(Articolo pubblicato u L’Economista, inserto de Il Riformista)
C’è un settore in cui l’Italia può dire di essere arrivata prima. Prima di Cina, Giappone, India e persino di alcune grandi economie europee. È lo spazio. Pochi lo ricordano, ma il nostro Paese è stato il terzo al mondo, dopo Unione Sovietica e Stati Uniti, a mettere in orbita un satellite in completa autonomia. È accaduto negli anni Sessanta, nel pieno della Guerra Fredda, grazie al genio visionario di Luigi Broglio e al sostegno di figure come Enrico Mattei. L’Italia, uscita dalle macerie del secondo conflitto mondiale, seppe affermarsi anche dove sembrava impossibile competere.
Oggi, in un mondo in cui la space economy è una delle frontiere economiche, industriali e strategiche più rilevanti, quella memoria diventa responsabilità. E soprattutto, occasione. Perché se l’accesso allo spazio una volta era riservato a pochissime superpotenze, oggi si apre al mercato, alla competizione, all’impresa. Ma solo chi si muove in fretta può davvero contare qualcosa.
A dirlo è Andrea Mascaretti, deputato, giornalista e presidente dell’intergruppo parlamentare per la space economy. «Lo spazio – ci spiega – non può essere terreno di divisioni politiche: è una sfida nazionale, anzi sovranazionale. Per questo ho fondato l’intergruppo nel 2023, e oggi ne fanno parte oltre 40 tra deputati e senatori di tutti i principali schieramenti». La politica, per una volta, sembra parlare una lingua comune. L’obiettivo? Tradurre la posizione storica dell’Italia in una strategia industriale moderna e competitiva. E portare l’Europa a fare sistema.
Con lui abbiamo parlato della nuova legge italiana sullo spazio, del ruolo del nostro Paese nella competizione globale e della necessità di un’Europa unita anche oltre l’atmosfera. E di come tutto questo impatti – concretamente – sull’economia, i dati, le infrastrutture, la sicurezza. E anche la libertà.
Onorevole Mascaretti, perché ha voluto creare un intergruppo parlamentare dedicato alla space economy?
«Perché il tema dello spazio non è ideologico, è strategico. Ed è un’opportunità Paese. L’intergruppo, che ho fondato all’inizio del 2023, oggi conta oltre 40 parlamentari di tutti i principali partiti. In Aula ci si può dividere, ma su questo serve una visione comune. È un ambito in cui si viaggia a velocità altissima e restare fermi significa essere esclusi. Il consenso che abbiamo raccolto dimostra che c’è una consapevolezza trasversale sull’urgenza del tema».
Lei è stato relatore della nuova legge quadro sullo spazio. Cosa introduce?
«Una base normativa che mancava. La legge fissa i principi fondamentali per un accesso sicuro e competitivo allo spazio. Era attesa da anni, fortemente voluta dal ministro Urso, e oggi possiamo dire che è la più moderna d’Europa. Non è pensata per restare immobile: attiveremo un Osservatorio con le principali associazioni di categoria – AIAD, AIPAS, ASAS e Confindustria – per monitorare le esigenze delle imprese e aggiornare la legge attraverso i decreti attuativi. È una legge quadro, ma già oggi rappresenta un riferimento anche per lo Space Act europeo, su cui stanno partendo le consultazioni».
L’Italia ha ancora un ruolo da protagonista nella corsa allo spazio?
«Lo ha, e lo ha da tempo. L’Italia è a tutti gli effetti una potenza spaziale: abbiamo messo in orbita il nostro primo satellite nel 1964, con mezzi propri. Oggi abbiamo una filiera industriale completa in grado di realizzare lanciatori, satelliti, moduli per stazioni orbitali, teleporti e centri di controllo satellitari, componentistica e software. Siamo un Paese fondatore e un grande finanziatore di ESA e abbiamo forti e consolidati rapporti con la NASA. Non siamo secondi a nessuno, ma dobbiamo muoverci con rapidità».
Cosa serve, allora, per trasformare questa filiera in una leva di politica industriale?
«Serviva una legge: ce l’abbiamo. Ora serve l’Europa. I singoli Paesi, per quanto forti, da soli non bastano. Per costruire una vera politica industriale dello spazio servono investimenti comuni, strategia condivisa, massa critica. Serve anche una visione occidentale: Unione europea, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Giappone. Solo così possiamo reggere la competizione con colossi come Cina e India».
La space economy come la conosciamo oggi è frutto di una svolta recente. Quando è cominciata davvero?
«Nel 2011, con la fine del programma Shuttle. È lì che inizia il coinvolgimento dei privati, con il modello americano. La NASA ha aperto alla competizione industriale e da lì sono nati attori come SpaceX, che hanno abbattuto i costi di accesso allo Spazio e rivoluzionato tutto: riutilizzo dei lanciatori, enormi costellazioni satellitari private, servizi commerciali. Oggi SpaceX lancia un razzo ogni tre giorni, contro i due o tre lanci europei dell’ESA. Questo dà la misura della distanza».
In un contesto così competitivo, l’interesse pubblico come si difende?
«Con forza e velocità. Due parole chiave. L’Europa deve decidere e scegliere in quali attività spaziali vuole essere leader. Non possiamo pensare di competere su tutto, ma dobbiamo avere il coraggio di investire dove siamo forti. E farlo insieme. Non basta l’Italia, serve un blocco unito: Germania, Francia, Spagna, e via dicendo. Solo così possiamo giocare da protagonisti».
Come si concilia la corsa privata con la sicurezza e la cooperazione internazionale?
«Gli operatori devono essere autorizzati dai governi. È un sistema in cui il pubblico stabilisce le regole e garantisce la sicurezza, anche nell’ambito NATO. I privati portano efficienza, ma devono rispettare standard altissimi. In cambio, portano anche valore: pensiamo ai 40.000 satelliti in orbita bassa previsti da Musk. Non è solo business, è infrastruttura globale. Ma serve una governance multilivello».
Quali settori industriali beneficeranno di più della nuova space economy?
«Tutti, direttamente o indirettamente. Oggi siamo nella fase “artigianale” dell’industria spaziale, come quando si costruivano le prime automobili. Ma diventerà industria vera. I dati satellitari sono già fondamentali: per il monitoraggio del territorio, per la manutenzione predittiva delle infrastrutture, per la sicurezza. E con l’intelligenza artificiale si lavora direttamente a bordo dei satelliti, riducendo i volumi di dati trasmessi e aumentando l’efficienza. L’economia dello spazio è già cominciata».
E a livello sociale?
«Il potenziale è straordinario. I satelliti portano connessione ovunque: nella foresta amazzonica, nei deserti africani, nei villaggi senza infrastrutture. Si possono offrire servizi di telemedicina, formazione, università in ogni angolo del pianeta. Ma c’è anche un risvolto democratico: in regimi autoritari, la connessione via satellite è uno strumento di libertà. Permette alla popolazione di comunicare con il mondo, bypassando i controlli statali. È un tema di libertà».
L’Italia sta facendo la sua parte in termini di investimenti?
«Sì. Tra il 2023 e il 2026 sono stati stanziati circa 7 miliardi e 300 milioni. C’è anche un forte impegno a livello internazionale: l’Italia sostiene la nuova Agenzia spaziale africana, nell’ambito del Piano Mattei, e lavora alla formazione di competenze locali a partire dal Centro Broglio di Malindi, in Kenya. È un approccio che unisce cooperazione, tecnologia e visione geopolitica».
La corsa allo spazio è anche una corsa ai dati. Siamo pronti a gestirli?
«Stiamo investendo molto, ma servono competenze. I dati sono il cuore della nuova economia dello spazio: servono per monitorare valanghe, frane, infrastrutture, deserti e gasdotti. In Algeria, ad esempio, i satelliti sviluppati con l’Italia permetteranno di osservare anche le aree più remote. Con l’intelligenza artificiale possiamo selezionare i dati utili direttamente in orbita, migliorando l’efficienza e consentendo interventi tempestivi».
In conclusione, l’Italia può guidare la nuova economia dello spazio?
«L’Italia è già uno dei motori della space economy. Vogliamo essere protagonisti delle prossime politiche spaziali europee, contribuendo allo Space Act dell’UE e promuovendo la collaborazione tra i sistemi industriali italiani, francesi, tedeschi e degli altri Paesi membri. Operiamo all’interno di una visione occidentale condivisa con Stati Uniti, Inghilterra, Canada e Giappone. Ma servono coraggio, visione e rapidità. Non possiamo permetterci di esitare: questa è la vera via italiana per lo Spazio».
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