La scienza parla chiaro: il ruolo del padre (o del secondo genitore) è fondamentale per la crescita e il benessere dei figli. Addirittura, pare, un papà presente durante l’infanzia di un maschietto produrrà uomini più tranquilli e meno inclini alla violenza in età adulta. Eppure, ancora oggi, in Italia la politica non tiene conto di queste evidenze. Il nostro Paese è tra gli ultimi in Europa per quanto riguarda la durata del congedo di paternità – appena 10 giorni, contro le 16 settimane della Spagna – e i congedi parentali ben retribuiti non trasferibili alla madre.
I benefici di un padre presente
«La condivisione della genitorialità apporta dei benefici su tutti i piani per i bambini e le bambine», spiega Giorgio Tamburlini, pediatra e presidente del Centro per la salute del bambino – Csb, organizzazione nata nel 1999 per garantire a tutti i più piccoli uguali opportunità di sviluppo cognitivo, emotivo e relazionale, fin dalla nascita. «Chi ha un papà presente va generalmente meglio a scuola, è socialmente ed emotivamente più competente. Ci sono anche degli effetti “padre-specifici”, che sono molto interessanti, soprattutto sui figli maschi. Alcuni studi dimostrano che i preadolescenti che hanno avuto un papà accudente sono meno tendenti a quella mascolinità violenta e tendenzialmente sopraffattiva che può esprimersi con atti di bullismo». Così come la violenza, anche la cura e la calma si passa di generazione in generazione: più padri presenti e affettuosi possono avere un impatto enorme nel cambiamento sociale. L’economista Ginevra Bersani Franceschetti, nel suo libro Il costo della virilità. Quello che l’Italia risparmierebbe se gli uomini si comportassero come le donne (Il Pensiero Scientifico editore) dimostra come avere uomini più tranquilli comporterebbe un risparmio di poco meno di 100 miliardi all’anno e in questo gioca un ruolo fondamentale l’esempio paterno.
La quasi totalità dei Paesi occidentali, poi, è colpita da quello che in questi anni si sta rivelando essere una vera e propria emergenza sociale, l’inverno demografico. Il coinvolgimento dei padri nella cura dei figli ha un ruolo determinante nella scelta o meno di una madre di avere il secondo bambino. Più ha avuto una controparte attenta e disponibile, più una donna sarà incline a diventare mamma di nuovo. Un altro dato che non si può ignorare è l’alto numero di famiglie che arrivano a una separazione. Nel caso di rottura tra i genitori, è meno probabile che si creino situazioni conflittuali che mettano il bambino nel mezzo. «Si tratta di effetti dimostrati da decine e decine di studi», continua Tamburlini, «sono chiari e non discutibili».
Gli ostacoli al pieno coinvolgimento dei padri nella cura dei figli
Se è vero che esistono ancora delle resistenze culturali, soprattutto nel nostro Paese, è anche vero che sono in tanti gli uomini che vorrebbero avere più tempo da passare con i propri bimbi. La ricerca State of fathers in Southern Europe, è stata condotta in Spagna, Portogallo e Italia nell’ambito del progetto europeo “Engaging Men in Nurturing Care Initiative – Il coinvolgimento del padre nei primi mille giorni”; 1520 genitori – uomini e donne – hanno risposto a un questionario sulla cura dei figli. C’è ancora una certa disparità di percezione (i maschi sentono di condividere il carico di più rispetto a quanto effettivamente le loro controparti femminili testimoniano), ma la maggioranza vorrebbe essere più presente. Cosa lo impedisce? Il tempo, soprattutto per i padri italiani. La sua mancanza (e, in subordine, quella del denaro) rappresenta l’ostacolo più frustrante per un loro pieno coinvolgimento nella cura dei figli (68%, contro una media globale dei tre Paesi del 65%), nelle faccende domestiche (76% vs 71%), nella cura di familiari con disabilità e di sé stessi. Questo aspetto è particolarmente sentito dai genitori di bimbi sotto i cinque anni.
La politica cosa fa?
Nonostante tutte le ricerche – sia scientifiche che sociologiche – evidenzino l’importanza della cogenitorialità e della presenza dei padri per figli, le politiche sulla famiglia in Italia non paiono fare passi avanti in questa direzione. «Nell’agosto del 2022, con il ministro Andrea Orlando, ci siamo adeguati alla Direttiva Europea del 2019 sulla conciliazione dei tempi vita-lavoro, che stabiliva che ciascun Paese dovesse offrire almeno 10 giorni di congedo di paternità, ben retribuiti o retribuiti al 100%», dice Annina Lubbock, sociologa delle pari opportunità, «e che i congedi volontari successivi – quelli che noi chiamiamo “congedi parentali”, avessero delle porzioni non trasferibili tali da incentivare gli uomini a prenderle». Prima del 2022, le dieci giornate libere non erano strutturali nelle politiche italiane, ma erano rinnovate ogni anno; in più, non erano estese al pubblico impiego, come invece ora accade.
Se ci sono alcune note positive, il quadro generale è però a tinte fosche. «Lo standard della Direttiva europea era già molto basso», chiarisce Lubbock, «e due terzi degli Stati membri già avevano congedi più lunghi. Da noi, invece, siamo rimasti ai soli dieci giorni, senza alcun aumento». Problematiche sono anche le tempistiche di fruizione: le giornate libere possono essere richieste da due mesi prima a cinque mesi dopo il parto. Il papà che sa di averne solo una decina a disposizione ne prende due o tre alla nascita e poi tiene le altre per utilizzarle in caso di emergenza.
Anche i congedi parentali – che poi è una cattiva traduzione dell’inglese “parental”, che significa “genitoriali” – in Italia presentano numerose criticità. La maternità, per le mamme, ha un totale di cinque mesi, due prima e tre dopo il parto (anche se ci sono diverse formule e molte ora scelgono di lavorare fino agli ultimi giorni per avere più tempo una volta nato il bimbo). È quasi la regola che, una volta terminato questo periodo, la madre richieda anche il congedo volontario; è l’Oms stessa a consigliarlo, visto che l’allattamento al seno esclusivo è la scelta migliore sino ai sei mesi del lattante. Fino a non molto tempo fa, questo periodo di astensione ulteriore dal lavoro era retribuito al 30%. Ora, per i primi mesi viene garantito uno stipendio all’80% (l’anno scorso erano due, quest’anno tre).
Qual è il problema allora? Secondo le politiche odierne, i mesi fruibili sono sei, che possono diventare dieci se a prenderli sono entrambi i genitori (11 se il padre rimane a casa almeno tre mesi, continuativi o frazionati), con una porzione di tre mesi non trasferibile. Il periodo pagato all’80% però, è sempre trasferibile ed è quindi quasi sempre richiesto dalle madri. Restano per i padri solo i mesi pagati al 30%. A causa del gender gap sul lavoro, tuttavia, chi porta a casa lo stipendio maggiore è spesso l’uomo: diventa difficile per la famiglia rinunciare al 70% dei suoi guadagni mensili. In questa situazione, i papà che usufruiscono dei congedi parentali sono una minoranza.
Le richieste del Csb
«Bisognerebbe dedicare dei mesi ben pagati – possibilmente al 100%, come accade in altri Paesi – ai soli padri», commenta Lubbock, «in modo che siano incentivati a richiederli. Alcuni contestano questa proposta, dicendo che la presenza dell’uomo rischia di svilire e non riconoscere la funzione della madre; questo ci sembra un cattivo argomento. I due ruoli sono complementari. È vero che il papà non allatta, ma è dimostrato che la presenza di un compagno accudente durante l’allattamento, che faccia magari gli altri lavori in casa, aumenta addirittura la produzione di latte».
Le richieste che fa il Csb sono chiare. «Vorremo estendere il congedo di paternità almeno a un mese, di cui una parte continuativa, retribuito al 100%, individuando un percorso per arrivare alla parità», afferma la sociologa. «Chiediamo anche di estendere il diritto al congedo di paternità alle partite iva, che al momento non hanno la possibilità di fruirne, e di assicurare che una quota dei congedi parentali retribuiti all’80% sia riservato al secondo genitore, con misure per prevenire l’impatto del gender pay gap. Sarebbe anche importante portare al 100% la retribuzione del congedo di maternità».
La politica ascolterà queste istanze? «Abbiamo interloquito molto con la ministra Eugenia Maria Roccella e con la politica, abbiamo fatto uno sforzo per la finanziaria alla fine dello scorso anno, ma non abbiamo avuto successo», conclude Tamburlini. «Ci hanno ascoltato, ma poi non hanno accolto le nostre proposte. Dovrei essere pessimista, quindi. Ma io sono ottimista per natura e penso che un dato che gioca a nostro favore è che le grandi imprese dimostrano una sensibilità diversa, alcune addirittura sono molto più avanti sulle politiche di pariteticità rispetto allo Stato. Se è il mondo delle imprese e non l’opposizione che suggerisce questi cambiamenti, forse potrebbe esserci una disponibilità maggiore a lavorarci».
Foto in apertura da Unsplash
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