarsi che prima o poi anche lui venga preso in considerazione dalla Corte di Giustizia Internazionale.



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