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L’industria può essere circolare e sostenibile e anche guadagnare di più? Al MICS investono nella ricerca per arrivarci


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La manifattura italiana resta l’ossatura del Paese, ma per affrontare le sfide di sostenibilità, digitalizzazione e intelligenza artificiale servono nuove regole, più ricerca, competenze diffuse e una visione comune. Un quadro articolato e ricco di spunti, quello tracciato nel corso del Made in Italy Innovation Forum, la tre giorni andata in scena a Villa Erba, a Cernobbio, che ha rappresentato un momento di confronto e sintesi per il partenariato esteso Made in Italy Circolare e Sostenibile (Mics), guidato da Marco Taisch.

Lara Ponti (Confindustria) ha richiamato la necessità di un’innovazione capace di rigenerare territori e capitale umano, chiedendo un impianto normativo più semplice e coerente con i processi industriali reali. Luca Mari (Liuc) ha sottolineato l’urgenza di chiarire le responsabilità etiche nell’uso della GenAI e ha evidenziato come gli agenti generativi possano ridurre l’opacità dei sistemi intelligenti. Dal mondo della pelle, Edoardo Imperiale (Ssip) ha ricordato che la manifattura conciaria è già circolare, ma servono investimenti su ricerca, upskilling e tracciabilità del fine vita. Silvana Pezzoli (Confindustria Moda, Sitip) ha puntato sui tessuti intelligenti e sul passaporto digitale del prodotto, mentre Marco Vecchio (Anie) ha lanciato l’allarme sulle competenze: metà degli italiani non ha nemmeno quelle digitali di base e il 53% delle imprese fatica a trovare profili tecnici. Ugo Ghilardi (Itema) ha ammonito che l’IA impone un ripensamento profondo del modello industriale, spingendo il Made in Italy a decidere cosa è disposto a sacrificare per restare competitivo.

Un quadro chiaro: senza formazione, semplificazione e una nuova cultura dell’innovazione, la transizione rischia di rimanere sulla carta. Con Lara Ponti, vicepresidente con delega agli obiettivi di Sostenibilità, Esg e Transizione Ambientale, Confindustria; Ugo Ghilardi, amministratore delegato, Itema; Edoardo Imperiale, direttore generale, Stazione Sperimentale per l’Industria delle Pelli e delle materie concianti (Ssip); Silvana Pezzoli, vicepresidente, Confindustria Moda e vicepresidente esecutivo, Sitip; Marco Vecchio, direttore tecnico, Federazione Anie; Luca Mari, professore, Liuc Castellanza.

Ponti (Confindustria): «La manifattura è ancora oggi l’ossatura del Paese»

Lara Ponti, vicepresidente di Confindustria con delega alla sostenibilità.

«Una manifattura moderna è quella che aggiunge valore ai contesti in cui opera, non lo sottrae». Con questa affermazione Lara Ponti, vicepresidente di Confindustria con delega alla sostenibilità, Esg, punta i riflettori sul ruolo trasformativo dell’industria, capace non solo di generare output economico, ma di rigenerare territori, competenze, capitale umano e ambientale. Secondo Ponti, l’Italia sconta un deficit culturale nella narrazione del futuro. «Si parla più di pensioni che di scuola, più di conservare che di inventare. Camminiamo troppo spesso con lo sguardo rivolto all’indietro». Ma nonostante tutto, esiste un’Italia che progetta: fatta di aziende, università, enti di ricerca, tecnici e imprenditori che ogni giorno innovano – anche nei settori tradizionali – con una naturale capacità di integrazione tra sviluppo industriale, sociale e ambientale. È un tessuto produttivo che ha saputo interpretare la transizione come opportunità, non come vincolo. «Preferisco parlare di consapevolezza del cambiamento, più che di transizione», sottolinea Ponti, richiamando la capacità delle imprese italiane di reindustrializzare settori considerati maturi e di renderli leader a livello europeo. Ma questa trasformazione richiede condizioni abilitanti. Non bastano le intenzioni.

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«L’innovazione ha bisogno di persone, di luoghi, di strumenti – chiosa Ponti – Ha bisogno di regole adeguate e di un impianto normativo che si adatti ai processi, non che li ostacoli». Il riferimento è alla necessità di norme più semplici, stabili, costruite in base all’evoluzione dei sistemi produttivi reali, non su modelli teorici. Ponti sottolinea anche il ritardo italiano su alcuni fattori chiave: dai salari alla formazione, fino all’accesso equo alle opportunità. «Le condizioni sociali complesse ci fanno perdere talenti e risorse strategiche. E questo rallenta lo sviluppo sostenibile. L’Europa è una risorsa. Ma va resa uno spazio integrato, eliminando le frammentazioni che oggi limitano la mobilità di capitali, competenze e merci». Serve un’agenda comune sull’innovazione, centrata sulle persone e sulla capacità di fare sistema. «La manifattura è ancora oggi l’ossatura del Paese. Ed è proprio da lì che dobbiamo partire per costruire un futuro che sia, insieme, competitivo, sostenibile e inclusivo».

Luca Mari (Liuc): «Con la GenAI cambia tutto, ma serve capire chi è responsabile delle decisioni»

Luca Mari, docente alla Liuc di Castellanza e co-autore del libro L’intelligenza artificiale di Platone.

La data spartiacque è il 30 novembre 2022, giorno del rilascio pubblico di ChatGpt. «Fino ad allora potevamo dire che ciò che ci caratterizza come esseri umani è l’uso della parola. Dal giorno dopo, questa affermazione è diventata discutibile. Esistono agenti artificiali che parlano con noi in modo sofisticato». Così Luca Mari, docente alla Liuc di Castellanza e co-autore del libro L’intelligenza artificiale di Platone. Secondo Mari, non si tratta solo di una rivoluzione industriale: è una rivoluzione culturale. «Platone, 2500 anni fa, si interrogava sull’impatto della scrittura. Oggi siamo passati dalla cultura della scrittura passiva a quella della scrittura attiva, generata dalle macchine». Il nodo centrale non è tecnologico ma etico e psicologico: quando un sistema basato su IA sbaglia, la responsabilità morale resta umana. «E dobbiamo chiederci con urgenza: che ruolo ci rimane?»

Dal punto di vista tecnico, Mari distingue tra l’intelligenza artificiale tradizionale e quella generativa. L’IA è da decenni usata nell’industria per predizione e ottimizzazione. La GenAI sorprende per la sua capacità conversazionale e la complessità adattiva. «Fino a trent’anni fa costruivamo sistemi intelligenti dicendo noi la soluzione – chiosa Mari – Con il machine learning, il paradigma si è rovesciato: ora i sistemi apprendono, ma non sempre sappiamo spiegarne il funzionamento». Qui entra in gioco l’inspiegabilità. «Un sistema che prende decisioni deve poterle giustificare. Dobbiamo poter chiedere: perché hai fatto questo?»

Nel contesto manifatturiero, però, c’è un freno strutturale: la scarsità di dati qualificati. «Molti ambienti produttivi non generano dataset adatti all’apprendimento automatico. Tuttavia, le cose stanno cambiando, e anche in modo inatteso». Mari intravede una possibile risposta negli agenti generativi come interfacce universali. Strumenti in grado non solo di conversare, ma anche di collegare persone, sistemi e conoscenza. «Se i chatbot diventano interfacce diffuse e spiegabili, capaci di mediare tra uomo e macchina, allora risolvono uno dei limiti più gravi del machine learning: la sua opacità».

Ghilardi (Itema): «L’intelligenza artificiale ci costringerà a reinventare il modello industriale. E a decidere cosa del Made in Italy siamo disposti a perdere»

«Negli ultimi 35 anni la digitalizzazione ha cambiato le regole del gioco: ha reso tutto disponibile a tutti, a costi bassissimi. I nuovi player sono entrati nei mercati con una velocità mai vista, erodendo rapporti costruiti in decenni. Il campo è aperto, e ora l’intelligenza artificiale ne accelera il ritmo». È un messaggio netto quello di Ugo Ghilardi, ad di Itema, che chiama l’industria a una riflessione profonda.

Il Made in Italy, secondo Ghilardi, deve decidere oggi cosa è disposto a lasciare della propria tradizione per affrontare la transizione. «La domanda è: cosa siamo disposti a perdere? Competenze, bellezza? Io non sono disposto a perdere niente. Ma per innovare e dare spazio all’energia dei giovani, questa domanda va posta». L’anima manifatturiera italiana – fatta di funzionalità, estetica e qualità – va difesa, ma non può più bastare. «Bisogna unire il “saper fare” con il “saper connettere” – commenta Ghilardi – E la postura giusta per stare in questo nuovo campo aperto è quella di chi è veloce e reattivo».
Centrale il tema delle competenze, non solo tecniche. «I giovani sono energia. Sta a noi creare le condizioni perché questa energia si esprima. Dobbiamo rimettere a terra la capacità, dare spazio a chi ha visione ma anche capacità esecutiva».

 

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Quanto all’intelligenza artificiale, Ghilardi vede nella sua applicazione la chiave per una manifattura più sostenibile. «La manifattura è metodo. I modelli di business legati alla commodity sono finiti. La circolarità ci impone di ripensare tutto: dobbiamo creare un’idea di fabbrica generativa, dove creatività ed esecuzione non siano in antitesi, ma agiscano insieme». Una sfida culturale prima ancora che industriale. Dove il vero nodo, conclude, è «capire se siamo disposti a mettere in discussione le nostre certezze per generare un nuovo modello che tenga insieme sostenibilità, velocità e identità».

Imperiale (Ssip): «La pelle è già un materiale circolare. Ora servono ricerca, upskilling e fine vita tracciabile»

«Le tecnologie avanzate non sostituiscono il saper fare. Lo aggiornano. E proprio per questo rendono ancora più necessario investire in ricerca e sperimentazione, che sono le uniche vie per trasformare la conoscenza in innovazione». Così Edoardo Imperiale, direttore generale, Stazione Sperimentale per l’Industria delle Pelli e delle materie concianti, sintetizza l’impatto reale dell’innovazione digitale sul mondo della pelle e dei materiali concianti.

Marco Vecchio, direttore tecnico, Federazione Anie, lancia l’allarme: il 53% delle imprese fatica a trovare profili tecnici.

La manifattura conciaria italiana è un’eccellenza poco raccontata, ma determinante: «Con 1.100 concerie, rappresentiamo oltre il 60% della produzione europea e il 25% di quella globale. Un comparto che unisce artigianalità e innovazione, dove il prodotto di punta – la pelle – è già di per sé circolare, perché lavora gli scarti dell’industria alimentare». Ma la sfida oggi non è solo ambientale, è anche tecnologica. Il mercato chiede materiali ad alte prestazioni e a basso impatto ambientale. «Le nanotecnologie permettono di migliorarne le caratteristiche, l’intelligenza artificiale aiuta a selezionare le pelli più adatte, la blockchain garantisce la tracciabilità. E si aprono frontiere nuove, come la progettazione del fine vita: pelli sempre più biodegradabili, da cui estrarre collagene per la cosmetica o fertilizzanti».

Per Imperiale, la manifattura del futuro sarà sostenibile solo se sarà anche formativa. «Servono investimenti costanti in upskilling e reskilling. Gli Its funzionano, creano competenze aggiornate e immediatamente spendibili in azienda. Perché l’innovazione richiede anche nuove forme di lavoro. Non si può più prescindere da ricerca, innovazione e formazione. Sono questi i tre asset che devono diventare i pilastri delle imprese manifatturiere italiane».

Pezzoli (Confindustria Moda): «Digitale, sostenibilità e smart textile. Così si innova la manifattura della moda»

«La manifattura della moda sta cambiando lungo tre direttrici fondamentali: digitale, sostenibilità e tecnologia tessile avanzata». Così Silvana Pezzoli, vicepresidente di Confindustria Moda e vicepresidente esecutivo di Sitip, sintetizza la trasformazione in atto nel settore. «Oggi si sviluppano prototipi in 3D, si analizzano i dati per capire i gusti del consumatore, si lavora su tessuti riciclati e riciclabili. Il passaporto digitale del prodotto diventa cruciale: il cliente vuole sapere come è stato realizzato ciò che indossa».
Ma il cambiamento più profondo arriva con gli smart textiles: «Tessuti che proteggono dai raggi UV, ignifughi, ma anche dotati di microchip in grado di interagire con il corpo umano, monitorando battito e respiro. È la centralità della persona, della ricerca del benessere, che porta la moda dentro l’Industria 5.0». Serve però una vera rivoluzione culturale.

«Dobbiamo aiutare le Pmi – che rappresentano il 95% del tessuto produttivo – a non restare indietro. La transizione digitale non può essere un privilegio dei grandi gruppi. Servono piattaforme di collaborazione, investimenti nella formazione e nella cultura industriale. I giovani devono conoscere il software, certo, ma anche sapere che comprare un capo a due euro significa finanziare sfruttamento e lavoro nero».

In Italia, sottolinea Pezzoli, «abbiamo tutta la filiera produttiva. Ce la invidiano nel mondo, ma dobbiamo valorizzarla di più anche in Europa. Siamo leader nel tessile tecnico: va fatto sapere». Il punto di partenza? Le nuove generazioni: «L’innovazione cammina di pari passo con la formazione. Bisogna far capire ai giovani cos’è una manifattura fatta bene, cosa significa la circolarità del prodotto. È da lì che parte la nuova cultura del Made in Italy».

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Vecchio (Anie): «Elettronica ed elettrotecnica abilitano mercati per mille miliardi. Ma servono competenze, risorse e orizzonti più lunghi»

Marco Taisch, presidente del Partenariato Esteso MICS-Made in Italy Circolare e Sostenibile, tra i protagonisti della plenaria di apertura.

«I settori dell’elettronica e dell’elettrotecnica sono pervasivi: abilitano mercati a valle con un valore aggiunto di oltre 1.000 miliardi di euro». È quanto sottolinea Marco Vecchio, direttore tecnico di Federazione Anie, che avverte: «Stiamo vivendo una nuova epoca per l’intelligenza artificiale. Basti pensare a ChatGpt: cento milioni di iscritti in soli due mesi. Siamo nel cuore della transizione digitale, con big data, potenza di calcolo aumentata e processi di deep learning sempre più sofisticati».

Le applicazioni concrete ci sono già: «Manutenzione predittiva, gemelli digitali, sistemi di visione per il controllo qualità sono realtà operative nel nostro settore. Ma permangono delle barriere, in particolare legate ai costi e alla mancanza di competenze, un ostacolo serio soprattutto per le Pmi». Non va trascurato nemmeno l’aspetto regolatorio: «L’AI Act europeo affronterà il tema di cosa sarà permesso o vietato, per garantire la tutela dei cittadini. È un passaggio fondamentale per accompagnare uno sviluppo sostenibile della tecnologia».

Il nodo cruciale resta però quello della ricerca. «In Italia investiamo in R&S l’1,4% del Pil, esattamente come 25 anni fa. Le imprese, in particolare le Pmi, faticano ad accedere al credito e a dotarsi delle competenze necessarie. Serve una profonda semplificazione burocratica e un allungamento degli orizzonti temporali per i progetti. Il rapporto tra università e impresa è ancora troppo distante: va ricucito, per far dialogare ricerca e fabbrica». Il tema delle nuove competenze è centrale: «Solo metà della popolazione italiana ha competenze digitali di base. Soltanto 18,5 giovani su 1.000 tra i 20 e i 29 anni si laureano in materie Stem. E appena il 10% degli adulti in età lavorativa ha ricevuto una formazione continua sul lavoro. Gli Its vanno rafforzati, perché sono tra gli strumenti più efficaci per colmare il divario».

I dati Anie sono allarmanti: «Il 53% delle aziende associate segnala difficoltà nel trovare competenze tecniche. Il 75% di chi ha assunto dichiara di non aver trovato profili adeguati. È un problema sia di mismatch formativo che di demografia. Servono programmi strutturati di upskilling e reskilling, strumenti a misura di Pmi e un serio investimento culturale. Perché senza le persone giuste, la transizione rischia di fermarsi prima ancora di iniziare».



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