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Imprese coesive, fattori di crescita sostenibile per l’Italia


Le imprese coesive fanno la differenza in un contesto economico con il loro soft power: un sistema che si impone con la forza della gentilezza, con i valori, con la cultura, con la generazione di fiducia. Un capitale di beni immateriali che garantisce rendite immediate che si estendono anche nel lungo periodo, valorizzando i talenti e le relazioni. Ne parliamo in questa intervista con Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola

 

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In cosa si differenziano le imprese coesive?

Le imprese coesive sono le protagoniste del Rapporto Coesione è Competizione 2025 realizzato da Fondazione Symbola con Unioncamere e Intesa Sanpaolo, in collaborazione con AICCON, IPSOS e Centro Studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne.

Il Rapporto racconta storie di territori, di bellezza, di innovazione, di comunità: racconta “l’Italia che fa l’Italia”, quelle sfumature che una lettura soltanto economica dei fatti non è in grado di interpretare. Ma sono proprio quelle sfumature a dare una marcia in più nostro Paese.

Perché le imprese coesive sono così interessanti da meritare addirittura un Rapporto? In cosa si differenziano dalle altre aziende italiane, pur numerose e di rinomata qualità?

Lo chiediamo a Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola e innamorato dell’Italia.

Cosa definisce le imprese coesive e quante sono in Italia?

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Le imprese coesive sono quelle che hanno rapporti migliori con i lavoratori, con il territorio, con le comunità, con i fornitori: sono una componente essenziale della costruzione di un’economia più a misura d’uomo.

Sono un sistema in crescita, sono tante – hanno superato il 40% – sono imprese grandi e piccole che rappresentano meglio di altre il saper fare italiano.

L’Italia è forte quando fa l’Italia, quando incrocia la bellezza, l’innovazione con le comunità, con i territori, con la storia, con l’anima. Anche per questo le imprese coesive sono quelle che vanno meglio, innovano di più, esportano di più, producono più posti di lavoro, sono più impegnate sul green.

La maggior parte di queste imprese fa investimenti sulla transizione verde ed è impegnata anche sui fronti più innovativi, come la transizione tecnologica legata al digitale.

Sostenibilità, generatrice di benessere

Quali sono i driver principali della sostenibilità?

Il lavoro che abbiamo fatto in questi anni ha portato a risultati che ci aspettavamo, ma non in queste dimensioni.

A volte la sostenibilità è raccontata come necessaria, sulla base dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e dei 169 target dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Ma questa è una chiave di lettura che va bene per definire le politiche degli Stati, per le grandi imprese, certamente non arriva ai cittadini.

La loro percezione della sostenibilità è legata soprattutto a un fattore etico che è solido ma non enorme (7-8%) e ad un fattore legato alla preoccupazione e alla paura degli eventi (il crollo di un ghiacciaio, gli eventi climatici estremi, le migrazioni). È chiaro che allo scoppio di una nuova guerra i valori restano, ma emergono altre preoccupazioni.

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Quello che però sta crescendo stabilmente è l’attenzione alla qualità della sostenibilità. I cittadini la vedono come generatrice di benessere: i prodotti sostenibili vengono considerati più buoni, più favorevoli anche per i consumatori, per i cittadini e le imprese sostenibili vengono considerate più affidabili.

Sostenibilità e qualità ci offrono una chiave di lettura per capire come si orientano i cittadini.

Favorire la trasparenza

Per i cittadini non è sempre facile capire se un’azienda è veramente sostenibile. Tra greenwashing e greenhushing come si comportano le imprese?

È difficile, ovviamente bisogna favorire il più possibile la trasparenza. C’è un bel verso di Alda Merini che dice “continuerò a dire che la vita è una festa e che la festa brucia gli impostori”.

Bisogna scommettere sul fatto che la trasparenza bruci gli impostori, perché gli impostori danneggiano tutti.

La potenza evocativa dell’Italia

In economia oggi contano fattori come cultura, comunità, talenti, che una volta non erano presi in considerazione. Non si rischia però che sia un fenomeno passeggero e poco concreto?

No, perché in Italia questa è una moda passeggera che dura da qualche secolo, perché l’Italia nel mondo è sempre stata questa.

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Carlo Maria Cipolla disse che “da secoli l’Italia produce all’ombra dei campanili i prodotti belli che piacciono al mondo”. Questo vale in tutti i settori: non vale solo per la Ferrari, ma anche per il vino, per il Made in Italy più tradizionale, per l’agricoltura di qualità.

Se anche volessimo competere – e sarebbe sbagliato – calpestando i diritti o le regole ambientali ci sarebbe chi lo farebbe “meglio” di noi, come avviene nei paesi emergenti.

La nostra forza, invece, è quella di fare prodotti a cui i cittadini del mondo si rivolgono perché esprimono una domanda di senso, di bellezza, di qualità.

Se Obama ordina un vino italiano quando va a cena con Michelle, non è solo per la grande qualità dei vini italiani. Dietro c’è anche il fatto che bevendo un vino italiano pensi a Mantova, a Venezia, a Roma, a Firenze. Altri paesi non hanno questa potenza evocativa; non vale solo per il vino ma anche per i mobili, per la moda.

La forza del vino è cresciuta rispondendo positivamente a una grave crisi. In passato si producevano grandi quantità di vino a basso prezzo, che spesso veniva usato per tagliare i vini più pregiati francesi o distillato per ricavarne alcool.

Poi arrivò la sofisticazione criminale con il metanolo, per cui morirono delle persone. Le istituzioni aumentarono i controlli, ma la risposta vera è stata un’altra. Nel giro di pochi anni, si passò dalla grande quantità a basso prezzo alla qualità legata al territorio.

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Allora producevamo il 40% in più del vino che si produce oggi e l’export valeva 700 milioni di euro, oggi si esporta per 8 miliardi di euro.

Anche questa è la dimostrazione che l’Italia è forte quando fa l’Italia, e per questo la tenuta delle comunità, l’empatia delle persone, la forza delle relazioni sono essenziali.

Le imprese coesive sono fatte anche di relazioni e di valori

In nome della soft economy, il termine coniato da Symbola, oggi si creano sinergie che una volta non erano neanche pensabili.

Nel Rapporto si leggono queste sinergie, perché i distretti esistono in Italia e non esistono negli altri paesi. Qualcuno ha provato a imitarli, ma nessuno ci è riuscito perché dietro ai distretti c’è – come dicevamo prima – il senso della qualità e del bello, ma c’è anche un sistema di relazioni legate a valori comuni.

Per questo riesci a unire imprese, anche piccole, che possono lavorare insieme perché sono legate da un sistema di valori.

Questo aspetto è stato sottovalutato per molto tempo e a volte lo è ancora. A volte pensiamo a un futuro in cui non ci facciamo forti nei punti in cui effettivamente lo siamo; questo vale nelle relazioni come nelle grandi sfide.

Personalmente mi annoio quando sento riparlare di nucleare perché è una palla persa, nel senso che il nucleare costa molto più delle rinnovabili.

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Francesco Lacamera, il direttore generale di IRENA (l’agenzia mondiale dei paesi che hanno fonti rinnovabili che ha sede nei paesi arabi, che si stanno già attrezzando per l’uscita dalle fonti fossili) ha spiegato – dati alla mano – che l’anno scorso il 92,5% della nuova potenza elettrica installata era fatta da rinnovabili. Il resto, cioè il 7,5%, era un mix composto da carbone, olio combustibile e nucleare, che era addirittura calato un po’.

Perché succede questo? Perché, se lo fai bene, l’impianto con le rinnovabili costa meno, abbassa le bollette alle famiglie e alle imprese. Non capire questo ci fa perdere dal punto di vista economico.

Una visione del futuro

Le imprese ovviamente devono creare lavoro e anche ricchezza. La coesione è un freno o un acceleratore?

L’interesse dell’indagine che abbiamo presentato è proprio questo: non è un’indagine fatta in laboratorio, è un’indagine sul reale, su quello che accade, ma sono gli stessi dati che per altri aspetti ci vengono dall’indagine sulla green economy.

Le imprese coesive non solo sono più impegnate sulle nuove frontiere come la transizione verde o l’innovazione tecnologica, ma sono quelle che vanno meglio, ovvero esportano di più, innovano di più e producono più posti di lavoro.

Quindi ci sarà pure un fattore di spinta legato a una cultura che cambia, ma c’è anche una visione intelligente del proprio interesse e del proprio futuro.


Leggi il Rapporto Coesione è Competizione 2025

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