Lunedì scorso, a Firenze, si è celebrato il ventesimo anniversario di D.A.T.E., brand fondato nel 2005 da quattro amici che oggi è diventato una realtà abbastanza ampia nel territorio italiano e non solo, con 20 milioni di euro di fatturato e una distribuzione in 950 punti vendita nel mondo e tre flagship store in Italia. Nonostante numeri da far invidia e una produzione che si appoggia al cuore del distretto calzaturiero toscano, la narrazione che circonda D.A.T.E. è ancora quella di un “piccolo” o “emergente”, una categoria comoda ma fallace che spesso viene affibbiata anche a marchi strutturati, solo perché non gravitano nell’orbita milanese dell’alta moda o del fast fashion con strategie globalizzanti. D.A.T.E. non sembra godere di quella considerazione che, nel sistema moda, godono altri brand meno solidi – un problema tipico del nostro paese in cui si può rimanere “emergenti” anche per mezzo secolo. A vent’anni dalla sua nascita D.A.T.E. continua a crescere, ma fuori dai riflettori del sistema moda istituzionale – moda che oggi è in crisi nera. Perchè, nonostante la qualità artigianale, la tracciabilità produttiva e una proposta stilistica di evidente successo, questo e altri brand indipendenti restano ai margini del dibattito mainstream sulla moda italiana?
Il caso D.A.T.E. rende evidente la frattura tra successo commerciale e riconoscimento culturale che va allargandosi sempre di più nella bolla della moda, dove è facilissimo avere una senza l’altra. In effetti, le narrazioni “ufficiali” della moda italiana sembrano privilegiare pochi grandi nomi. È il riflesso di un sistema che fatica a riconoscere il valore, se non è accompagnato da un’aura glamour codificata: sfilate in calendario ufficiale, celebrities internazionali, endorsement editoriali e una narrazione da “nuovo fenomeno”. Ma D.A.T.E. (come molti altri) non è un fenomeno: è un’impresa sana, solida, fondata su valori chiari e una filiera corta, efficiente e made in Italy. È un’impresa che ha scelto di crescere gradualmente, costruendo il proprio pubblico con costanza, anziché inseguire il fuoco fatuo delle mode del momento e gli strombazzamenti dei media. Paradossalmente, viene spesso marginalizzata dalla mappa visiva e culturale della moda italiana, che continua a cercare l’emergente “da copertina”, senza riconoscere le forme più lente e strutturate di successo.
Questo paradosso riguarda moltissimi brand indipendenti italiani che, nonostante la creatività, l’apprezzamento di una clientela spesso internazionale, fatturati solidi e strutture produttive efficienti, restano virtualmente invisibili ai radar del sistema moda. Ce lo dicevano anche i finalisti di Camera Moda Fashion Trust 2025, i quali spesso hanno più facilità a vendere le proprie creazioni (spesso anche custom-made) alle audience estere e specialmente asiatiche che nel proprio stesso paese, dove il pubblico è diffidente di chiunque non sia un grande nome storico. L’Italia è, in teoria, la patria della qualità, dell’artigianalità e del design. Ma in pratica, il sistema moda nazionale funziona secondo una logica binaria che da un lato premia solo le grandi dinastie del lusso mentre dall’altro esalta, a intermittenza, nuovi nomi che “emergono” grazie a operazioni di marketing mirate o a sostegni esterni come l’ingresso in fondi privati, il supporto di grandi retailer digitali, o l’acquisizione da parte di gruppi del lusso. Ma questi “sostegni esterni”, anche se fondamentali, non sono che l’ennesima riconferma che serve sempre un paternalistico benefattore che aiuti a emergere da un pantano in cui nessuno si salva da solo – un po’ come nei romanzi di Dickens dove il lieto fine era sempre rappresentato dall’ingresso dei poveri eroi nel sistema sociale dominante.
Oggi, nella moda italiana, chi sta in mezzo viene sistematicamente escluso dalla narrazione ufficiale. Eppure è proprio quel “mezzo” a tenere in piedi l’intera industria della moda italiana: sono i brand come D.A.T.E., Golden Goose, o Candiani a rappresentare il cuore pulsante del made in Italy ma anche la parte più viva di un sistema imprenditoriale che negli anni ’80 e ’90 consentiva a designer esordienti senza enormi budget, come furono nelle primissime collezioni anche Dolce&Gabbana, di potersi espandere a dismisura e creare imperi. Tornando al giorno d’oggi, aziende che innovano, producono localmente, danno lavoro sul territorio e contribuiscono concretamente al PIL del settore funzionano e crescono, sì, ma non sentono ad esempio la necessità di partecipare alla Milan Fashion Week come rappresentanti di realtà imprenditoriali e modelli economici effettivamente funzionanti. Basti pensare che l’Italia conta oltre 50.000 PMI attive nella moda e nel tessile, con un contributo al fatturato dell’intera filiera che si aggirava poco sotto i 60 miliardi di euro nel 2024, in calo per colpa della crisi ma che dovrebbe riprendersi nei prossimi mesi. Ma sono proprio queste realtà a soffrire di più della mancanza di visibilità sistemica.
Questa distorsione ha anche una forte componente culturale e mediatica. Il sistema moda italiano, dalle istituzioni passando per i media specializzati fino alle piattaforme di comunicazione e scouting, alimenta una narrazione che tende a celebrare solo i poli estremi: i mostri sacri e le meteore da social network. In mezzo resta un enorme vuoto narrativo, abitato da brand maturi ma non “iconici”, solidi ma non “leggendari”, coerenti ma non “virali”. In un’industria dove l’apparenza spesso vale più della sostanza il successo percepito prevale sul successo reale. È il motivo per cui un brand come The Attico, pur essendo al 49% di proprietà di Moncler, viene ancora percepito come un marchio “indipendente” e “fresco”, mentre realtà ben più strutturate vengono etichettate come emergenti o, peggio, ignorate. Tutta una questione di narrazione. Il che non migliora quando si entra nel merito della fashion week, il cui calendario di show è sempre più disertato da designer emergenti che preferiscono razionalizzare le spese e da grandi brand che optano ormai per il più rapido formato co-ed. Organizzare una sfilata a Milano costa in media tra i 40.000 e i 150.000 euro, e spesso il ritorno in termini di vendite non giustifica l’investimento. La presenza nei calendari ufficiali non garantisce visibilità mediatica, a meno che non si abbia alle spalle un ufficio stampa fortissimo e un’agenzia creativa di alto livello. Ecco perché brand come Act N°1, Vitelli o Cormio, ma anche GR10K e Federico Cina, hanno scelto soluzioni alternative come presentazioni, eventi digitali, storytelling a lungo termine. Ma questa scelta, spesso vissuta come necessaria, viene interpretata dai media come un segnale di debolezza, quando in realtà è l’indice di un cambiamento strutturale e necessario. Golden Goose, ormai un colosso da 500 milioni di euro di fatturato e dieci anni di storia alle spalle, organizza sì i propri eventi extra-moda ma sotto il nome di HAUS of Dreamers, fuori dalla cornice di una fashion week dove troppo spesso si confonde la visibilità con il valore.
Il vero nodo della questione è che in Italia la moda non fa sistema. A differenza di quanto accade in Francia con la Fédération de la Haute Couture et de la Mode, o in Inghilterra con il programma NEWGEN del British Fashion Council, manca un meccanismo strutturato e continuativo di supporto alle nuove imprese. Non esiste un programma nazionale che aiuti i brand indipendenti ad affrontare le sfide del passaggio da start-up a impresa consolidata nè un fondo pubblico o privato che favorisca l’accesso al credito per aziende della moda. E, soprattutto, non esiste un vero sistema di mentorship in cui i grandi possano sostenere i piccoli, condividendo risorse, visibilità e know-how. La CNMI ha avviato iniziative meritorie come il Fashion Trust Grant o il programma Designer for the Planet, ma senza pensare a ristrutturare i meccanismi del del sistema. Al di là del fattore economico, pare assente una vera cultura del supporto reciproco, e la stampa dominante – con rare eccezioni – tende a seguire i flussi imposti dai grandi gruppi o dagli algoritmi di visibilità. In’Italia esiste una moda capace di crescere fuori dal sistema, con imprese serie, coerenti, ben fatte. Ma per quanto tempo potrà farlo ancora senza un riconoscimento adeguato? Continuare a trattare come “emergenti” realtà che hanno vent’anni di storia e milioni di euro di fatturato significa alimentare un’illusione prospettica che danneggia tutto il settore. Se vogliamo che la moda italiana continui a essere un’industria culturale e non solo commerciale, serve una svolta. Serve un sistema che riconosca e valorizzi la pluralità delle forme di successo, che supporti i nuovi anche quando non sono più “novità”, che crei connessioni tra vecchi e nuovi attori del settore. Culturalmente, invece, servono narrazioni più coraggiose e indipendenti, che raccontino ciò che accade davvero, e non solo ciò che brilla. Perché senza questo cambiamento, continueremo a perderci storie come quella di D.A.T.E.: storie di qualità, visione e resilienza, che meritano di essere al centro, non ai margini.
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