Bisogna che il nostro paese assuma una politica attiva, dopo essere stato per lungo tempo «consumatore di stabilità». Questa stabilità si fondava nella convinzione che l’Unione potesse essere una “potenza civile” complementare alle grandi potenze “armate”, ma proprio per questo capace di moderarle e di dare un contributo di stabilizzazione. Questo paradigma è praticamente saltato per responsabilità che non vanno ignorate.
Se l’Europa fosse da rifare, comincerei dalla cultura, scrisse nelle sue Memorie, prima di morire, Jean Monnet, uno dei protagonisti dell’avventura europea. Nobili ideali, alto profilo politico, questa l’immagine dell’Europa che i Padri fondatori avevano disegnato.
L’Europa è a rischio di sopravvivenza. L’Europa che conosciamo, quella del lungo percorso della Comunità del carbone e dell’acciaio, del Mercato Comune Europeo, della Comunità Economica Europea fino all’Unione Europea; quella passata dai sei Stati fondatori ai 27 attuali; quella affiancata da una NATO che ne garantiva la sicurezza a testimonianza del legame transatlantico con gli Stati Uniti e con il Canada; quella del multilateralismo principio fondante dell’intera comunità internazionale. Il rischio è di essere inghiottita e sopraffatta da un mondo di sfide alle quali non era preparata, e per le quali non è attrezzata.
L’Europa deve adattarsi a un mondo che non corrisponde alle sue aspettative. Per sopravvivere deve farsene ragione. Il mondo non sarà a sua immagine e somiglianza per quanto virtuose siano. Nè sarà l’Europa a cambiarlo. Il rapporto mondo-Europa è troppo squilibrato a favore del primo. Il mondo costringe l’Europa a cambiare. Non i valori, non le radici che restano quelle delle origini e del lungo cammino compiuto dagli anni ‘50. Anzi quelle radici vanno preservate e coltivate. Ma oggi i mezzi sono diversi e gli strumenti politici e normativi vanno aggiornati.
L’Europa che conosciamo era nata per sfuggire e mettere fine alle guerre. Guerre fra europei che l’avevano devastata per secoli fino al dissanguamento collettivo della Grande Guerra e alla tragica sequela della Seconda Guerra Mondiale. Mondiale, come la Prima, ma esportata dall’Europa. Il progetto europeo di pace è riuscito al di là delle aspettative – buona parte del merito va agli Stati Uniti che da Truman a George Herbert Bush hanno garantito la sicurezza europea durante la Guerra Fredda mantenendola, appunto, fredda. Con la triste eccezione delle guerre balcaniche degli anni ‘90 dopo la disintegrazione della Jugoslavia, l’Europa è stata completamente immune da guerre per settant’anni. Nazioni che si erano combattute per strisce di territorio, il caso macroscopico di Francia e Germania per l’Alsazia e Lorena, hanno sotterrato l’ascia di guerra. Molto profondamente. Non solo: l’Europa è stata uniformemente, quasi noiosamente, democratica. I governi cambiavano alle urne ruotando però su un perno di sistemico consenso politico-culturale. Un’Europa in cui la gente credeva nelle stesse cose, diverse nelle tonalità non nei valori, un’Europa in pace culturale, altra assoluta novità storica. Basta un rapido raffronto con gli anni ‘30 del secolo scorso – dittature, guerre civili – per rendersi conto del cammino compiuto.
Oggi l’Europa si trova alle prese con tre guerre “interne”: una militare; una politico-commerciale; una politico-culturale. L’invasione russa dell’Ucraina ha portato nel cuore del continente un misto fra scontro terrestre classico, fatto di trincee, fango e artiglierie, e bombardamenti dai cieli con la variante droni che rende l’offesa molto più a buon mercato della difesa, più l’invisibile ma continuo conflitto combattuto sugli schermi dei computer. Il ritorno al passato della guerra russo-ucraina non sta tanto nel come è combattuta, un misto appunto, ma nella natura del conflitto: un Paese che cerca di soggiogarne un altro. Non succedeva dall’aggressione tedesca alla Polonia del 1939. La Russia di Vladimir Putin ha preso il ruolo del Terzo Reich ponendoci davanti al problema del confine orientale della UE. Quand’anche le ambizioni espansive, di zona d’influenza se non di bruta conquista territoriale, si limitassero all’Ucraina e/o al perimetro dell’ex-Unione Sovietica, quand’anche escludessero i tre Paesi Baltici la cui annessione nell’URSS non fu mai riconosciuta dalla maggior parte dei Paesi occidentali, compresa l’Italia, il revisionismo geopolitico di Putin torna a fare della forza militare uno strumento di politica europea. Per certo per la Russia. Il resto dell’Europa può continuare a rifiutarlo ma non può ignorarlo. L’Europa si trova nella situazione lapidariamente scolpita da Leon Trotsky: non interessata alla guerra, ma la guerra è interessata a lei.
Questo pone all’Europa due dirette sfide: immediata in Ucraina, urgente nella difesa dell’Europa. La prima è di fermare la guerra dove è già arrivata; la seconda è di prevenirne di future. La guerra si ferma nel momento in cui la Russia desiste dalle mire di ulteriori conquiste e accetta il cessate il fuoco a bocce ferme proposto dai negoziatori americani e dai leader europei, con assenso ucraino. Poi si negozia ma intanto le armi tacciono e l’aggressione si arresta. Finchè Mosca fa finta di accettarlo per proseguire la guerra (“sì ma”), diventa imperativo che l’Ucraina sia in grado di difendersi e non soccomba all’aggressione. Quindi il sostegno europeo a Kiev va mantenuto sia nell’assistenza militare ed economica che nelle pressioni sulla Russia. Se l’amministrazione Trump si tira indietro nella prima, tocca all’Europa fare di più. Ne ha una capacita’ alquanto limitata – e qui il non poter fare abbastanza oggi per aiutare l’Ucraina a difendersi tracima nel non avere abbastanza domani per difendere l’Europa. Si rischia in un tempo speriamo lontano, dentro una impropria contestualizzazione, di dover titolare titolare tragicamente: Kiev come Kabul.
Nodo finora aggirato via Atlantico. La sicurezza europea è garantita dalla Nato, cioè dagli Stati Uniti. Se questo impegno americano viene meno o si allenta, l’Europa si scopre di colpo vulnerabile. Dato che i segnali dell’amministrazione Trump vanno tutti nella direzione dell’allontanamento geopolitico dall’Europa – senza uscire dalla Nato ma basta molto meno per scardinare la blindatura securitaria del mitico Articolo 5 – all’Europa non resta che farsi carico della propria sicurezza. La soluzione più efficiente sarebbe il parziale subentrare agli americani all’interno della Nato, creandone un “pilastro europeo”, senza creare nuove strutture e col vantaggio di avere già a bordo Uk, Turchia, Canada e Norvegia, oltre a Usa. La Ue-difesa si dovrebbe invece reinventare. Comunque, il problema alla radice sarebbe identico: dotarsi di capacità militari difensive che attualmente non possediamo in misura sufficiente e che richiedono una base industriale adeguata. Il “riarmo” europeo è tutto lì. Modalità, finanziamenti criteri si possono discutere. Ma o l’Europa ne imbocca la strada o resterà indifesa.
La questione della debolezza militare europea e della conseguente dipendenza dagli Usa predata l’amministrazione Trump ma, con tutti i suoi predecessori, repubblicani o democratici, si ricomponeva nella condivisione della sicurezza, bene comune, e nella reciproca convenienza: gli americani offrivano protezione ma guadagnavano alleati. Con Donald Trump si incrinano concettualmente entrambe le componenti. Quanto a sicurezza, l’America si stacca dall’Europa perchè “protetta da due bei oceani”. Gli alleati diventano, nella visione del 47° Presidente americano, concorrenti, rivali economici che hanno “depredato” gli Stati Uniti e contro i quali apre una nuova offensiva, commerciale. Ecco per l’Europa il secondo fronte, quello della guerra commerciale con gli Usa. I negoziati fra Washington e Bruxelles potranno contenerla riducendo – non eliminando – i dazi, ma la divergenza non e’ semplicemente tariffaria. Investe, ad esempio, la tassazione digitale e vede il rigetto americano di molta normativa regolamentare Ue se applicata a imprese americane. A differenza di quanto avveniva spesso in passato, non è un contenzioso commerciale che si possa facilmente compartimentalizzare. Può darsi che i negoziati Usa-Ue rischiarino l’orizzonte ma innanzitutto è chiaro che alcuni dazi americani rimarranno, con probabili repliche europee, andando verso un rapporto commerciale transatlantico con barriere tariffarie più alte di quelle in vigore da decenni. Se relativamente moderate (mantenimento del dazio reciproco del 10% su tutte le importazioni) gli operatori di export-import sapranno mitigarne gli effetti, ma è inevitabile l’accrescersi di un clima economico competitivo fra le due sponde dell’Atlantico. Per l’Ue ne consegue la necessità di accelerare e intensificare la diversificazione dei rapporti commerciali, cominciando da quello col Mercosur, concluso e in dirittura d’arrivo per la ratifica – col rischio di ostruzionismo francese; altri vanno semplicemente attivati (Canada), altri ripresi (Australia), altri (India, Indonesia, Asia Centrale) esplorati. Il grosso punto interrogativo è la Cina. Quanto difendersi dalle pratiche commerciali cinesi? Quanto avvicinarsi a Pechino, se viene meno la strategia comune con gli americani, concordata in sede G7 a Hiroshima? Quanto disponibile Pechino a non riversare sui mercati europei le esportazioni che non può più fare in Usa?
Anche se non sarà guerra commerciale a tutto campo – il rischio c’è – l’inasprimento dei rapporti commerciali con gli Usa ha dimensione e conseguenze politiche, aggravate dall’imprevedibilità di un Presidente americano che vede nei dazi il toccasana dell’economia nazionale. Può escogitarne all’improvviso, come il 100% sui film stranieri – e altrettanto repentinamente ritirarli. Al fondo, un’ostilità che non nasconde verso l’Unione Europea e alcuni Paesi europei come la Germania. Il che però porta l’amministrazione Trump ad ingerirsi nelle politiche interne europee ed intervenire nella terza guerra che l’Europa sta affrontando: quella politico-culturale. Quest’ultima è piuttosto una rivoluzione, o guerra civile: è la rivolta interna delle forze politiche e dei governi che sono contrari al progetto europeo, che non ne condividono la filosofia e oppongono alla cultura “europeista”, a lungo dominante, una cultura “sovranista”, crescente. Classificarla semplicemente come “euroscetticismo” è riduttivo. Ha già ottenuto una vittoria, di non poco conto: Brexit, con cui l’Ue ha perso un pezzo importante anche se l’accordo di riappacificazione con Londra dimostra che l’Europa sa anche muoversi. Può contare su due governi (Ungheria e Slovacchia), con almeno altri due “simpatizzanti” (Paesi Bassi e Italia); nei due maggiori Paesi dell’Unione, Francia e Germania, i partiti che vi si identificano sono il primo (Rassemblement National) e il secondo (Alternativa per la Germania) nei rispettivi Parlamenti. C’è quindi una grossa fetta di Europa che, senza volerne uscire – ha imparato la lezione di Brexit – si oppone a gran parte delle politiche dell’Ue.
Delle tre guerre questa è quella che mette l’Europa a maggior rischio perché può spaccarla e/o paralizzarla. Se viene meno il consenso l’Europa non funziona – già è troppo lenta e decisionalmente macchinosa rispetto ad attori internazionali che si muovono in tempo reale. A questa spinta centrifuga dall’interno si somma il sostegno, dall’esterno, dell’amministrazione Trump ad alcune delle componenti centrifughe, in particolare Afd, partito politico tedesco di estrema destra , creando la percezione di un’Europa sotto assedio da fuori con quinte colonne dentro.
Per rispondere a questo combinato disposto di rischi l’Europa ha bisogno di: a) darsi una capacità di difesa militare; b) stabilire un rapporto di reciproco rispetto e convenienza con l’amministrazione Trump, cooperando quanto più possibile e recependone alcune richieste, salutari anche per l’Ue (meno regolamentazione, più sussidiarietà), ma tenendo testa ove necessario, vedi negoziato sui dazi; riconoscere e affrontando i problemi che alimentano la galassia sovranista-populista, dall’immigrazione alle insicurezze economiche e identitarie. Per far tutto questo, insieme, l’Ue deve abbracciare il cambiamento – non cullarsi nella convinzione “crescere nelle crisi”. Forse, ma diciamocelo a crisi superate, non prima…
In un recente editoriale, il quotidiano madrileno EL PAIS, ha così titolato una sua “provocante” riflessione: L’Europa come esilio. Pur con tutte le sue iniquità, la sua burocrazia, un certo cinismo elitario, noi europei abbiamo vissuto meglio e più liberi dentro l’Unione Europea. Pur andando oltre la comparazione tra il nostro tempo e gli anni tra le due guerre, non si intravede un paese dove “esiliarsi”. Per chi si sente veramente un democratico non c’è migliore patria che l’Europa.
Se qualcuno pensa di andarsene prima del tempo, l’Europa rischia di rimanere in mano a coloro che non hanno mai creduto a questa causa comune.
La minaccia all’Europa non viene né dalla sinistra euro-scettica né dalla destra orbaniana o lepenista che sia; ma siamo noi, gli europeisti, che diamo per scontato l’Unione Europea come paesaggio naturale, e l’integrazione come qualcosa di ineludibile.
Quando il trattato di Maastricht venne firmato, il sentimento comune era quello che la sicurezza costituiva, insieme alla moneta unica, il centro del processo per arrivare ad un’Europa politicamente unita, ad una Federazione di Stati.
Credere che solo un’Europa più integrata, democratica, rappresentativa, può ampliare lo spazio di libertà plurale che nella sua più alta espressione si richiama alla cittadinanza universale.
L’unico posto dove possiamo esiliarci si chiama Europa, che riesce ad essere altresì rifugio di coloro che condividono i vecchi valori repubblicani che non trovano nei loro paesi.
Difficile immaginare un futuro con una realtà così quotidianamente schiacciata su un presente che pare eternizzarsi immobilizzando una rappresentazione dualistica del mondo spaccata tra uno spazio della pace e uno spazio della guerra. Non dobbiamo, tuttavia, consentire alla guerra di dominare le nostre coscienze, esasperando le nostre debolezze interne che rafforzano la forza delle minacce esterne.
In una struggente poesia, del poeta salvadoregno Roque Dalton, si parla di morti sempre più indocili che reclamano il “diritto di parola”.
Tra guerra e violenze disseminate ovunque, i morti stanno diventando una maggioranza che interpretiamo sempre più in una statistica che si immortala in quei “mostruosi” marmi intesi come recinti della Patria: dove porre un fiore ed elogiare più ombre che nomi sparsi fra i tanti.
La denuncia di Dalton rompe con la poesia lirica ed amorosa per passare come testimone a una denuncia politica e sociale quando dice: anche la farfalla va fatta tacere.
Come possiamo cambiare il modo di pensare di fronte a tanto realismo militare, ora che le forze armate israeliane hanno dichiarato fronte di guerra primario l’Iran, con Gaza declassata nella sua immane tragedia di affamati nella gabbia della striscia. Abbiamo uno scenario che vede protagonisti: tribuni che bilanciano le proprie risorse intellettuali e il prestigio a difesa di persone, gruppi e istituzioni in forma demagogica; profeti portatori di messaggi salvifichi nella loro pretesa di sapere come andrà a finire; sacerdoti interpreti di dottrine religiose che tracciano i percorsi della politica e dettano le scelte di coloro che le praticano. Le pubbliche opinioni faticano a capire quanto la storia e la geografia pesano su una situazione così inedita e complessa.
Servono strumenti, non per sapere come andrà a finire, ma come dissodare, diceva Moro, questa terra di nessuno tutta da rimappare nel dopo Jalta.
Per fare questo serve ritessere l’elogio della politica, sempre più un luogo non frequentato, un pensiero non partecipato, che finiscono di colpire con durezza la vita democratica privata del suo ossigeno.
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