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Il lavoro di cura: resistenza quotidiana all’indifferenza


Sul piano storico, ogni cultura ha costruito forme istituzionali della cura: dalle case di ospitalità nel Medioevo cristiano, ai sistemi di mutuo soccorso nell’Ottocento operaio, fino alle pratiche di “welfare comunitario” in diverse culture. La cura non è mai stata riducibile a una dimensione privata: è un fatto politico, sociale, simbolico. È l’esercizio concreto della solidarietà.  L’idea di Welfare State europeo è nata sotto le bombe della Seconda guerra mondiale, nel momento più buio ci si accorge della necessità di sognare altro.  Jurgen Habermas affermava che l’idea della felicità tra quattro mura, pensata come chiusura nella cerchia interna della famiglia, è solo apparentemente un perfezionamento dell’intimità: in realtà è una forma di esclusione, in cui il pubblico si svuota e si indebolisce proprio a causa dell’assenza del privato nella sfera collettiva.

 

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Nel mondo moderno, segnato dall’individualismo e dalla mercificazione delle relazioni, il prendersi cura richiede una nuova consapevolezza: occorre riappropriarsi della cura come atto sovversivo contro l’indifferenza, come progetto culturale e politico di rifondazione della convivenza umana. 

Viviamo in un’epoca in cui diritti che pensavamo acquisiti diventano favori, storture storiche condannate tornano a riaffacciarsi, mentre guerre e genocidi vengono giustificati dalla retorica della difesa dei confini, in un mondo dove quei confini sono sempre più anacronistici.

Come sottolineava Zygmunt Bauman, viviamo un’inversione paradossale: consumiamo relazioni e viviamo i consumi come relazioni, perdendo il senso profondo del legame e del riconoscimento reciproco

A fronte di una società che sembra sprofondare nell’apatia, cresce una percezione diffusa di solitudine: persone che scompaiono nelle loro case, adolescenti in ritiro sociale, esistenze che si dissolvono nel silenzio. Come sottolineava Zygmunt Bauman, viviamo un’inversione paradossale: consumiamo relazioni e viviamo i consumi come relazioni, perdendo il senso profondo del legame e del riconoscimento reciproco. A ciò si aggiunge un’insicurezza costante, interiore e progettuale, che ci impedisce di immaginare un domani diverso da un oggi di precarietà e paura. Eppure, nonostante tutto, non smettiamo di cercare l’umanità. Sogniamo un mondo differente, crediamo ancora nella possibilità di scelte alternative, nel valore delle relazioni autentiche, nella costruzione di comunità solidali e relazionali. Comunità che non si arrendono all’algoritmo, ma continuano a interrogarsi su cosa significhi essere umani anche nell’era dell’intelligenza artificiale. Il benessere personale passa attraverso il confronto, la scoperta di sé nello scambio con l’altro, la connessione profonda tra sostenibilità ambientale e radici storiche da cui trarre un’idea di futuro.

Lo spazio condiviso protegge dalla solitudine e apre a nuove profondità del sé. Solo in questa dimensione collettiva, fatta di linguaggi accessibili, affinità di vissuti e competenze, è possibile riappropriarsi del proprio benessere come bene comune. Dove il bene comune non è soltanto un principio astratto, ma implica una responsabilità concreta di tutela e valorizzazione. La logica non è quella di costruire sempre nuovi spazi, ma di rigenerare quelli esistenti, ritrovando la meraviglia nella natura che ci circonda e la consapevolezza che anche le scelte più minute possono cambiare il corso delle cose.

Il tempo del cammino è quello di chi fa più fatica a stare al passo con una società che corre. È un tempo lento, che rivendica diritti e non elemosina assistenza. Un tempo umano. È da questo sguardo che nasce la domanda che mi accompagna: se il concetto di cura, nel suo ampio respiro di responsabilità verso il mondo che ci circonda, ha ancora un futuro, quale può essere il destino della professione del lavoro di cura?

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La domanda interroga la possibilità stessa di partecipare al cambiamento, di pensare il proprio benessere come benessere collettivo. Un’affermazione politica, certo, ma anche una tensione esistenziale, che si confronta con una realtà in cui migliaia di professionisti della cura vivono ai margini, poveri tra i poveri, strumentalizzati come ammortizzatori di un welfare che taglia anziché investire. Accanto a loro, milioni di persone fragili dipendono da questo lavoro, eppure restano invisibili perché non conformi agli standard di produttività e velocità imposti dalla società.

Ho sempre immaginato il lavoro di cura come un incontro, come costruzione di relazione, come condivisione di umanità. Una cura orizzontale, in cui chi riceve cura sceglie di affidarsi e chi offre cura si rende disponibile non solo con competenze tecniche, ma con tutta la propria umanità. Chi si prende cura non è solo un professionista: è una persona che abita lo spazio dell’attenzione all’altro. La partenza non è uguale per tutti, ma ciò che conta è lo sforzo di ciascuno nel riconoscere bisogni e rispondere con presenza e responsabilità.

Il lavoro di cura richiede una consapevolezza identitaria, un riconoscimento profondo del proprio ruolo, non solo tecnico ma trasformativo. È un lavoro che coinvolge la persona nella sua interezza, nella capacità di vivere l’empatia e di attraversare la complessità. Non esistono manuali per fare bene questo mestiere, perché ogni relazione è unica, ogni storia irripetibile. La variabile centrale è l’umano. La professionalizzazione della cura ha portato innegabili benefici: formazione, protocolli, specializzazione. Ma la tecnicizzazione ha un rovescio insidioso: la spersonalizzazione. Quando l’intervento si riduce a prestazione, l’altro diventa utente, paziente, cliente, e la cura perde la sua forza generativa. Serve un cambio di paradigma: dalla verticalità professionale alla relazione orizzontale, dove chi cura e chi è curato mettono in comune saperi e vissuti. È in questa co-produzione del cambiamento che la cura torna ad essere trasformativa.

Ma a questo riconoscimento simbolico non corrisponde una valorizzazione reale. Siamo di fronte a un paradosso etico: più il lavoro di cura è essenziale, più è svalutato, sottopagato, invisibile. Infermieri con stipendi tra i più bassi d’Europa, educatori precari, Oss sovraccaricati. Professionisti specializzati ma impoveriti.

C’è poi l’enorme mondo sommerso del lavoro domestico e di assistenza familiare. Secondo il rapporto 2024 di Assindatcolf e Idos, il fabbisogno per il 2025 è stimato in oltre 1 milione di assistenti familiari, di cui il 60% opera in irregolarità, alimentando un’economia sommersa che vale oltre 15 miliardi di euro. Le cosiddette badanti sono oggi il pilastro invisibile di un welfare che non riesce a reggere: lavorano in solitudine, senza tutele, spesso senza formazione. Sostituiscono un sistema pubblico insufficiente e affiancano strutture residenziali sempre più istituzionalizzate e in cui le persone non vogliono andare.

Siamo di fronte a un paradosso etico: più il lavoro di cura è essenziale, più è svalutato, sottopagato, invisibile

Il sistema sociosanitario è ingabbiato in logiche di minutaggi, costi, burocrazia, che impediscono una presa in carico autentica. I servizi rischiano di morire soffocati, trasformandosi in luoghi spersonalizzati. A tenere vivo il senso di quei luoghi è solo la responsabilità individuale di chi vi lavora, ma questo porta al burn-out, alla frustrazione, alla fuga. Un sistema basato sul buon senso dei singoli è un sistema già morto. La burocrazia schiaccia le piccole realtà del Terzo Settore, che invece rappresentano lo spazio reale di sussidiarietà. Si ritorna così al nodo iniziale: una cura privatizzata, scaricata sulle famiglie, travestita da slogan rassicuranti sulla “vicinanza”. Ma nella realtà, si traduce in abbandono, solitudine, frattura del tessuto sociale. Un welfare che chiude le persone in casa o in strutture, che isola invece di includere, non è un welfare.

Riconoscere la dignità professionale del lavoro di cura significa agire su più piani: culturale, economico, politico. Significa ripensare il paradigma, costruire una nuova cittadinanza sociale in cui la cura non sia il residuo delle politiche assistenziali, ma il cuore pulsante di una società fragile e interdipendente.  Con una capacità di rigenerarsi per rispondere alle sfide future di una società che invecchia. 

L’autore di questo articolo è  direttore generale della Comunità di Capodarco dell’Umbria

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Foto: archivio VITA

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