Antonio Lafiosca, COO e Co-fondatore di Opyn
Il 40% delle imprese teme che l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in banca possa portare a una riduzione dell’accesso al credito, a seguito di una valutazione iper-oggettiva dei dati relativi all’azienda. Appena l’11% delle imprese è convinta che l’AI faciliterà l’erogazione di credito, mentre la maggioranza, il 49%, non sa ancora dire se la tecnologia hype del momento avrà un impatto negativo o positivo sui finanziamenti alle imprese.
È forse il dato più intrigante che emerge dall’indagine promossa da OPYN e condotta da Ipsos, mediante interviste qualitative ai CFO di più di 70 aziende italiane, con una prevalenza della manifattura e della produzione sui servizi, e a una dozzina di responsabili credito di banche, istituti territoriali e fintech.
L’AI, questa sconosciuta
Il risultato conferma che intorno all’intelligenza artificiale c’è tanto interesse quanto confusione. Questa tecnologia si è palesata al grande pubblico da un paio di anni, cioè dopo che ChatGPT e altri strumenti di intelligenza artificiale generativa sono diventati accessibili praticamente a chiunque. Ma, in realtà, l’AI tout court, non generativa ma discriminativa, vanta almeno qualche decina di anni di ricerche.
Ed è già in uso presso banche e istituzioni finanziarie, anche per l’erogazione del credito. Il banking sta da tempo usando, pur con gradi diversi di adozione e non sempre con piena maturità, la AI tradizionale per analizzare grandi moli di dati, alla ricerca di pattern non immediatamente identificabili dalla mente umana.
Un salto quantico nella prevenzione delle frodi, nell’antiriciclaggio, nel monitoraggio delle transazioni, nella gestione del rischio. E, in alcuni casi, anche nell’analisi del merito creditizio: le banche già oggi, di prassi, aggiornano mensilmente o quotidianamente i rating.
Il tema dei dati
Il problema per l’erogazione del credito, casomai, è disporre di dati freschi e affidabili sullo stato di salute dell’impresa, che possano facilitare il lavoro di AI ed esseri umani. È arcinota, a chi lavora in ambito banking e fintech, la necessità di andare oltre il bilancio di esercizio, che scatta una fotografia dell’azienda vecchia di almeno 6 mesi, nel migliore dei casi, e di quasi 18 nei peggiori.
L’open banking, frutto della PSD2, doveva aprire una nuova era grazie alla possibilità di accedere ai dati e alle transazioni dei conti correnti dell’impresa: una rivoluzione rinviata all’arrivo della PSD3, che dovrà risolvere alcuni nodi finora irrisolti.
La decisione finale resta all’umano
Tutta questa automazione, però non ha rimosso l’elemento umano. Anzi, le banche non ci pensano proprio a lasciare tutta la decisione all’intelligenza artificiale. E non solo per motivi regolamentari: c’è piena consapevolezza del fatto che l’AI non è affidabile al 100% e non è detto che mai lo sarà.
La banca non si fida dell’AI
Non solo: ai ricercatori di Ipsos è stato risposto che gli algoritmi consentono di risparmiare tempo, ma non sono né più accurati né più oggettivi di un collega in carne ed ossa. Quest’ultimo può vedersi sgravato di una serie di operazioni, chiedendo all’algoritmo di andare a recuperare le informazioni sul cliente che sono sparse in diversi punti dei sistemi informativi della banca. Oppure, chiedere una istantanea analisi predittiva sui conti dell’azienda, per capire i trend in corso.
Tutto questo, non per arrivare a un gelido “computer says no” e negare un finanziamento. Ma, così le banche nelle loro dichiarazioni, per rendere più rapida, snella e precisa la decisione finale presa comunque da un essere umano.
«L’intelligenza artificiale è una realtà da tempo in banca – commenta Antonio Lafiosca, COO e Co-fondatore di Opyn – e con l’esplosione della GenAI si parla ovunque di questa tecnologia, non sempre in modo appropriato. Opyn si pone come un abilitatore tecnologico per l’efficienza e la qualità dei processi, un aspetto che viene colto sia dalle banche sia dalle imprese. Siamo di fronte a una trasformazione epocale e non dobbiamo avere paura o diffidenza verso il nuovo: come internet ha modificato processi e organizzazioni, così farà l’intelligenza artificiale. Dalla nostra indagine emerge un sistema ancora in transizione: le banche spingono sull’AI per guadagnare efficienza e capacità predittiva, mentre le aziende ne colgono il potenziale ma si confrontano con ostacoli culturali e organizzativi. Il futuro della gestione del credito sarà ibrido: algoritmi potenti e controllo umano dovranno convivere per garantire affidabilità, trasparenza e fiducia».
Un approccio proattivo
La “paura dell’oggettività” dichiarata da quasi la metà delle imprese interpellate ci racconta molto. L’idea che la maggiore visibilità dei dati aziendali comporti un taglio al credito è qualcosa su cui riflettere. E potrebbe essere lo stimolo per cercare una maggiore efficienza, anche grazie all’intelligenza artificiale, e migliorare i propri “numeri”.
D’altronde, la normativa da anni spinge le banche verso una maggiore prudenza nella valutazione del credito, dopo il boom di sofferenze di qualche anno fa. È quindi dalla compliance, non dall’AI, che arriva il maggiore impatto sull’erogazione di finanziamenti. Se un’azienda è indebitata, non investe e non sembra capace di generare utili, non sarà appetibile né per un essere umano, né per un algoritmo.
Nuove prospettive
L’AI potrebbe, infine, considerare nuove dimensioni di analisi della capacità di un’azienda di restituire un finanziamento. L’utilizzo dei cosiddetti “dati alternativi” potrebbe permettere di dare il via libera a finanziamenti che, in caso di analisi tradizionale, verrebbero fermati da un semaforo rosso. Interessante, in questo senso, l’esperienza maturata da ACMI – Associazione Credit Manager Italia e raccontata dal Vicepresidente (nonché Credit Manager presso Hilti), Fabrizio Pallini. «Insieme a un’azienda, abbiamo sviluppato un algoritmo per velocizzare le analisi su alcune tipologie di cliente. Abbiamo utilizzato alcuni dati interni, come i tempi di pagamento, unendoli a dati esterni, a volte anche esotici come l’età dell’impresa e la data di nascita dei manager. Per sei mesi, abbiamo confrontato le valutazioni espresse sulle stesse imprese da un operatore umano e dall’algoritmo di machine learning. E non abbiamo riscontrato discostamenti nella valutazione della rischiosità».
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link