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Atti del convegno Eurispes-CNR Dsu “Vertice Sociale Mondiale dell’ONU: il contributo dell’Italia” | 1°luglio 2025


Atti del convegno Eurispes-CNR Dsu “Vertice Sociale Mondiale dell’ONU: il contributo dell’Italia” | 1°luglio 2025

Atti del convegno Eurispes-CNR Dsu “Vertice Sociale Mondiale dell’ONU: il contributo dell’Italia” | 1°luglio 2025

Ad aprire i lavori, i saluti istituzionali Salvatore Capasso Direttore Dipartimento Cnr-Dsu e Gian Maria Fara Presidente dell’Eurispes.

Carta di credito con fido

Procedura celere

 

A seguire, gli interventi di Romolo De Camillis, Direttore Generale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Filomena Maggino, docente di Statistica Sociale, Sapienza Università di Roma, Paolo Landri, Direttore Istituto di ricerca su innovazione e servizi per lo sviluppo (Cnr-Iriss), Santo Biondo Segretario Confederale UIL, Raffaele Morese, Presidente Ass. NUOVI LAVORI, Michele Colucci, primo ricercatore Istituto di Studi sul Mediterraneo (Cnr-Ismed), Mattia Pirulli, Segretario Confederale CISL, Christian Ferrari, Segretario Confederale CGIL.

A concludere la mattinata, dibattito e sessione internazionale in presenza e in video collegamento sul tema “Teoria e Pratiche per la qualità sociale dello sviluppo” con il contributo della International Association for Social Quality IASQ, Amsterdam. Laurent van der Maesen, Director IASQ, International Association of Social Quality, (Amsterdam, The Netherland). Valeriy Heyets, Director, Istitute for Economics and Forecasting, Academy of Science, Kiev, (Ukraine).

 

 

Silvia Mattoni: Buongiorno a tutti. Ben arrivati in questa splendida sala, la sala Marconi, del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Come sapete dal 4 al 6 novembre prossimi le Nazioni Unite hanno programmato un vertice sociale mondiale dei Capi di Stato e di Governo sullo sviluppo sociale globale che si svolgerà in Qatar. Questa decisione è stata presa il 27 febbraio 2024 e ha dato vita ad una serie di elaborazioni di documenti e proposte su cui attualmente si sta lavorando e che vedono impegnati sia i governi che le parti sociali oltre alle imprese, i sindacati e la comunità scientifica. Direi di dare il benvenuto per i saluti istituzionali al Direttore del Dipartimento Scienze Umane Sociali e Patrimonio Culturale Salvatore Capasso.

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Salvatore Capasso: Buongiorno a tutti. È un onore per me aprire questa giornata di lavori su un tema che reputo fondamentale. Innanzitutto i ringraziamenti, ma perché sono ringraziamenti veri, a Gian Maria Fara dell’Eurispes, al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per aiutarci nelle nell’elaborazione di quelle che potrebbero essere delle linee guida da presentare al convegno delle Nazioni Unite che si terrà in Qatar il prossimo novembre. Il Dipartimento del Consiglio Nazionale delle Ricerche si occupa di scienze umane e sociali, per chi non lo conoscesse, ha 15 istituti, impiega quasi mille persone sparse in tutta Italia, ricercatori che sono impegnati in tutti i campi che riguardano le scienze umane e sociali; quindi si va dal diritto, all’economia, alla sociologia, e i temi che affrontiamo sono i temi che riguardano le emergenze di oggi, dal cambiamento climatico, al mancato sviluppo, alle diseguaglianze. È dunque particolarmente importante per noi poter contribuire ad una giornata come questa e quella che verrà in Qatar, perché pensiamo che la ricerca non sia solo progettare, ma debba uscire dalle stanze e trasformarsi in attività vere. Dobbiamo cercare, attraverso la ricerca, in particolare sul sociale, di ridurre le diseguaglianze, la povertà; dobbiamo far sì che i problemi legati, per esempio, a calo demografico, cambino; dobbiamo ridurre l’impatto che il cambiamento climatico sta avendo sui territori e sulle persone. È quindi una ricerca viva quella che noi vogliamo perseguire. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha come propria mission esattamente questo: affiancare gli organi di governo, non solo nazionali, ma anche locali del Paese e anche internazionali, ad intervenire per attenuare le emergenze. E questa collaborazione con l’Eurispes, secondo me, è particolarmente fruttuosa. Loro da diversi anni sono impegnati in queste attività, da diversi anni attuano, così come il Dipartimento, una ricerca che è di tipo interdisciplinare su temi fondamentali. Viviamo in un mondo complesso, è inutile dircelo, un mondo che sembra essere cambiato molto rapidamente. I cambiamenti ci sono sempre, però spesso sono così rapidi che l’adattamento delle Istituzioni e anche dei comportamenti delle persone diventa difficoltoso. In questo momento viviamo in un mondo dove i conflitti sembrano essere più pervasivi del solito e questi conflitti hanno una ripercussione su tutti i territori a tutti i livelli. Pensate alle energie, ai rapporti tra i diversi paesi. È importante che noi di scienze umane e sociali diamo il nostro contributo per ridurre e per arginare questi conflitti. Quindi quando da Marco Ricceri, che ringrazio, è arrivato l’invito a preparare una riflessione per l’attività che verrà svolta in Qatar, ho raccolto con grande passione l’invito. La giornata di oggi quindi va in questa direzione, nella costruzione di idee progettuali che noi potremmo potenzialmente proporre al nostro Governo e cercare di portarle avanti anche in futuro. Deve essere un laboratorio che non termina ovviamente in Qatar a novembre, ma sono sicuro che questo laboratorio di scambio di idee, di progettualità, di lavoro comune, possa essere la base su cui noi con Eurispes e con le altre Istituzioni possiamo costruire un futuro migliore non solo per il nostro Paese, ma anche per contribuire alla gran parte delle economie che si affacciano, per esempio, sul Mediterraneo. Quindi ringrazio ancora una volta l’Eurispes, il nostro il Ministero e sono sicuro che questa giornata sarà molto proficua. La prima parte sarà in italiano, poi avremo anche una parte in inglese dove interverranno degli ospiti stranieri a discutere su come si misura la qualità del sociale e anche quello sarà un elemento fondamentale per costruire queste progettualità di cui vi parlavo. Quindi grazie di essere intervenuti e sono sicuro che questo sarà un momento di grandi riflessioni. Buongiorno.

 

Grazie direttore. A questo punto chiederei al Presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara di intervenire con i saluti.

 

Gian Maria Fara: Buongiorno a tutti. Non abbiate paura, il mio intervento durerà solo 3 ore… Un saluto al Direttore, Professor Capasso, che ci accompagna in questo percorso di studio, di approfondimento, di ricerca e un saluto anche al Direttore Laurent van der Maesen, dell’Associazione Internazionale della qualità sociale, istituto col quale l’Eurispes ha un antico rapporto, una consolidata collaborazione che si è sviluppata nel corso degli anni. A nome dell’Eurispes, voglio esprimere il più vivo apprezzamento in considerazione del fatto che questa iniziativa è innanzitutto il frutto della collaborazione tra l’Eurispes e il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche e, inoltre, per il fatto che essa affronta una questione aperta fondamentale per le possibilità di perseguire un progresso reale della nostra comunità, vale a dire la questione degli squilibri sociali crescenti che caratterizzano che caratterizzano questa fase storica della vita nazionale e internazionale. La decisione dell’ONU che è stata assunta con il concorso di tutti gli Stati membri, quindi compresa l’Italia, di convocare un vertice sociale mondiale il prossimo novembre 2025 conferma l’attualità e la gravità della situazione che stiamo vivendo anche su questo fronte dello sviluppo comune. Da oltre un anno i governi nazionali stanno lavorando a definire delle proposte da sottoporre alla valutazione finale del vertice. A mio avviso, sarà molto importante che in questa occasione il Governo italiano possa presentare delle proposte innovative, frutto di un confronto e di un lavoro condiviso con la comunità scientifica, con le organizzazioni sindacali e della società civile. La conferenza alla quale partecipiamo oggi ha proprio questa finalità: riflettere sulla complessità dei problemi da affrontare, a cominciare dai termini per definire la qualità dello sviluppo, elaborare proposte e raccomandazioni come risultato di un confronto aperto e costruttivo. Il mio auspicio è che questa riflessione comune possa strutturarsi in modo organico nel prossimo futuro e possa dar luogo ad un tavolo di lavoro permanente, punto di riferimento per qualificare al meglio il ruolo dell’Italia in àmbito internazionale. La sfida che abbiamo di fronte è una sfida ambiziosa, come emerge dai documenti preparatori elaborati finora dalle Nazioni Unite e dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO). Definire un contratto sociale mondiale come strumento per intervenire al meglio e correggere le attuali dinamiche di sviluppo, colmando i gravi squilibri crescenti tra le diverse aree geografiche e nell’ambito dei singoli Stati stessi. L’obiettivo è quello di dare un contributo concreto sia alle politiche per la sostenibilità definite nell’Agenda 2030, sia alle politiche per un progresso più equo e diffuso, secondo gli impegni presi con la definizione del patto per il futuro approvato lo scorso settembre 2024. Una cosa è certa, definire un contratto sociale mondiale significa operare in modo sistemico sui molteplici fronti delle più diverse discipline scientifiche come il diritto, l’economia e le discipline legate alle scienze umane e sociali. Significa anche coinvolgere nelle nuove dinamiche della crescita tutti i principali attori dello sviluppo, in primo luogo le autorità pubbliche, i sindacati dei lavoratori, le organizzazioni imprenditoriali da riunire in un partenariato stabile. Ma, soprattutto, significa cogliere l’occasione di questo lavoro comune in vista del prossimo vertice mondiale per promuovere una grande iniziativa innovativa di natura culturale, educativa e informativa per riaffermare nella nostra società e nella sua proiezione in àmbito internazionale il valore dell’io globale. La società complessa, come voi sapete, è caratterizzata dalla vicinanza del lontano, da appartenenze e mobilitazioni molteplici, quasi istantanee, che riguardano le piccole e le grandi quotidianità, da simboli di appartenenza forti, da confini indefiniti e che tendono a scomparire, da princìpi morali che una volta raggiunto il livello iper particolaristico si fanno sempre più globalizzanti e trascendenti. È in questa società che, secondo noi, sta emergendo l’uomo del post individualismo, il “global-io”. Noi come Istituto avevamo affrontato il tema dell’io globale nei nostri Rapporti Italia già 10-15 anni fa. Siamo, insomma, storicamente, strutturalmente legati al tema, legati all’argomento. Fino ad oggi l’imprevedibilità del mondo globale ci ha reso, se volete, in qualche maniera, apatici. Abbiamo finito con l’affidarci al caso o a temerlo. La pervasività della globalizzazione ci ha obbligati a superare l’illusione di una separatezza dell’io dal resto del mondo, in buona sostanza siamo un tutt’uno. L’io globale al quale noi pensiamo non è la negazione dell’io, ma l’io che prende coscienza del fatto che deve confrontarsi con mondi, fenomeni, persone che per quanto apparentemente lontani lo riguardano molto da vicino. Il patto sociale che l’uomo della società complessa prima o poi dovrà sottoscrivere si dovrà fondare su una solidarietà globale, ispirato da uno spirito neo-solidale e neo-egoista, di un egoismo illuminato e conscio di sé e del mondo con cui deve confrontarsi. L’io globale potrà compiere scelte coraggiose, potrà perdere e distruggere per ricostruire, confrontarsi con la diversità, con la complessità, accettare la sfida e rispondere complicando ulteriormente. Mi viene in mente, leggendo questa frase, l’affermazione di un mio antico amico, autorevolissimo e importantissimo prelato che un giorno mentre pranzavamo si discuteva, come si discute a ora di pranzo, anche se, come dire il luogo era un po’ particolare, era il Vaticano, e mi disse «Gian Maria, se tu hai un problema da risolvere, l’unica strada che hai per risolverlo è complicarlo, quindi renderlo ancora più complesso ti aiuterà a risolvere il problema». Poi ho imparato, strada facendo, che tutto sommato la teoria, che mi aveva lasciato al momento un po’ perplesso, non era poi così sbagliata. L’io globale, come vi dicevo prima, deve essere sempre più attento alla tutela dei suoi e degli altrui diritti, perché gli uni si confondono negli altri. Dobbiamo imparare a ragionare come se il mondo dipendesse da noi, se vogliamo naturalmente liberarci del nostro fatalismo, della mancanza di coraggio, della mancanza di responsabilità. Solo recuperando il senso vero di appartenenza ad una comunità, solo combattendo concretamente fenomeni di esclusione sociale, operando con politiche e azioni conseguenti verificabili, sarà possibile ricreare le condizioni per una forte coesione sociale e perseguire l’obiettivo di un progresso comune, giusto e condiviso. Noi sappiamo che la nostra società è soggetta a processi di cambiamento radicale in cui sono messi in discussione i valori etici, religiosi, culturali, politici, sociali sui quali è stato costruito e ha potuto progredire per decenni il nostro sistema. Quando sono in discussione i valori essenziali di una comunità, come accade attualmente, quantomeno in Italia e nell’ambito dell’Unione Europea, noi tutti, come abbiamo ricordato nelle pagine di apertura del Rapporto Italia di quest’anno presentato qualche settimana fa, dovremmo compiere ogni sforzo per considerare la vera realtà che abbiamo di fronte. Dovremmo sforzarci di intenderla e di affrontarla con quello che noi abbiamo definito nella presentazione del Rapporto un pensiero essenziale, mettendo da parte le valutazioni effimere e gli atteggiamenti superficiali. La scienza, e concludo, insieme alla politica e alle organizzazioni sociali, potrà davvero definire un importante contributo su questa linea di solidarietà. Questo è un passaggio indispensabile per mettere tutti i cittadini nelle condizioni di sentirsi partecipi di una comunità e impegnati a costruire un futuro degno di essere vissuto da parte dei suoi membri. L’idea di recuperare il pensiero essenziale si sposa bene con un altro messaggio lanciato dall’Istituto nel corso degli anni che era quello di tornare a ragionare sull’elementarmente umano e sull’elementarmente ragionevole. Ragionare sull’elementarmente umano e sull’elementarmente ragionevole ci aiuta sicuramente ad essere più attenti, più saggi, più solidali. Grazie.

 

Grazie Presidente. A questo punto entriamo nel vivo dei lavori con le relazioni. Abbiamo il Direttore generale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Romolo De Camillis.

 

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Romolo De Camillis: Mi spiace non poter essere presente, ma altri impegni oggi mi tengono lontano da Roma. Intanto grazie per l’invito per condividere qualche riflessione rispetto ai temi che sono stati illustrati dai due oratori che mi hanno preceduto. Una piccola premessa metodologica. Si è detto prima, credo lo abbia accennato il Professor Capasso, che è in corso questo lavoro di elaborazione di proposte riguardo poi ad un documento che possa essere esaminato al vertice di Doha. Sono esercizi che si svolgono in maniera abbastanza regolare nell’ambito degli organismi internazionali di cui l’Italia è parte e il nostro Ministero, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, partecipa abitualmente a questi esercizi perché, come è stato già detto, il tema delle politiche sociali incrocia in maniera trasversale molti àmbiti, tutti centrali, soprattutto in questi momenti di trasformazione e di grandi di sfide collettive. Noi stiamo seguendo col Ministero del Lavoro, anche con il nostro Consigliere diplomatico e con i vari uffici coinvolti, questo esercizio. Stiamo lavorando ad alcune proposte. Dal nostro osservatorio, come Ministero del Lavoro, vediamo chiaramente che queste trasformazioni incidono pesantemente sulla vita delle persone, sia per quanto riguarda l’ambito del lavoro, dell’occupazione, delle tutele, delle garanzie, del rispetto dei diritti, di come le nuove tecnologie entrano nel modo di lavorare, sia per quelle persone che invece lavoratori non sono, pensiamo agli anziani, pensiamo a giovani e donne che ancora non sono occupati, pensiamo ai minori. Quindi c’è un tema di trasformazioni che possono rientrare nella più ampia categoria del welfare che sicuramente merita una particolare attenzione. L’altro tema che è stato richiamato dal Presidente di Eurispes è questo richiamo a concetti che rimandano alla complessità delle sfide che dobbiamo affrontare e alle diversità che abbiamo davanti. Anche questo è un tema centrale sul quale, a nostro avviso, un Paese come l’Italia non può farsi trovare impreparato. Abbiamo evidenze statistiche, abbiamo esperienza per dire che si può essere ambiziosi. Su questo faccio qualche riferimento più preciso, nel senso che i documenti che abbiamo esaminato finora trattano già in maniera adeguata alcuni temi che sono ricorrenti. Uno di questi è quello sicuramente di poter generare e di poter garantire, a livello globale, una buona occupazione, un’occupazione di qualità sotto tanti punti di vista. Quello che ci viene prima di tutto in mente è l’aspetto retributivo, evidentemente, quindi retribuzioni adeguate a livello globale, ma anche condizioni di lavoro, di accesso che siano dignitose per tutti. Non dimentichiamoci che quando parliamo di questi scenari globali, evidentemente dobbiamo immaginare anche paesi che hanno standard molto diversi dai nostri e quindi la complessità sta anche nel trovare formule che siano compatibili con contesti assai diversificati. C’è poi un tema sicuramente di pari opportunità sotto tutti i punti di vista. Il tema, appunto, delle pari opportunità di genere, del divieto di discriminazioni a tutti i livelli, resta ancora centrale e nei documenti che abbiamo esaminato è presente. C’è l’altro tema molto significativo per il nostro Paese e per tanti altri paesi in via ancora di sviluppo, che è il tema della povertà, o meglio probabilmente da declinare al plurale, cioè come le povertà, nelle loro varie connotazioni, possono essere affrontate e possano condizionare la vita delle persone, torniamo qui al tema delle diversità che è evidentemente centrale. Sul tema della povertà e della ricerca di soluzioni adeguate e sostenibili, anche il nostro Paese nel corso degli ultimi anni è fortemente ingaggiato e abbiamo visto susseguirsi misure diverse tra loro alla ricerca di un equilibrio sempre più efficace. Noi in questo in queste settimane, in questi mesi dialogo con il Ministero degli Affari Esteri, con la nostra rappresentanza delle Nazioni Unite a New York, abbiamo lavorato, come dicevo, su questa bozza di documento che è tuttora in progress e stiamo accompagnando tre temi che ci stanno sostanzialmente a cuore come Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e che vorremmo trovassero spazio adeguato nella riflessione e nel dibattito. Il primo è assolutamente trasversale e riguarda l’Intelligenza Artificiale. È un tema che il Governo italiano ha già affrontato l’anno scorso all’interno del G7, che abbiamo ospitato come Paese che ha avuto la presidenza di questo importante appuntamento, lo abbiamo posto al centro del confronto, in particolare come Ministero del Lavoro, con l’obiettivo di richiamare l’attenzione di tutti su quali possono essere ovviamente i potenziali della Intelligenza Artificiale e di come però questo strumento possa rivelarsi oltremodo un’opportunità per accrescere le condizioni di lavoro, per migliorare le condizioni di lavoro e per rafforzare i diritti, quello che abbiamo definito nei comunicati anche ufficiali adottati dal G7 un approccio umano-centrico. Personalmente sul tema dell’Intelligenza Artificiale, visto che siamo in uno scenario, appunto, globale, uno scenario ONU, la declinazione dell’Intelligenza Artificiale si potrebbe fare, a mio avviso, anche in termini più ampi e cioè ricondurla alla valorizzazione e alla promozione, al rispetto dei diritti umani. Il tema dei diritti umani è centrale negli strumenti ONU e l’Intelligenza Artificiale, considerata la sua vastità di applicazione, la sua trasversalità, a mio avviso può adeguatamente ricondursi proprio al paradigma dei diritti umani. Il secondo tema sul quale abbiamo lavorato in queste settimane, e che vorremmo proporre all’attenzione, è quello della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Anche questo è un argomento importante, non tanto per le riflessioni di paesi avanzati come l’Italia, in cui il tema della salute e sicurezza è al centro delle politiche nazionali ormai da decenni, ma proprio per stimolare con la necessaria ambizione una riflessione che vada a incidere anche in contesti in cui invece il tema della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è ancora in una fase di elaborazione e di concreta applicazione. La salute nei luoghi di lavoro, la tutela della vita, la tutela della salubrità delle lavorazioni, degli ambienti di lavoro, le sostanze cancerogene, adesso sarebbe troppo lungo fare una lista, sono temi centrali. L’Italia assieme ai paesi europei ovviamente ha costruito una lunga tradizione di strumenti comunitari e nazionali per regolare questo tema e quindi lo abbiamo posto al centro del confronto ovviamente nell’ambito di tutto quello che si riconduce al mondo del lavoro. Il terzo tema sul quale abbiamo posto l’attenzione e ci auguriamo che possa trovare spazio nei documenti di lavoro è il tema dell’economia sociale. Qui l’Italia in realtà si muove in maniera ancora più significativa, come sappiamo nella nostra tradizione di terzo settore, di corpi intermedi, come vengono definiti, è una tradizione consolidata che ha consentito all’Italia di ritagliarsi un posto di rilievo all’interno dello scenario internazionale; le nostre pratiche, il nostro modello, suscita costante interesse. La nostra proposta va nella direzione di valorizzare in maniera adeguata il ruolo dell’economia sociale, il ruolo del terzo settore, facendo in modo che possa diventare sempre più un attore centrale all’interno delle politiche sociali e possa quindi dare in maniera sempre più costruttiva il suo contributo. Questi sono un po’ i tre punti centrali che abbiamo messo, come dicevo prima, al centro delle nostre proposte. Siamo ottimisti, nel senso che sappiamo di aver fatto riferimento a temi di sicuro interesse che potranno arricchire ancor di più i lavori preparatori del vertice e ci auguriamo anche quelle stesse giornate in cui poi, come ben sapete, si arriverà all’adozione, ci auguriamo, di una dichiarazione finale. Io non aggiungo altro se non ringraziare il CNR ed Eurispes per questa iniziativa, è stato detto in apertura da chi mi ha preceduto, perché sicuramente è utile poter condividere queste riflessioni, poter fare un esercizio collettivo di raccolta di spunti, di idee, di proposte perché il nostro Paese possa mobilitare le proprie eccellenze in questi appuntamenti e quindi contribuire in maniera costruttiva all’elaborazione di un documento che sarà ovviamente al centro del confronto. Prima di concludere un ultimo riferimento, ci tengo a farlo guardando anche il vostro programma e gli interventi che vedono anche i rappresentanti delle parti sociali, perché l’altro punto sul quale come Italia abbiamo sempre insistito, devo dire spesso con successo perché anche questo è un aspetto che ci viene riconosciuto a livello internazionale sui temi del lavoro e del welfare è quello del dialogo sociale, cioè di costruire modelli, proposte e soluzioni che partano da un dialogo con le parti sociali e che possano quindi trovare fin dall’inizio una condivisione con le organizzazioni di rappresentanza di lavoratori e datori di lavoro. È un punto importante, anche qui per alcuni paesi è un è un modello acquisito, è un patrimonio consolidato, non per tutti. E quindi riteniamo utile che quando si parli di lavoro, di pari opportunità, di welfare, in particolare queste riflessioni e le possibili soluzioni possano maturare ed essere poi concretamente accompagnate all’interno di un percorso che veda il dialogo sociale come punto centrale di confronto e di riflessione condivisa con le parti sociali. Mi fermo qui per non rubare tempo agli altri interventi. Vi ringrazio dell’invito e vi auguro buon lavoro. Poi immagino avremo modo ancora di confrontarci nelle settimane a venire. Grazie a tutti e buon proseguimento.

 

Grazie a Lei e siamo noi a ringraziarla per essere intervenuto e a questo punto direi di passare la parola alla docente di Statistica Sociale Sapienza di Roma, Università di Roma, Filomena Maggino.

 

Filomena Maggino: Innanzitutto volevo ringraziare gli organizzatori per avermi coinvolto in questa occasione su un tema che mi è particolarmente caro, come ha detto la nostra coordinatrice di fatto sono una statistica e come statistica, soprattutto impegnata nel ne temi applicativi della statistica, devo definire i fenomeni prima di misurarli. Io mi occupo di indicatori e come sappiamo gli indicatori sono sensori che noi abbiamo nella realtà e che ci raccontano e che ci stilizzano la realtà, non sono la realtà. Quindi la loro efficacia nel raccontare la realtà dipenderà molto dalle definizioni che facciamo. Ed ecco quindi il perché mi sono sempre occupata, avendo applicato il tema degli indicatori al tema del superare la logica del Pil, quindi indicatori Beyon GDP da ormai 30 anni, mi sono occupata di definire qualcosa che consenta superare la logica del Pil. In questo senso mi sono occupata dei temi del benessere, qualità della vita, eccetera, eccetera. Quello che è chiaro in chi fa questo esercizio è che l’errore più grande si possa fare è quello di fare definizioni frammentarie, prendo un pezzo di qua, un pezzo di là, si fallisce subito in questa operazione. Un altro errore è quello di confondere la definizione, in questo caso, di qualità sociale, con le emergenze che ci sono nella nostra società. Le emergenze le identifichiamo solo dopo aver definito che cos’è qualità sociale e tutto il resto. Questo è un po’ l’errore che viene fatto anche quando si vuole distinguere tra un sistema di indicatori che misura il benessere e che so io gli SDGs, che invece identificano delle emergenze, non è una definizione, non c’è nessuna definizione là dietro, ma soprattutto non è un sistema di indicatori che fa il monitoraggio del nostro mondo, non lo fa, perché non è il suo compito, quindi non lo adottiamo come un sistema per monitorare il la qualità sociale. Allora, premesso questo anche così cercando in giro qualità sociale poi, di fatto, tutte le definizioni che si fanno si riconducono a concetti generali quali quelli che citavo prima, cioè qualità della vita, benessere, eccetera. Io cercherò di sistematizzare un po’ questi concetti. Intanto, qualità sociale mette al centro le persone e su questo non abbiamo dubbi, ma le persone sono individui, ma sono anche relazioni, relazioni con gli altri individui, con le istituzioni, con le organizzazioni, con l’ambiente. Ecco che dobbiamo cominciare a distinguere, da una parte abbiamo l’individuo e la sua vita, dall’altra la qualità della vita. Quando definiamo la qualità della vita, definiamo l’essenza della vita della persona, quindi abbiamo bisogno di un altro pilastro che definisce la qualità della società che ha al suo interno le relazioni tra gli individui, le relazioni tra i singoli individui e le organizzazioni, le istituzioni, eccetera, e le relazioni che abbiamo con l’ambiente. Qui permettetemi di fare una prima annotazione, poi entrerò nel dettaglio dei due pilastri. Mettere al centro le persone nel dibattito su questi temi non vuol dire abbandonare altri temi come quello dell’ambiente, io non li vedo in antitesi. Si fa un grosso errore quando si mette al centro l’ambiente. Questo è il vero errore. Noi dobbiamo difendere le condizioni di vita che consentano alle persone, a tutti noi, di vivere nelle migliori condizioni. La Terra non ha bisogno di noi per essere difesa. C’era prima di noi e ci sarà dopo di noi. Noi non dobbiamo salvare nessun Pianeta. Noi dobbiamo salvare le condizioni di vita migliori per le persone e se ci pensate bene questo vuol dire difendere l’ambiente. Dobbiamo difenderlo in funzione delle nostre vite. Questo non vuol dire essere egocentrici. Se non ci difendiamo noi, non ci difende più nessuno. Allora, i due pilastri. Qualità della vita: esistono moltissime definizioni di qualità della vita, ogni studioso può proporne qualcuna, io ne ho viste tante e ho fatto anche un articolo in cui le classifico tutte queste definizioni. Sono tutte interessanti e tutte adottabili. Dobbiamo cercare quella che è più comprensiva di tutte, perché l’altro errore che si può commettere è quello non solo di definire in maniera frammentare la realtà, ma di non rispettare la complessità della realtà, perché non è il nostro pensiero complesso che ci aiuta a leggere la realtà, è la realtà complessa, noi dobbiamo adeguarci a quella complessità. E allora ho individuato un modello molto semplice che individua due sotto-pilastri nel definire la qualità della vita. Innanzitutto le condizioni di vita e nelle condizioni di vita mettiamo sia le condizioni oggettive di vita (e qui la casa, il lavoro, gli standard di vita, anche le capabilities famose che non possiamo adottare come unica definizione di qualità della vita, ma la dobbiamo inglobare all’interno di un modello esteso) e tutte le circostanze esterne che condizionano la vita delle persone. Gli aspetti soggettivi sono importanti perché tutti questi sottodomini possono essere valutati dall’individuo in termini di soddisfazione. Sono soddisfatto per il lavoro. Addirittura nel lavoro ci sono modelli più complessi di definizione della qualità soggettiva del lavoro, i rapporti con i colleghi, i rapporti coi superiori, l’ambiente di lavoro, quanti indicatori soggettivi possono essere affiancati a quelli oggettivi di cui non faccio l’elenco, per poter fare una valutazione complessiva e vedremo che di fatto la valutazione soggettiva diventa un cardine importante della valutazione delle società. L’altro sotto-pilastro della qualità della vita è il benessere soggettivo, che non è la valutazione di cui abbiamo parlato prima, ma l’espressione sintetica che l’individuo fa della propria vita, soddisfazione di vita. Ma poi ci sono anche espressioni più contingenti che sono positive o negative. Positive come la felicità, oppure negative come l’ansietà, il nervosismo. Sono tutti fattori soggettivi, contingenti che comunque ci aiutano a capire in che modo sta vivendo questa persona. Ci sono definizioni attraverso anche l’aiuto di psicologi, ma non mi voglio appesantire troppo. L’altro grande pilastro, abbiamo detto che è la qualità della società. E qui, ripetendo quello che ho già detto, intervengono le questioni delle relazioni. Che cosa possiamo adottare come punto di riferimento, come definizione della qualità di una società? Le attività sociali e politiche e il fatto che le persone siano coinvolte in queste attività, può essere un coinvolgimento formale, ma anche un coinvolgimento informale; la partecipazione, partecipazione sociale, partecipazione politica, che può essere misurata in termini formali, partecipazione alle elezioni, ma non lo esaurisce perché la partecipazione è fatta di molte altre situazioni. Le relazioni sociali e le relazioni sociali tra individui, tra gruppi e tutto il seguito delle possibili identificazioni di queste relazioni di reti informali. Molto spesso nei paesi nordici, tanto citati, tanto lodati, si fa solo riferimento alle reti formali. Ma le società hanno tradizioni diverse, storie diverse. Per esempio, in Italia c’è una tradizione di reti informali molto forte che ora è sottoposta ad uno sgretolamento che fa molto male alle persone. La qualità delle relazioni, quindi i valori condivisi, i conflitti esistenti, la solidarietà che emerge in una società e anche le performance delle Istituzioni e delle organizzazioni, cercare di capire anche questi elementi della società come agiscono. Nell’ambito della qualità della società esistono degli indicatori soggettivi che io ritengo fondamentali. Uno di questi è la fiducia. La fiducia non è la condizione di vita di un individuo; la fiducia è la sua relazione con gli altri, con le organizzazioni. La fiducia che è, come sapete dal punto di vista delle definizioni bidimensionale, interpersonale, e la fiducia delle persone verso le Istituzioni. Io vi sto parlando di cose che sono concettuali, ma sono anche misurate. In Italia, vengono misurate tutti gli anni, ce l’abbiamo i dati e vi posso assicurare la fiducia in Italia è ai minimi storici e siamo arrivati ad un livello pericoloso. Un’altra dimensione soggettiva della qualità della società è l’identità, perché le persone hanno diversi livelli di identità personale, ma c’è anche un’identità del gruppo, un’identità del Paese e questa è una dimensione soggettiva. Spiego ora l’altra dimensione soggettiva della qualità di una società che è la speranza. Allora, se in un Paese le persone non hanno più fiducia nelle Istituzioni, non si riconoscono più in quel Paese e non sono in grado di costruire il loro futuro. Vedete come le tre dimensioni soggettive sono tra loro collegate. Io le sto studiando attraverso il modello delle catastrofi e insieme ad un mio tesista abbiamo preso tutti i dati che l’Istat ha, alcuni vanno interpretati, ma il modello di catastrofi ci dice, il modello ha tre dimensioni, perché ce ne sono diversi, che se la fiducia raggiunge un limite basso, quella società non è che continua a scivolare giù con la fiducia, da quel punto in poi crolla, catastrofi, la valanga. Monitorare il Paese, attraverso indicatori, in seguito a definizioni sistemiche, consente di capire anche quali sono i punti nevralgici e anche i punti che possono scatenare crisi non arrestabili. Poi ci sono anche altre dimensioni soggettive come la percezione che le persone hanno delle dimensioni sociali, quindi la percezione sull’esclusione sociale o sull’inclusione, sulla solidarietà. La percezione non è la realtà, ma le persone percepiscono quello, quindi diventa qualcosa di importante. A questo punto ho fatto un panorama veramente sintetico per definire tutti e due i pilastri occorrerebbe più tempo, però dobbiamo anche chiederci come valutare questi due grandi pilastri, ovvero la qualità di questi due pilastri. E la qualità dipende dalla equità della distribuzione di tutti gli elementi. La fiducia è alta solo in una regione e in un’altra no? Qui c’è un problema. Oppure le condizioni di vita sono in un modo; la salute (qualità della vita), la speranza di vita in una regione è più alta che in un’altra e così via. Dobbiamo avere una chiara definizione della equa distribuzione del benessere dal punto di vista territoriale, ma anche dal punto di vista dei gruppi sociali. Quindi la valutazione dell’equità si fa a diversi livelli, quindi occorre individuare i gruppi sociali che vogliamo confrontare, maschi e femmine. Si parla tanto di eguaglianza di genere, è un pezzetto della qualità sociale, importantissimo, ma è un pezzetto. Poi dobbiamo identificare altri gruppi, per esempio i gruppi generazionali, di cui si parla poco, la distribuzione del benessere tra generazioni. Questo è l’esercizio importante da sviluppare, ovvero identificare i livelli diversi che dobbiamo monitorare per comprendere l’equità della distribuzione. Anche qui cerco di essere breve, perché del tema dell’equità me ne sto occupando per definire dei veri e propri indicatori perché di fatto l’equità si può valutare analizzando semplicemente gli indicatori, oppure creando degli indicatori ad hoc ci possono essere tutte e due le prospettive, ma dobbiamo anche verificare, in termini di qualità sociale, quindi distribuzione equità, ma anche come viene promosso il benessere in quel paese. Allora dobbiamo capire la sostenibilità della promozione del benessere. Ma quando abbiamo chiaro quali sono gli obiettivi, la sostenibilità acquisisce una sua definizione, altrimenti di per sé sostenibilità è un bellissimo concetto, ma non può essere applicato è vago, io direi. Lo dobbiamo applicare e riferire ad un qualcosa in particolare. In questo contesto, in particolare, lo vorrei attribuire proprio alla qualità sociale promossa in maniera sostenibile. Voi sapete che in termini di sostenibilità anche sociale ci sono molte definizioni e c’è chi vuole identificare delle dimensioni e dei fattori, come la vulnerabilità, che può essere un concetto utile per capire la sostenibilità sociale. La vulnerabilità che ha fattori sia positivi che negativi. Quelli positivi sono rappresentati dalla resilienza. Ho cercato di fare un quadro generale, di fatto poi il problema è come selezionare gli indicatori. Il processo che porta alla definizione di qualità sociale e allo sviluppo degli indicatori deve essere un processo partecipato. L’Istat l’ha già fatto questo esercizio, con la creazione del sistema di indicatori BES (Benessere Eco Sostenibile), io ho fatto parte della commissione scientifica, è stato fatto questo esercizio. Il problema è che è rimasto lì statico, dopo 10 anni forse avrebbe bisogno di un aggiornamento perché la realtà è dinamica e dinamico deve essere anche il sistema di indicatori. Poi ci sono tutte questioni tecniche sulle quali non mi soffermo che riguardano proprio gli indicatori e la loro sintesi. Concludendo questo panorama molto veloce che ho fatto, vorrei richiamare alcune cose. Qualità sociale, prima cosa definizione, seconda cosa misurazione, quindi individuazione degli indicatori e indicatori vuol dire indicano e se non indicano non sono indicatori, sono semplici statistiche, pensiamo al tasso di divorzio. Il tasso di divorzio non è mai adottato come indicatore, soprattutto per la misurazione del benessere, perché è bidirezionale, cioè può essere interpretato in tutti e due modi, positivo e negativo. Ma io aggiungerei anche un’altra questione, terza, quella della governance. Io ho avuto esperienze a Palazzo Chigi portando avanti questi temi e la cosa di cui mi sono resa conto immediatamente è che non li puoi portare avanti. Sì, per problemi possiamo discutere in separata sede, ma proprio dal punto di vista formale, organizzativo. Il Consiglio dei Ministri non è una sintesi, ratifica decisioni dei Ministri. Una realtà complessa ha bisogno di un approccio sistemico e quello non lo è. Ricordo che un Ministro all’epoca propose una legge, forse ve lo ricordate, era una tassazione sulla plastica non riciclabile. Bellissimo, bellissima iniziativa, ottimo. Il mio telefono cominciò a squillare, perché questa cosa si poteva vedere, perché lì non c’era visione sistemica. Perché chi è che usa la plastica non riciclabile? Qual è il settore? È la sanità, quindi tassi un qualcosa che devi usare in sanità, un qualcosa di tipo “Mi butto la zappa sui piedi”. Questa consapevolezza che deve crescere, perché non c’è ancora, per quello che ho visto, almeno in quel contesto, deve forse anche farci riflettere sulla necessità di avere anche un altro spirito di governance che sia più sistemico. Io ho provato con una cabina di regia e consentiva di fare questo. Quindi dovremmo riflettere anche su questo àmbito. Quindi, concludendo, dobbiamo rimettere al centro le persone, la loro vita, le loro relazioni e dobbiamo anche ammettere che stiamo vivendo un momento storico in cui i paesi sono stremati. È inutile fare finta che non sia così. I paesi sono stremati da anni di richieste di sacrifici, al punto che si profetizza che tutto viene risolto dalla famosa resilienza che citavo prima. Se la resilienza è addossarsi tutti questi problemi e restare comunque sempre in piedi no, non lo accetto. Ecco perché cerco di tenere distante il concetto di resilienza, proprio perché è questo. Io l’ho detto anche in un contesto internazionale a porte chiuse quando il rappresentante tedesco dice «Noi dobbiamo governare promuovendo la resilienza». Allora vuoi ammazzare le tue persone? Non devono lamentarsi. questo vuoi. In conclusione occorre ricostruire la dimensionalità umana fatta non solo di lavoro e di lotta per la sopravvivenza, ma fatta di tante cose. Bisogna ricostruire il tessuto sociale fortemente sfilacciato e frammentato. Occorre ricostruire anche dei valori. Faccio degli esempi. il tempo, il valore del tempo. So che ciascuno di voi sta pensando ad alcune situazioni in cui il tempo ci viene rubato e non ci tornerà più, è il bene più deperibile che esista. Oppure valori come la velocità, è possibile che le cose se sono più veloci, hanno più valore? Forse non è vero. Dobbiamo capirla questa cosa. Vi faccio un esempio brevissimo. Ho abitato tanti anni a Firenze che è devastata, letteralmente devastata, per tanti motivi, ma anche perché c’è un sottoattraversamento di Firenze per l’alta velocità. L’alta velocità ha unito l’Italia, non c’è dubbio, ma se per guadagnare 3 minuti devasti una città, quei 3 minuti hanno più valore se passati sul treno che non a spese di un ambiente devastato. Non è possibile governare sempre in nome di emergenze e di crisi più o meno gravi, utilizzando solo misure di sacrificio fatte accettare attraverso il tramite della paura. Dovremmo riflettere anche su questo e come abbiamo visto l’approccio che è stato usato finora di promozione di non so che cosa, perché poi di fatto scatenando paura e scatenando emergenze non so cosa stiamo promuovendo, però questo approccio ha condotto a un abbassamento generalizzato della fiducia nelle Istituzioni e, ancora più grave, la fiducia interpersonale. Voi sapete che in Italia, ho detto prima, il l’Istat fa il monitoraggio della fiducia. Voi sapete qual è l’istituzione che ha un maggior livello di fiducia in Italia? In genere mi arriva Presidente della Repubblica, il Papa. I Vigili del fuoco, perché loro rischiano la loro vita per la nostra sicurezza. Grazie.

 

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 

Pensavo fossero i Carabinieri, invece i Vigili del Fuoco. Grazie, professoressa Maggino, tutti spunti interessantissimi che saranno utilizzati anche per le riflessioni successive durante la giornata. A questo punto chiederei al professor eh Marco Ricceri se mi dà il cambio nella moderazione e direi di passare agli interventi con il Direttore del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Ricerca su Innovazione e Servizi per lo sviluppo, Paolo Landri. Grazie.

 

Paolo Landri: Innanzitutto volevo ringraziare il Presidente dell’Eurispes per aver organizzato questa bella giornata di confronto e il Direttore Capasso per avermi dato l’opportunità di portare il mio contributo a questa discussione così interessante. Sono occasioni che capitano in effetti raramente. Vorrei come dire compiere il mio compito dando un contributo importante. Abbiamo sentito delle relazioni molto interessanti rispetto alle quali io vi proporrò una riflessione che riguarda, avendo io lavorato molto tempo in un istituto prima di diventare direttore dell’IRIS, per 20 anni all’IRPS che è appunto un istituto che tradizionalmente si occupa di politiche sociali diciamo la mia formazione sociologica è chiaramente debitrice dello studio delle politiche sociali. Si è parlato di Intelligenza Artificiale ed essendo io un sociologo dell’educazione il tema mi è particolarmente caro e su questo vorrei dire alcune cose che spero in qualche modo potranno essere riprese magari in una possibile proposta al dibattito futuro. Ero un po’ indeciso su quale titolo dare alla mia relazione, al mio intervento, perché secondo me noi siamo in una fase, è stata sottolineato più volte, in una fase di grande trasformazione, di complessità. In realtà i perimetri, i paradigmi, le concettualizzazioni con le quali abbiamo definito attualmente il mondo stanno irrimediabilmente cambiando, ma non sto dicendo niente di particolarmente innovativo, solo che secondo me dobbiamo e su questo in effetti volevo incentrare il mio contributo, dobbiamo ripensare in maniera profonda quelli che sono stati i modelli di welfare introdotti negli ultimi anni. E da qui deriva la mia difficoltà di dare un titolo sostanzialmente, perché se guardiamo in effetti ai modelli di welfare del passato, se vado alla storia sostanzialmente i modelli di welfare, so che i primi modelli di welfare erano denominati in una prima fase come modello fordista che era sostanzialmente un modello di welfare compensatorio, seguito poi successivamente nel modello per così dire della social investment strategy che è caratteristico sostanzialmente del periodo che da un punto di vista economico oggi consideriamo come il periodo neoliberista e che, come dire, promuovevano politiche di attivazione nei confronti della popolazione. Tra l’altro, in queste politiche, le politiche dell’istruzione hanno ed hanno sostanzialmente un ruolo chiave. Però, in realtà, noi ci troviamo anche attualmente in una fase di crisi di questo modello, perché in realtà anche le misure che si ispiravano alla social investment strategy stanno rivelando sostanzialmente la loro grossa difficoltà negli effetti e nelle conseguenze. E allora in che fase ci troviamo oggi? Io mi baso sulla letteratura che si sta sviluppando negli ultimi tempi che è molto interessante e che è una letteratura che in realtà attacca o critica in maniera molto forte uno dei pilastri della modernità del pensiero moderno, vale a dire il rapporto esistente tra l’uomo e la natura. Questo binomio sostanzialmente, questa caratteristica binaria che caratterizza la modernità, che l’ha caratterizzata dalle sue origini, sta entrando irrimediabilmente in crisi. È chiaramente indubitabile il fatto che il cambiamento climatico, come le altissime temperature che stiamo vivendo in questi giorni ci dimostrano in maniera molto forte, è chiaramente un dato inequivocabile e proverei a legare sicuramente i problemi sociali che stiamo vivendo oggi alle sfide del cambiamento climatico, cioè al cambiamento dell’ambiente in cui stiamo vivendo. Cioè, noi per ripensare sostanzialmente i modelli di welfare dobbiamo pensare che in realtà è stato il modello di crescita economica che ha caratterizzato la modernità a portarci al punto di crisi e di frammentazione in cui ci troviamo. Un modello di crescita economica che chiaramente ha portato ad un consumo ormai insostenibile di risorse. Questo legame tra crescita e benessere è stato descritto come una spirale cumulativa tra accumulazione e ridistribuzione e difatti la maggior parte delle politiche di welfare sono state concepite in maniera redistributiva, cioè sostanzialmente una volta che si accumulano le ricchezze seguono dei meccanismi di redistribuzione che dovrebbero idealmente compensare le ineguaglianze che si sono create sul mercato. Questo modello, naturalmente ha determinato degli effetti sul deterioramento degli ecosistemi ed ha contribuito ad accelerare la crisi ambientale. Chiaramente ha prodotto a cascata il deteriorarsi delle condizioni e dei costi ambientali dello sviluppo, per cui adesso i processi di trasformazione della natura in merci diventa sempre più costoso. E la crisi ambientale sostanzialmente è caratterizzata da due elementi: da una parte l’accelerazione; dall’altra….. Stiamo vedendo un’incredibile accelerazione dei meccanismi di innovazione tecnologica. Un esempio è proprio l’Intelligenza Artificiale o sarebbe per meglio dire l’Intelligenza Artificiale generativa che costituisce in effetti la dimensione più avanzata. Il processo è un processo cumulativo e questo processo è di grande accelerazione al punto tale che in realtà ci sembra che non ci siano più alternative se non adeguarci alla velocità dei cambiamenti. Noi sappiamo che culturalmente l’accelerazione è parte della modernità, lo sappiamo sin dai primordi e ovviamente io non vi sto proponendo il ritorno, per così dire, ai tempi lenti, però supponendo il problema della sostenibilità dell’accelerazione, un’accelerazione che in realtà finisce per produrre degli effetti negativi dal punto di vista delle prospettive di sviluppo. La crisi economica in effetti sfida la finitezza delle risorse naturali e quindi pone evidentemente anche dei problemi per quanto riguarda le basi materiali della crescita. Naturalmente poi questo ha anche degli effetti indiretti perché oggi assistiamo un po’ ad un paradosso per cui in alcuni casi se si prendono delle iniziative a favore dell’ambiente sembra che siano in contrasto con quelle del welfare, creando poi sostanzialmente dei contrasti tra le misure in alcuni casi di welfare e le misure poi che sono a favore della dell’ambiente. Il caso in Francia dei gilet gialli dimostra come il tentativo di rendere la Francia più ecologica abbia prodotto dei processi naturalmente di contrasto alle politiche ambientali. Rispetto a questo allora che cosa si può si può fare? Io vorrei arrivare direttamente a delle proposte per non indulgere eccessivamente sulla pars construens. Le possibilità ci sono e in realtà nella letteratura incominciano ad affacciarsi non ancora ed ha ragione la Professoressa Maggino, non ancora in termini degli indicatori e neanche di metodologie di misurazione, però diciamo come giustamente ha sottolineato la Professoressa, l’indicatore in realtà diventa indicatore, cioè un numero, la statistica, una metrica diventa effettivamente un indicatore quando poi c’è un costrutto, in realtà c’è una teoria che permette a quella statistica di diventare effettivamente un indicatore. E su questo naturalmente c’è molto da lavorare. Rispetto a questo mi permetto di dire che una nozione sulla quale si può lavorare è quella di eco-welfare o di politiche socio-ecologiche e questa è una nozione estremamente interessante dal mio punto di vista, perché in realtà questo tipo di approccio potrebbe aiutarci a vedere le crescenti interdipendenze che esistono tra la crisi fiscale e la crisi ambientale e potrebbero aiutare in effetti lo Stato sociale da emanciparsi dal paradigma della crescita, oltre che ricucire le fratture tra società ed ambiente nella costruzione di politiche eco-sociali. Che cosa vuol dire? Vuol dire riorientare le politiche di welfare da sistemi redistributivi a sistemi pre-distributivi, ci sono degli economisti naturalmente che sostengono questa tesi. Vuol dire sostanzialmente andare ad incidere sulle ragioni delle diseguaglianze e non intervenire con politiche di welfare quando in realtà le diseguaglianze si sono già create nei meccanismi del mercato. Vorrebbe dire sostanzialmente intervenire nei meccanismi che producono accumulazione e, per esempio, attraverso meccanismi di regolazione del mercato, favorendo la partecipazione diretta dei cittadini a forme di imprese sociali cooperative e democratiche, capaci di creare beni pubblici collettivi e distribuire direttamente la produzione di ricchezze. È chiaro che le politiche pre-distributive intervengono chiaramente sulla regolazione dei mercati, sulla tutela della concorrenza, sulla normativa del governo societario che ovviamente modifica gli equilibri di potere, sulle normative del lavoro, sui criteri, per esempio, per assegnare i fondi di ricerca che possono influenzare l’indirizzo delle politiche, sui criteri del procurement pubblico, cioè anche queste possono orientare intervenendo o prevenendo che si verifichino meccanismi di disuguaglianza. Una politica chiave da questo punto di vista è sicuramente la politica dell’istruzione, che interviene direttamente sulla formazione delle soggettività e ovviamente che sono in ultima analisi degli elementi di base per la formazione poi del valore da cui dipende la ricchezza di una società e anche il benessere di una società. Quindi, sostanzialmente è chiaro che questo chiama in causa anche una diversa concezione di quella che oggi viene definita come transizione ecologica, perché molto spesso la transizione ecologica è stata prevalentemente declinata nel paradigma della modernizzazione ecologica. Si pensa semplicemente che basti investire in tecnologie verdi perché finalmente si ottenga la transizione ecologica. In realtà, questa concezione è veramente di tipo modernista e strumentale, perché in realtà vorrebbe dire fidarsi ciecamente di uno strumento per la risoluzione di problemi sociali. Noi sappiamo che i problemi sociali sono complessi al punto tale che richiedono ovviamente un ripensamento e un cambiamento delle relazioni dei modi di pensare alla società, quindi non si ottengono semplicemente. Per pensare ad un futuro eco-sociale lancio tre direzioni di lavoro. Innanzitutto bisognerebbe costruire economie che reintroducono l’ambiente nel loro ciclo di produzione secondo criteri di eco-sostenibilità, quindi pensare a delle forme di economia che favoriscano la circolarità, l’economia circolare; forme di economia che non distruggano l’ambiente, ma che in realtà valorizzino l’ambiente. Da questo punto di vista non c’è una contraddizione con la tecnologia. Oggi abbiamo delle forme, per esempio, avanzate di utilizzo dell’Intelligenza Artificiale. Penso, per esempio, all’agricoltura di precisione, che ci permettono in effetti di coltivare avendo cura anche dei tempi di coltivazione. Questo naturalmente è dentro la domanda sociale intercetta una domanda sociale molto forte da parte dei cittadini. Il secondo elemento, secondo me, riguarda la definizione dei contesti istituzionali delle nuove politiche sociali. E da questo punto di vista bisogna anche pensare il rapporto tra le aree urbane e le cosiddette aree interne. Quella è un’altra forma di diseguaglianza che è fortissima, perché in realtà la maggior parte delle politiche sociali sono disegnate per quanto riguarda le aree metropolitane. Sistematicamente i servizi sociali sono nelle aree interne sono pensati per differenza e questo naturalmente è un errore molto forte che accentua le diseguaglianze e crea, progressivamente, come si dice, spopolamento e impoverisce oltretutto anche l’ambiente naturale in cui quelle società, quei piccoli borghi, in effetti si sono sviluppate. Questo è accaduto proprio perché si è rotto quell’equilibrio umano naturale che caratterizzava quelle aree. Da questo punto di vista le proposte esistono e sono molto interessanti. Penso per esempio al concetto di metro montano o di metro rurale, oppure all’idea di bioregioni urbane. Sono tutti concetti interessanti che provano a sfidare sostanzialmente il pensiero binario che oppone le aree urbane, le aree interne. Ovviamente questo ci porterebbe molto lontano, ma ci impegnerebbe a ripensare alla necessaria riconnessione ecologica tra sistemi territoriali che sono diversi. Le aree urbane dipendono per molte cose dalle aree rurali, penso all’acqua, per esempio. Il terzo elemento è che bisogna ripensare i servizi alle persone fuori dalla logica delle economie di scala e quindi favorendo la logica della prossimità. Questo è un tema che mi è molto caro perché ho studiato con attenzione le piccole scuole nelle aree urbane. Vuol dire pensare alle scuole non sul modello urbano, ma pensare sul modello di prossimità. Invece prevalentemente le politiche scolastiche attualmente nel nostro Paese sono pensate per le grandi città. Ma noi sappiamo nella maggior parte delle innovazioni pedagogiche si sono in realtà realizzate proprio in piccole scuole e la nostra tradizione pedagogica ce lo ha ben raccontato e documentato soprattutto nella letteratura internazionale e questo mi piace sottolinearlo. Bene, ho concluso con le mie indicazioni. Spero che queste possono essere utili al dibattito. Grazie.

 

Marco Ricceri: Grazie a lei, molto utile, tutto registrato. Allora, Santo Biondo, Segretario confederale della UIL e poi Raffaele Morese, presidente di Associazione Nuove Lavori. Prego.

 

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 

Santo Biondo: Buongiorno a tutti, grazie per l’invito, all’Eurispes e al CNR per aver organizzato questo appuntamento. Intanto noi accogliamo con grande attenzione anche un pizzico di speranza la possibilità che si arrivi a questo contratto sociale mondiale. Quindi l’Assemblea delle Nazioni Unite ha fatto una scelta giusta di organizzare, di convocare questo appuntamento a Doha a novembre, è una scelta che può apparire non scontata, ma è quasi obbligata, dati gli scenari che sono stati anche illustrati da chi mi ha preceduto, nel senso che siamo in una fase molto complessa e complicata all’interno della quale si stanno svolgendo già da tempo delle transizioni importanti dalla questione tecnologica, l’Intelligenza Artificiale, al tema demografico, alla questione ambientale. Per poter ottenere queste transizioni in maniera, come dire, efficace, è chiaro che è necessario un grande consenso sociale. Va affermato il principio che in questi processi nessuno debba rimanere indietro e dunque un’attenzione al sociale per noi è fondamentale, è importante. Riteniamo che un contratto sociale mondiale è un’occasione imperdibile, perché si porta al centro del dibattito pubblico non soltanto negli Stati, ma noi immaginiamo in Europa, anche in una dimensione più allagata dell’Europa, il tema della giustizia sociale, del lavoro di qualità e oggi precisare il lavoro di qualità già dice molto e il tema della persona. Per noi un contratto sociale mondiale deve essere abbinato a un fisco sociale mondiale. Sappiamo perfettamente che gli Stati sono fortemente indebitati, c’è un rallentamento dell’economia. Dunque, per poter fare le cose che servono, di cui noi abbiamo anche l’ambizione di discutere, è fondamentale che i sistemi fiscali incomincino ad avere una dimensione sociale e che siano soprattutto coordinati. In questi giorni torna nel dibattito la discussione sulla Global Minimum Tax, un appuntamento che secondo noi va rimarcato in un vertice così importante perché poi per fare le cose che noi chiediamo è chiaro che ci vuole una buona quantità di risorse economiche che, come dicevo, oggi alla luce di quello che è lo scenario, possono essere attinte solo dal tema fiscale. Noi come organizzazione sindacale abbiamo posto non soltanto in Italia, ma anche in Europa, partecipiamo alla CES che è il Sindacato Europeo, abbiamo contribuito alla realizzazione del pilastro sociale europeo in un momento in cui purtroppo in Europa si parla di armi e poco di sociale, affermando che per esempio il tema della tassazione sulla gli extraprofitti è un tema che deve essere messo sul tavolo, così come la tassazione sulle rendite finanziarie, una tassazione che sia di solidarietà, che affermi il principio di solidarietà. Non a caso è stato detto prima del mio intervento che gli anni in cui le disuguaglianze si sono ridotte sono gli anni in cui le politiche economiche, dal dopoguerra fino agli anni Ottanta, erano contraddistinte da una redistribuzione della ricchezza e soprattutto anche da sistemi fiscali progressivi. Le politiche neoliberiste hanno fallito, purtroppo, lo dicono i dati sulla disuguaglianza. Quindi un ripensamento del sociale deve per forza, secondo noi, passare da un ripensamento del modello fiscale in un tema di coordinamento tra Stati. Poi la priorità per un contratto sociale mondiale per noi non può che essere il lavoro. Lavoro di qualità, quando noi diciamo lavoro ben retribuito, lavoro che afferma la sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, anche in temi in tema ambientale. Noi come organizzazione sindacale sono circa 3 anni che portiamo nelle piazze d’Italia due campagne, l’ultima l’abbiamo conclusa qualche settimana fa girando tutte le piazze delle maggiori regioni del Paese su due questioni fondamentali per noi per il lavoro. Dicevo, già dire che oggi va affermata la distinzione tra lavoro e il lavoro di qualità è già dire dove è andato oggi il lavoro, purtroppo, in diversi anni di politiche neoliberiste. Il lavoro è il tema del sociale, perché si allinea alla dignità della persona e al suo riconoscimento di cittadinanza sociale. Ognuno di noi ha il proprio riconoscimento, purtroppo è anche brutto dire una propria dignità nella società, se ha un lavoro. Poi abbiamo affrontato, come dicevo, due questioni fondamentali sul lavoro che sono la sicurezza e la salute. Abbiamo fatto una campagna “Zero Morti sul Lavoro” che ha avuto anche una eco di carattere internazionale. Abbiamo delle proposte che abbiamo avanzato al Governo nazionale, a tutti i governi e stiamo discutendo adesso, su cosa bisognerebbe fare per affrontare il tema della sicurezza in maniera importante, ricondurre attraverso anche la legislazione ad una responsabilità sociale le imprese. Noi quando parliamo di sicurezza e salute diciamo che deve essere istituito l’omicidio sul lavoro. Tre morti al giorno sono un numero inquietante per il nostro Paese. Cosa sarebbe successo se queste tre morti fossero state morti di mafia? Lo Stato ha reagito nel Novantadue, ha reagito con forza con una Procura Nazionale Antimafia. Noi chiediamo che ci sia una giurisdizione speciale su questo, perché molte volte le morti sul lavoro, anche quando sono omissioni gravi, omicidi, perché Luana D’Orazio credo che sia l’esempio, il profitto prevale sulla persona, si manomette un macchinario, muore una ragazza. Questo non può essere accettato, non è incidente sul lavoro, questa è morte sul lavoro e va perseguita. Sappiamo perfettamente che molte volte per le lungaggini della giustizia quelle responsabilità non vengono accertate e le famiglie rimangono sole. La questione degli appalti, dei subappalti a cascata, la questione della clausola sociale: sono temi che vanno messi al centro di un ragionamento che deve essere comune non soltanto nel Paese, ma anche sul piano europeo e chiaramente sul piano internazionale. Quindi due questioni fondamentali nella qualità del lavoro, la sicurezza e salute nei luoghi di lavoro e la stabilità del lavoro. Poi abbiamo fatto l’altra campagna, dicevo, “No ai lavoratori fantasma”. Oggi abbiamo tanti ragazzi, tanti giovani, anche ricercatori, che per la precarietà della loro condizione hanno la difficoltà ad accedere un muto, a prendere una macchina, a vivere in qualità la propria dimensione personale, umana e familiare. Noi affermiamo che non è possibile più precarizzarlo il lavoro. Tutta la selva di contratti atipici deve essere messa al bando e non è un’utopia, l’ha fatto la Spagna. Perché anche quando in Italia si dice che c’è una crescita del lavoro, se poi andiamo a sezionare i dati è la crescita di un lavoro precario, di un lavoro sottopagato, di un lavoro che non consente alle persone di poter vivere. E c’è la questione salariale. Le proposte che noi stiamo facendo sono molto chiare. C’è in Italia un tema di produttività, di redistribuzione della ricchezza. Allora, affermiamo l’importanza della contrattazione di primo e di secondo livello. Noi abbiamo chiesto al Governo, ma non solo al Governo attuale, ma anche ai precedenti, la detassazione sugli aumenti contrattuali, sui rinnovi contrattuali per incentivare la contrattazione di primo e secondo livello, perché è il tema fondamentale e nella contrattazione va anche dato riconoscimento al soggetto che contratta. Noi abbiamo circa 900 contratti pirata in questo Paese che vanno messi al bando, che non hanno rappresentanza. Noi chiediamo al Governo di intervenire sul tema della rappresentanza. Noi vogliamo ….. chiediamo che lo facciano tutti quanti, compreso le parti datoriali per legittimare la contrattazione che sia realmente rappresentativa del mondo del lavoro e in quel momento redistribuiamo la ricchezza spostandola dal capitale al lavoro attraverso la contrattazione di primo e di secondo livello che sappiamo essere carente nel Paese. Dunque, sul tema del lavoro c’è la questione della sicurezza che va affrontata, la questione della precarietà del lavoro che le politiche neoliberiste hanno fortemente, diciamo, intaccato, e il tema, come dicevo, del salario, un tema fondamentale che deve passare attraverso la contrattazione collettiva che sia realmente rappresentativa, attraverso una legge che supporti l’accordo interconfederale sulla rappresentanza. Siamo anche d’accordo al salario minimo, perché riconosciamo le nostre debolezze in un mondo del lavoro che è cambiato, si è discrepato, non c’è più la grande fabbrica. È chiaro che ci sono situazioni dove noi anche attraverso tutto il lavoro che possiamo fare in termini di contrattualistica riusciamo a incidere poco. Allora lì diciamo che sia fondamentale determinare un salario minimo che non è un’eccezione, ma ormai molti paesi lo hanno, che però sia legato ai contratti collettivi, cioè un minimo salariale legato al minimo tabellare dei rinnovi contrattuali. Questa è la proposta che noi facciamo anche sul tema del salario minimo, perché nel salario minimo ci sono poi aspetti che vanno oltre la questione retributiva, ci sono anche aspetti legati ai diritti e le tutele. Altra cosa la demografia. La demografia è un tema impattante. La demografia è un tema che riguarda i soggetti che probabilmente si siederanno al tavolo di quel momento di confronto che ci sarà a Doha. Demografia che però deve tenere insieme quattro aspetti, cinque aspetti fondamentali: la natalità; la famiglia (sostegno a natalità famiglia); il tema dell’invecchiamento attivo; il tema dell’immigrazione che non può essere affrontato come lo sta affrontando l’Italia, per esempio, ma anche l’Europa, un tema che è scaduto nella lotta politica. Questo noi abbiamo il compito, il dovere di riportarlo alla giusta narrazione per dare la giusta dimensione che sia di merito. In un Paese che invecchia velocemente, in uno Occidente che invecchia velocemente, è chiaro che noi possiamo fare tutte le politiche di sostegno alla natalità che vanno fatte – su alcune cose, per esempio, l’assegno Unico Universale condividiamo l’impostazione del Governo – però è chiaro che gli effetti di queste politiche li rivedremo tra qualche anno. Oggi c’è un tema fondamentale, i settori produttivi si stanno avvitando, c’è una emigrazione di giovani che lascia il Paese e l’altra questione è il riequilibrio territoriale. Su queste questioni, su questi quattro àmbiti della demografia, il Governo ha detto qualcosa nelle scorse settimane. È chiaro che ci deve essere un focus fondamentale che parte da un ragionamento che metta insieme politiche che guardano in maniera trasversale a questi settori e sostengano questo momento. L’altra questione, e chiudo veramente, è il tema dei servizi di cittadinanza, il tema pre-redistributivo, il tema della sanità, il tema del socio sanitario, il tema del sociale. Noi siamo dell’avviso che il terzo settore può svolgere un ruolo importante, certo, ma non può mancare certamente lo stato sociale in questo Paese, in Europa e nel mondo, perché serve lo Stato che mostri il volto sociale. Oggi ci sono tante persone che non si curano più per questioni economiche. C’è una sanità che si sta disgregando nella dimensione paese, non soltanto più al Sud, anche al Nord. Ci sono però delle risorse, c’è il piano nazionale, c’è la Missione 5, la Missione 6, c’è la legge sulla non autosufficienza, c’è la legge sulla disabilità, ci sono tutte questi impianti normativi di buona portata che però mancano delle risorse. Dunque il tema è quello delle risorse. Noi lo stiamo chiedendo anche al Governo nazionale sul tema della legge 33 sulla non autosufficienza, della disabilità. Quindi pensare ad una tassa di solidarietà su alcune questioni che vanno dalla sanità, perché la sanità oggi è il problema più percepito, più della guerra da parte dei cittadini e degli italiani, quindi è un tema che va affrontato. Con una spesa del 6,2% in rapporto al Pil la spesa sanitaria non è possibile certamente raggiungerla. Da questo punto di vista noi pensiamo che questo appuntamento vada alimentato, siamo disponibili anche a frequentare in maniera tematica di merito con le nostre proposte, abbiamo anche mandato un documento su cui far fronte comune sul piano chiaramente nazionale. Andiamo incontro anche ad una legge di bilancio a breve potremmo dire delle cose insieme per poi ragionare chiaramente in una dimensione più alta che è quella europea internazionale. Grazie.

 

Grazie, grazie anche del documento che ci ha mandato dalla UIL che esamineremo col Direttore Capasso. Allora, Raffaele Morese e poi Michele Colucci che è dell’Ismed.

 

Raffaele Morese: Grazie per l’invito e devo dire che quando Fara ha ricordato il suo cavallo di battaglia l’io globale, mi è venuto in mente che se avessi invitato Mask al mio posto, ti avrebbe risposto comprati il lo smartphone e frequenta X e sarai l’io globale, ti dico tutto io. Tu parli invece di un io globale consapevole, solidale ed è una sfida tremenda perché le tendenze sono tutte da un’altra parte come sai. Fare un contratto sociale mondiale, oltre che una sfida, può diventare un’utopia se non lo leghi ad una visione in progress dei risultati che puoi portare. Stiamo vivendo una fase di una trasformazione formidabile. Tutto quello è necessario, tutto quello va alimentato e non è la prima volta che il mondo ne discute delle questioni dell’uguaglianza, del lavoro equo, della sanità, della tutela. Ma la vera il vero buco nero che si sta formando oggi nel contratto sociale globale è la possibilità di attrezzare l’uomo ad affrontare tutto il nuovo che sta venendo avanti e questo lo può fare solo con un grandissimo sforzo di formazione. La parola formazione nel mondo si è fermata all’obbligo e non basta più. Per chi come me segue i problemi del lavoro è necessario affrontare il tema della Intelligenza Artificiale e allo stesso tempo la costruzione di un nuovo sviluppo sostenibile, visto che quello che abbiamo a disposizione è insostenibile. È l’uomo che va attrezzato bene, dobbiamo aprire degli spazi nuovi alla formazione. Oltre la scuola dell’obbligo tutto è affidato al singolo, la famiglia, lo zio, il parroco. In Italia l’orientamento professionale è inesistente e quindi con i buchi di gap fra domanda e offerta di lavoro tutta affidata al singolo. Bisogna introdurre nel nuovo contratto sociale mondiale uno spazio alla formazione e al sabbatico, un diritto al sabbatico per gli adulti che devono continuare a riformarsi. Solo se io posso dire, sono un vecchio sindacalista, ma credo che la deontologia è identica, solo se posso andare dal lavoratore a dirgli, guarda, la tua professionalità è morta non basta più la cassa integrazione. Non lo convinco. Gli devo dire, ti accompagno là, ti accompagno a quest’altra cosa, ma per poterlo fare ci vuole un’attrezzatura, ci vuole la possibilità per il singolo di potersi riqualificare quando e come vuole e ci vuole un’organizzazione della struttura che fa diventare sistemico il confronto fra domanda e offerta di lavoro sul territorio. Se si fa questo, acceleriamo finanche lo sviluppo dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale, dell’innovazione tecnologica, del passaggio dallo sviluppo incompatibile allo sviluppo compatibile. Se non si fa questo, spostiamo le date, lavoriamo a spostare date, un po’ più avanti, poi arriva la destra; arriva Trump che dice che non è vero che c’è la crisi ecologica. Il sabbatico, un periodo della vita del lavoratore disponibile per poter riqualificarsi e studiare finanziato in tripartito, una parte il lavoratore, una parte l’impresa e una parte lo Stato, che assicuri la possibilità al singolo di potersi riqualificare, reimmettersi nel mondo e continuare a lavorare. Io conosco molti della generazione dei millennials che lo fanno individualmente, appena capiscono che la propria professionalità si sta, come dire consumando, cercano un altro lavoro per migliorarla. Ma questi sono casi, posso citare casi. Non posso dire che esista un sistema che aiuta la gente a liberarsi dal rischio di perdere la propria professionalità. Se si fa questo penso che si faccia un passo in avanti sul terreno della solidarietà, come continua ad invocare Fara, e sulla possibilità di poter dialogare fra tutti i paesi in maniera diversa da come accade oggi.

 

Grazie Raffaele Morese che dirige presidente dell’Associazione Nuovi Lavori, siamo sulla sfida comune. Allora, la parola a Michele Colucci del Cnr-Ismed e poi Mattia Pirulli Segretario Confederale CISL, Giuseppe Iuliano e Christian Ferrari.

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Michele Colucci: Buongiorno e anch’io ringrazio il Dipartimento Scienze Umane e l’Eurispes per questa proposta e penso sia un orizzonte molto utile, molto fertile di possibilità per il mondo della ricerca, per il mondo del sindacato, per tutti i soggetti che si impegnano sulle tematiche che saranno poi all’interno di questa proposta del contratto sociale globale. Il mio intervento, come vedete, è incentrato sul tema della politica migratoria, un tema che è stato accennato anche in precedenza. Un tema strategico non soltanto per l’Italia, ma per tutta l’area mediterranea. Vedrete nelle slide lo sfondo del Mediterraneo, perché molti dei punti, dei nodi che cercherò di sviluppare partono da una specificità italiana, ma possono essere in realtà estesi a tutta l’area mediterranea che dal punto di vista della congiuntura migratoria presenta tratti di grande continuità all’interno di un contesto che è un contesto molto composito. Ecco, insisto fin dalla premessa, quando parliamo di politica migratoria, parliamo di una politica pubblica di livello nazionale e di livello internazionale che non è rivolta soltanto all’orizzonte dell’immigrazione straniera, ma è rivolta all’orizzonte della pluralità delle esperienze migratorie esistenti in Italia e nel Mediterraneo. Per esempio, è rivolta alle migrazioni interne, quindi agli spostamenti all’interno degli Stati nazionali ed è rivolta anche all’immigrazione verso l’estero a cui anche precedentemente è stato fatto riferimento. Quindi una politica migratoria ha un respiro capace di abbracciare queste diverse realtà e queste diverse specificità. Le condizioni minime per ripensare i rapporti tra politica migratoria e disuguaglianze sociali, naturalmente sono moltissime. Io ne indico soltanto tre per andare un po’ al centro anche della nostra discussione. La prima è l’obiettivo, l’orizzonte di rimettere al centro dell’agenda politica nazionale e internazionale il tema della politica migratoria, assunto come orizzonte strategico per il Governo dei processi di sviluppo e per il contrasto alle disuguaglianze sociali. Il secondo è quello della necessità ormai impellente di superare un approccio esclusivamente sicuritario al Governo delle migrazioni, un approccio che impedisce di individuare tutte le potenzialità insite nella dinamica migratoria e soprattutto rimanda indistintamente l’appuntamento con la necessità e l’importanza di pianificare i fenomeni di mobilità. Il terzo, molto importante, soprattutto nella logica dell’incontro che ci sarà in Qatar, è l’importanza e la necessità di connettere la politica migratoria alla politica economica, lo abbiamo sentito prima, alla politica sociale, anche questo abbiamo sentito gli interventi precedenti, e alla politica estera. Politica migratoria è uno spazio in cui si intrecciano diversi attori pubblici e una politica migratoria capace di funzionare ha il coraggio e ha la prospettiva di partire da questa pluralità anche di competenze istituzionali non soltanto a livello nazionale ma anche a livello internazionale. Questo è un breve schema per capire, per condividere le fasi in cui si è sviluppata dal Quarantacinque ad oggi la politica migratoria a livello nazionale e a livello internazionale, fasi segnate inevitabilmente da momenti di apertura e momenti di grande crisi. Abbiamo, come vedete, una prima fase, quella tra il Quarantacinque e la crisi petrolifera del Settantatré in cui, effettivamente, grazie anche alla novità dell’integrazione europea, grazie a nuovi soggetti capaci di giocare un ruolo importante a livello multilaterale, come per esempio le agenzie dell’ONU che saranno immagino protagoniste dell’incontro in Qatar, si è effettivamente sviluppata una politica migratoria di ampio respiro anche internazionale, che ha saputo costruire una visione comune, pur tra tanti conflitti inevitabili e tra tante difficoltà, però ha saputo avviare una stagione, per esempio, di accordi bilaterali e di accordi internazionali che hanno effettivamente in parte dato una cornice di Governo a un fenomeno così complesso e così estremamente diffuso in questi anni come quello delle migrazioni. Poi c’è una fase di interruzione tra il 1973 e il 1989, una fase in cui l’impatto della …. internazionale interrompe questo grande processo di multilateralismo e questo processo di cooperazione e costruisce un livello molto più di restrizione, soprattutto di chiusura delle frontiere in tutto il mondo, non soltanto in Europa, che è in parte superato dai fatti del 1989. Dopo l’89 si apre un ventennio, a seguito della caduta del muro di Berlino, in cui si definisce una nuova stagione di protagonismo anche degli attori multilaterali e si va effettivamente a costruire sia con accordi bilaterali sia con politiche migratorie nazionali di ampio respiro, un orizzonte nuovo di grande cooperazione che poi nuovamente viene interrotto da un’altra crisi economica, la crisi economica internazionale del 2008 che si intreccia con un fenomeno di portata globale come quello delle primavere arabe e l’impatto importante di questi due fenomeni crea la dinamica che conosciamo negli ultimi 15-20 anni, cioè il collasso delle politiche migratorie internazionali, la difficoltà, l’incapacità di individuare un orizzonte di intervento di ampio respiro capace anche non soltanto di intervenire sui fenomeni in sé, ma anche di immaginare una pianificazione. La politica migratoria serve solo all’immigrazione straniera? Questa è una grande domanda che dobbiamo farci e che dobbiamo immagino anche portare al vertice in Qatar. La risposta è no. Sia perché, come ho detto prima, quando parliamo di politica migratoria, parliamo di una pluralità di interventi degli attori pubblici che non è rivolto soltanto all’immigrazione straniera, ma anche perché l’impatto di una politica migratoria capace effettivamente di accompagnare i processi sociali economici ha poi dei benefici su tutta la popolazione. Per esempio, riduce i differenziali salariali, lo abbiamo detto anche precedentemente nell’intervento che mi ha preceduto, riduce in maniera importante differenziali salariali promuovendo filiere di lavoro regolare. Rafforza inevitabilmente la coesione sociale andando a disinnescare quelle conflittualità endemiche all’interno dei movimenti di popolazione e soprattutto riesce a estendere in maniera diffusa l’accesso ai diritti sociali, soprattutto una politica migratoria capace di intervenire sul fenomeno delle immigrazioni interne, su cui mi soffermerò prossimamente, un grande fenomeno mediterraneo. Noi abbiamo sott’occhio l’Italia, un Paese di grandissimi divari territoriali e quindi di grandissime mobilità tra aree urbane, aree rurali, anche come diceva prima Paolo, ma anche tra Sud e Nord. E una politica migratoria capace di accompagnare anche gli spostamenti tra le grandi ripartizioni geografiche, può anche ridurre in maniera importante i divari territoriali, anziché rafforzarli. Quali sono quindi le migrazioni di cui si deve occupare una politica immigratoria nel caso italiano, ma come dicevo prima, estendendo anche il discorso a molti altri paesi mediterranei, sia della sponda nord sia della sponda sud. Innanzitutto il tema dell’immigrazione straniera che naturalmente non può essere sottovalutato. Oggi in Italia vivono circa 5.300.000 cittadini stranieri residenti regolarmente nel nostro Paese. Più di un milione di cittadini stranieri hanno acquisito negli ultimi 20 anni la città italiana e quindi è un segmento, è una fetta di popolazione che naturalmente ha le sue specificità anche molto diversificata, molto plurale al suo interno. si è parlato ultimamente, per esempio, delle seconde generazioni, dell’importanza di questo pezzo di popolazione che naturalmente necessitano di idonee politiche anche a livello di inclusione sociale e cittadinanza. Ma poi c’è l’immigrazione verso l’estero, un serbatoio che ha superato ormai i 6 milioni di persone, quindi vedete poi i dati, appunto, proprio di statistica, quanto sono importanti in un Paese dominato da un dibattito assillante sull’immigrazione straniera dobbiamo sempre tenere presente che c’è un mondo di cittadini italiani emigrati fuori dai confini nazionali spesso molto dimenticato dalle politiche pubbliche che invece potrebbero rappresentare da molti punti di vista un orizzonte di destinazione di politiche pubbliche che potrebbero sostenere anche il contrasto alle disuguaglianze sociali. E poi le migrazioni interne. In questa tripartizione, le migrazioni interne, fenomeno strutturale all’economia e alla società italiana, dopo la crisi del 2008 sono aumentate notevolmente. Le statistiche ci dicono che soltanto dal Sud al Nord ci sono circa 1 milione di cittadini che si sono trasferiti cambiando la propria residenza, quindi sapete chi cambia la residenza è soltanto una piccola parte di chi si muove e quindi siamo dentro movimenti molto importanti che necessitano sicuramente di politiche ad hoc. Andiamo a vedere quindi qualche possibile indicazione operativa, qualche possibile indicazione concreta, mettendo insieme l’importanza della politica migratoria come strumento alle disuguaglianze sociali. Parliamo innanzitutto di immigrazione seguendo lo schema tripartito, abbiamo detto prima, mettendo al centro un tema che stato già accennato in precedenza, cioè l’emersione del lavoro irregolare e sommerso che tra l’altro ha rappresentato un’importante richiesta del gruppo di lavoro dell’ONU sulle imprese e i diritti umani negli ultimi 5 anni, sono arrivate impellenti richieste di intervento rispetto a questo. Il beneficio naturalmente dell’aumento della regolarizzazione del lavoro sommerso è un beneficio che poi si estende a tutto il mercato del lavoro e a tutta l’economia e a tutta la società. L’attività di contrasto alle discriminazioni, secondo quello che l’ONU ha indicato ripetutamente nel comitato dei diritti umani, un orizzonte che non può essere sottovalutato perché ne va dell’equilibrio e della coesione sociale. E poi un altro tema su cui insistere inevitabilmente, che è un tema che non può essere risolto solo a livello nazionale, ma anche a livello internazionale, l’apertura di canali legali per garantire la possibilità a chi si vuole muovere di muoversi in sicurezza, sia per i migranti che si muovono alla ricerca di un lavoro, sia per i richiedenti asilo e i rifugiati. Anche questa è stata una grande richiesta dell’ACNUR e dell’OIM soprattutto, ma anche dell’OIL, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro di cui si parlava precedentemente, che deve rientrare in maniera forte a mio avviso, all’interno di una prospettiva di contratto sociale mondiale. Emigrazione. Perché la politica migratoria deve e ha l’importanza e la necessità di guardare anche ai cittadini residenti all’estero. Questo nel caso italiano, ma come vi dicevo è un tema che riguarda molti paesi mediterranei. Innanzitutto perché all’interno, diciamo, dell’individuazione comunque di una politica migratoria bisogna prendere in considerazione la tutela anche del lavoro, per esempio, dell’italiano all’estero nel caso dell’Italia e la necessità di inserire all’interno della cornice sociale e del diritto del lavoro anche la tutela di chi lavora fuori dai confini nazionali e che molto spesso presenta enormi lacune, soprattutto a livello fiscale e a livello contributivo, ma anche a livello di diritti minimi sul lavoro, perché noi spesso siamo abituati a immaginare italiani all’estero soltanto dentro l’orizzonte l’immaginario del ricercatore qualificato, del tecnico, invece c’è anche un’altra qualifica molto diffusa di più basso livello da tutelare. Poi naturalmente tutti quei percorsi di formazione che possono migliorare le prospettive di internazionalizzazione delle giovani generazioni e poi i percorsi finalizzati al ritorno. Quando si parla di politica migratoria è giusto anche mettere a tema l’importanza di governare, di accompagnare, di sostenere i processi di ritorno. Concludo con le migrazioni interne che rappresentano probabilmente un tema di grandissima attualità, anche questo poco sviluppato nel dibattito pubblico, perché sulle migrazioni interne probabilmente gli strumenti operativi possono essere anche più facili da essere introdotti e ad esempio hanno a che fare col sistema dei trasporti, col sistema della mobilità. C’è una mobilità pendolare in Italia molto molto penalizzata che spesso è agita proprio da migranti interni che hanno in genere anche enormi problemi nell’impatto con il mercato del lavoro e con la questione abitativa. È stata molto citata precedentemente il tema della formazione della scuola. Ecco, oggi noi dobbiamo sapere che una parte importante del personale docente delle scuole italiane è personale migrante. Sono persone che si spostano dal Sud, al Nord dell’Italia generalmente e che hanno enormi problemi in questa migrazione a livello abitativo, a livello salariale, a livello retributivo e con alcuni piccoli interventi ad hoc potrebbero risolvere facilmente questi problemi. Naturalmente la questione del fenomeno del caporalato che riguarda una migrazione interna spesso di origine straniera che apre ovviamente una questione gravissima legata allo sfruttamento e legata anche all’impatto più grave a livello di necessità di emersione all’interno del mercato del lavoro. Allora, concludo con questo esempio, con questo doppio canale. Le disuguaglianze sociali spesso, come vedete a sinistra, sono all’origine delle migrazioni di massa, ma molto spesso in assenza di una politica migratoria le migrazioni di massa determinano nuove disuguaglianze sociali. L’Italia della storia recente purtroppo molto spesso propone questo schema, uno schema quindi in cui le migrazioni sono stritolate dall’orizzonte della disuguaglianza. C’è stata però una stagione, io cito qui l’Italia 1958-1973, cioè l’Italia soprattutto delle grandi migrazioni interne in cui anche con il supporto fondamentale del sindacato, con un grande lavoro anche la società civile, con politiche anche innovative supportate da grandi mobilitazioni dal basso, l’Italia ha vissuto grandi migrazioni di massa come conseguenza di disuguaglianze sociali, ma queste migrazioni di massa si sono trasformate in una stagione di allargamento dei diritti sociali, non di ripiegamento dei diritti sociali. Forse lo statuto dei lavoratori del 1970 ottenuto grazie alle lotte dei lavoratori immigrati nell’Italia del Nord è l’esempio più lampante di questa dinamica di allargamento. Grazie, penso che le indicazioni siano molte e lascio la parola agli altri.

 

Grazie veramente, sono indicazioni utilissime. Allora, Giuseppe Iuliano, grande esperto internazionale della CISL, che rappresenta la CISL nelle sedi più importanti e poi Christian Ferrari della CGIL. Dopodiché ci sono già diverse domande.

 

Giuseppe Iuliano: Bene, grazie. Il fatto di sostituire, come avete visto nel programma, il segretario confederale Pirulli, consente a me che mi occupo delle relazioni sindacali internazionali da tutta la vita di portare sulla scena in questo momento, ma anche per aggiungere qualche riflessione, qualche considerazione su un soggetto importante che è il sindacato internazionale, molto poco conosciuto, non siamo sul mainstream, non ci conosce il grande pubblico, non ci conosce perché la televisione e i grandi mezzi non si occupano di queste cose, ma permettetemi di dire due o tre battute su questo. Prima di tutto. Nuovo contratto sociale globale nasce dal sindacato internazionale che per la prima volta durante la fine degli anni Novanta, all’inizio del Duemila, comincia a ragionare, a proporre una riflessione sull’esigenza di un nuovo contratto sociale globale. In quegli anni già il sindacato internazionale sta incontrando il Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale come unico soggetto globale capace di interloquire con queste Istituzioni e mettere in discussione quelle che erano le manovre di aggiustamento strutturale dell’economia che proponeva il Fondo Monetario Internazionale. Nel 2006 poi quando c’è stata la convergenza tra le due grandi famiglie, la Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi e la Confederazione Sindacale cristiana nel mondo, grandi presenze in America Latina, grandi presenze in Africa, quando si riunisce, si definisce la Confederazione Internazionale dei Sindacati, il segretario generale Guy Rider, un britannico che diventerà da lì a qualche anno direttore generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, per la prima volta non una persona che viene dai governi, ma che viene dal mondo sindacale internazionale, assurge a questo ruolo importantissimo, diventa Direttore Generale dell’OIL e si comincia a proiettare una riflessione sulle questioni del lavoro all’interno delle grandi agenzie dell’ONU. Qualcuno comincia a guardare all’OIL che come sapete è un’agenzia tripartita, non ci sono solo i governi, ma ci sono i rappresentanti degli imprenditori, i rappresentanti dei sindacati che governano, che legiferano. Ogni anno a giugno c’è una conferenza in cui si stabiliscono delle leggi, delle convenzioni che di fatto entrano nelle legislazioni nazionali di tutti i paesi che sono all’interno dell’OIL. Quindi un meccanismo di relazione con le Nazioni Unite attraverso l’OIL è importante da riportare oggi in questa sede, perché c’è stato tanto lavoro intorno a queste cose. Le iniziali interlocuzioni con le Istituzioni finanziarie internazionali continuano ogni anno. Qui con me oggi c’è Christian Ferrari, con il quale siamo stati insieme quest’anno ad incontrare il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale con una delegazione del sindacato mondiale e per la prima volta abbiamo visto interdetti il Presidente della Banca Mondiale e il Presidente del Fondo Monetario Internazionale di fronte al fatto che Washington, il Presidente degli Stati Uniti è il primo che sta mettendo in discussione quel multilateralismo e addirittura queste Istituzioni che sono state funzionali alla logica dell’organizzazione del mondo fino ad oggi. Noi ogni anno incontriamo queste Istituzioni. Che dire di più? Sono gli anni in cui abbiamo assistito alla trasformazione antropologica sociologica del lavoro. Fine del legame tra diritto di cittadinanza o cittadinanza stessa e lavoro. Non c’è più il lavoro che ti accompagna per tutta la vita, si cambia lavoro, non c’è più nessun legame tra lavoro e territorio dove si può sviluppare, come dire, il benessere, la famiglia e l’essere umano, la persona, la centralità della persona. Tutto questo è stato legato al cambiamento generale della produzione, fine del sistema taylorista, produzione just in time. Forse l’ultima esperienza in cui abbiamo visto un investimento legato al sistema taylorista era la Fiat a Cordova in Argentina. Lo stesso impianto che c’era a Melfi veniva portato in Argentina. Quell’impianto prevedeva una proiezione almeno di 20 anni e cioè si costruivano intorno alla Fiat, asilo nido, centri commerciali che aiutavano lo sviluppo delle famiglie, complessivamente della persona umana. Fine, completamente cancellato. Due, tre anni dopo nel 2001 la Fiat stava togliendo tutto e scappando. Ricordo che andammo di corsa per cercare di fermare la Fiat, si fermò un po’, ma poi cambiò, si mossero. La produzione di just in time modifica completamente tutto questo. Allora, qual è l’organizzazione? Raffaele Morise ha detto così interessante: bisogna cambiare il nuovo contratto sociale globale. Non deve tenere al centro delle sue riflessioni il lavoro, ma i lavoratori. Noi dobbiamo semplicemente pensare a un sistema di formazione garantito, generale, forte che aiuti a cambiare anche il lavoro, a risistemarsi in qualche modo; deve essere a beneficio delle persone, non sicuramente del lavoro, che è un lavoro che cambia oggi con l’Intelligenza Artificiale, coi lavori sulle piattaforme, eccetera. Un po’ di sperimentazione era stata fatta all’inizio degli anni 2000, fine anni Novanta con la famosa Flex Security che funzionava perché si faceva in Danimarca con 6 milioni di persone, era molto semplice. Ricordo che all’epoca lavoravo già un po’ con l’università e in una tesi che provava ad analizzare la possibile applicazione la Flex Security in Italia si diceva è impossibile con 60 milioni di persone riuscire a fare lo stesso. O si pensa a questo in termini globali o non c’è più il sistema di lavoro e di sviluppo che abbiamo conosciuto per un secolo. Quindi è evidente che noi dobbiamo pensare a questo, a come attraverso quindi il ruolo degli Stati, attraverso il ruolo dei governi, garantire che ci sia un reddito capace di sostenere i cittadini, i lavoratori nel momento in cui devono cambiare più volte lavoro all’interno del proprio percorso di vita professionale. C’è stato un altro momento interessantissimo, il centenario dell’organizzazione internazionale dell’OIL 2019 poi ci si è un po’ persi in questa riflessione perché è venuta la pandemia eccetera. Per 3 anni si è preparato il centenario dell’OIL proprio per riflettere sul cambiamento antropologico e sociologico del lavoro, sulle esigenze che c’erano. C’è un documento eccezionale che è stato preparato dall’OIL, preparato per 3 anni in cui si analizzano i cambiamenti sociologici del lavoro, anche antropologici, e si riflette su che cosa può essere il futuro. Tra l’altro chi dirigeva il gruppo di lavoro era Giovannini, un italiano, una delle riserve della Repubblica. Quindi faccio riferimento a questo documento che va assolutamente, lo dico a Marco Ricceri, preso in considerazione per le analisi che si stanno facendo in vista di questo vertice sociale. La competenza nazionale dei sindacati, quindi rappresentando oggi in maniera compatta, seria, forse rappresentando uno dei pochi soggetti interlocutori delle grandi istituzioni internazionali, si incontra è uno dei cosiddetti engagement groups delle piattaforme di governance globale che sono G7 e il G20. Ecco, noi parliamo di vertice sociale dell’ONU sapendo bene che l’ONU non funziona, perché c’è il consiglio di sicurezza bloccato dal diritto di veto, però ci sono delle piattaforme di governance globali e si chiamano G7 e G20. Attenzione, mentre il G7 perde sempre di più, perché sostanzialmente rappresenta dei paesi che sono alleati e che discutono ……… il Presidente Trump si discosta in qualche maniera in discussione anche concetto di Occidente, però il G20 è l’unica piattaforma globale in cui sono rappresentati, diciamo, i due grandi poli di oggi che sono da un lato G7, Occidente, per così dire, sempre tra virgolette considerando il ruolo di Trump, e dall’altra parte i paesi BRICS, Brasile, Russia, Cina, India, Sudafrica, che non sono solo questi cinque paesi, ma sono diventati già 12 e con 20 paesi in sala d’attesa e questa aggregazione rappresenta il 47% della popolazione mondiale, già il 36% dei prodotti interno lordo del mondo, quindi è il vero nuovo bipolarismo. Però attenzione, nel G20 tutti questi paesi sono insieme e mentre noi pensiamo che loro discutano solamente della plastica nei mari, perché di questo si discute molte volte, in tutti gli incontri del G20, degli ultimi 3 anni, per esempio, si sono sempre incontrati il Ministro degli esteri russo Lavrov e il segretario di Stato americano Blinken, per parlare anche di Russia, Ucraina, di conflitti e cose del genere. Quindi è l’unica piattaforma globale che funziona, dove ci sono posizioni, paesi e culture diverse. Il sindacato internazionale è un interlocutore di questi e abbiamo avuto fortunatamente presidenze quando le presidenze sono ispirate, aperte socialmente, noi abbiamo avuto la presidenza del G20 nel 2021 e c’era il Governo Draghi, Presidenza italiana, siamo riusciti ad interloquire addirittura facendo delle proposte come sindacato internazionale per modificare, per far inserire riferimenti, per esempio, sul lavoro delle donne all’interno dei documenti che hanno poi firmato anche paesi come Indonesia, Arabia Saudita che hanno una concezione culturalmente agli antipodi rispetto al ruolo della donna e al lavoro della donna. Però in quelle realtà il sindacato internazionale è riuscito a far modificare documenti. Può essere una strada o quantomeno è l’unica strada percorribile quando parliamo di contesto globale, di Nazioni Unite, di organizzazione delle Nazioni Unite e del possibile ruolo dei soggetti sociali, di un soggetto importante come sindacato internazionale in vista di questo vertice sociale. Spero che qualche considerazione di questa possa essere utile per la riflessione generale di tutti. Grazie.

 

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Ma questa conferenza, come si diceva col Direttore Capasso e come diceva Presidente Fara, ha proprio l’obiettivo di mettere poi alla fine a valor comune progetti, esperienze, casi da sostenere a livello internazionale. Allora, Christian Ferrari, Segretario Confederale della CGIL e poi le domande e risposte.

 

Christian Ferrari: Allora, intanto buongiorno a tutte e a tutti. Io ringrazio molto dell’invito e soprattutto ringrazio per aver organizzato questo momento di discussione, di confronto che ritengo davvero utile e anche molto importante. Prima di entrare nel merito delle questioni, anche per non ripetere le tante considerazioni condivisibili che sono state fatte dai relatori che mi hanno preceduto, io penso che non si possa prescindere dal fatto che il prossimo vertice sociale dell’ONU cade in un momento storico, in un contesto globale particolarmente difficili per usare un eufemismo. La situazione geopolitica è a dir poco preoccupante, sia per quanto riguarda i conflitti armati veri e propri che invece di risolversi si moltiplicano e si aggravano nel mondo e sia per quanto riguarda anche la guerra commerciale in corso che è sostanzialmente stata scatenata dalla politica dei dazi portata avanti dalla nuova amministrazione americana. Ed è del tutto evidente che entrambi questi fattori siano oggettivamente incompatibili con gli obiettivi di inclusione sociale, di superamento della povertà, di promozione del lavoro dignitoso e della piena e buona occupazione che il vertice di Doha si propone appunto di discutere e di sostenere. Le ragioni sono molteplici. La prima, vado in estrema sintesi, brutalizzando anche, forse, consiste nel fatto che le conseguenze delle guerre non vengono mai pagate da chi le dichiara, ma sempre dalle lavoratrici, dai lavoratori e dalla popolazione civile. Ed è chiaro che in un simile contesto qualunque prospettiva di sviluppo economico e sociale viene meno innanzitutto per i paesi direttamente coinvolti dai conflitti. Ma poi sappiamo bene come le conseguenze delle guerre si facciano sentire anche nei paesi che non sono direttamente coinvolti. Basti pensare alla fiammata inflattiva che in questi anni ha brutalmente impoverito particolarmente nel nostro Paese, ma non solo, tantissimi cittadini che vivono di salario di pensione. C’è una questione salariale grande come una casa in Italia, non solo in Italia, ed è il punto, il cuore di quella distribuzione funzionale primaria del reddito che ha preso una dimensione e una direzione negli ultimi 30 anni che comprime sempre di più la quota lavoro con conseguenze anche in termini di equilibrio di tenuta complessiva dei sistemi economici o pensiamo anche all’impennata dei prezzi e dei costi energetici che rende, tra le altre cose, meno competitive anche le nostre imprese. Per questo riteniamo che il primo contributo che possiamo dare in vista del vertice in Qatar, sia come forze sociali che come Paese, consiste innanzitutto nell’adoperarci per togliere la parola alle armi in tutti i fronti che sono aperti e per restituirla finalmente alla politica e alla diplomazia. Per quanto invece riguarda la guerra commerciale, riteniamo che innanzitutto a livello europeo occorra prendere atto della fine della globalizzazione, almeno per come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, e del contemporaneo tramonto di un modello di sviluppo che negli ultimi decenni è stato tutto orientato alle esportazioni e questo ha creato anche delle tensioni e degli squilibri a livello mondiale e soprattutto che è stato fondato sull’austerità interna e sulla svalutazione competitiva del lavoro, contribuendo anche questo ad alimentare quella dinamica di fondo che citavo poco fa. In estrema sintesi, noi pensiamo che anche di fronte alle spinte neo protezionistiche che sono in corso, sia necessario superare una strategia mercantilistica, che poi è l’altra faccia della medaglia del protezionismo e puntare sulla domanda interna con politiche che rimettano al centro il lavoro sicuro, stabile e ben retribuito e il rafforzamento di un sistema di welfare e protezione sociale che sia all’altezza dei bisogni dei cittadini e soprattutto che sia in grado di curare le ferite del nostro tempo. Un welfare che peraltro è stato per lungo tempo la cifra direi della civiltà del vecchio continente e anche un contributo, un modello, un esempio di riferimento, a livello globale, ma che nel corso degli ultimi anni direi che è diventato sempre meno pubblico e sempre meno universalistico, privando le persone, soprattutto le più deboli economicamente e anche le più fragili socialmente, di fondamentali sicurezze e diritti sociali a partire dal diritto alla salute, a partire dall’istruzione, ma non solo. Questa è la direzione che dovremmo prendere e invece oggi, come se non fossero già bastate le politiche di austerità, si sta delineando un nuovo pericolo all’orizzonte che potrebbe questo sì infliggere il colpo di grazia, diciamo così, al modello sociale europeo. Mi riferisco, evidentemente, all’insostenibile corsa al riarmo che è stata decisa prima a livello di Unione europea e poi a livello di Alleanza Atlantica. Ecco un altro contributo che possiamo portare a quel vertice, non accettare la logica delle armi ed evitare in ogni modo che le spese militari sottraggano risorse fondamentali non solo a quelle sociali, ma anche agli investimenti, alle politiche industriali che sono invece indispensabili per affrontare le sfide cruciali del nostro tempo, dalla transizione digitale, alla conversione ecologica dei nostri sistemi produttivi. Sulla prima sfida, quella dell’innovazione, dovrebbe essere ormai più che matura la consapevolezza che la rivoluzione tecnologica non può essere lasciata al solo mercato, ma che invece va governata e indirizzata dalla politica con l’obiettivo fondamentale di democratizzarla e soprattutto di socializzarla. Detta in altri termini, l’aumento potenzialmente enorme della produttività in conseguenza dei processi di automazione, di digitalizzazione e così via non può continuare ad essere appannaggio del solo capitale come, di fatto, sta avvenendo ora. Pensiamo solo alle piattaforme e a giganti del Web che si autorappresentano come i campioni della modernità e dell’innovazione, ma che poi in realtà sono la riproposizione in chiave moderna di un vecchio capitalismo monopolistico e, permettetemi l’espressione, anche parassitario. Nei confronti del lavoro non ne creano, anzi; nei confronti delle stesse imprese normali che sono subordinate anch’esse a quel sistema di potere economico e nei confronti degli Stati a partire dai doveri di solidarietà fiscale a cui sfuggono in maniera assolutamente inaccettabile. E da questo punto di vista condivido le considerazioni che faceva Santo Biondo prima, è davvero una pessima notizia la decisione del recente G7 di esentare le multinazionali statunitensi, Big Tech comprese, dalla tassa minima globale del 15%. Se nemmeno un livello così basso di tassazione è considerato accettabile, voi capite come sia molto complicato immaginare qualunque possibilità di riequilibrare un sistema che ormai è diventato oggettivamente insostenibile da ogni punto di vista. Lo dimostra un semplice dato proprio degli scorsi giorni che voglio citare, lo prendo da Oxfam: negli ultimi 10 anni l’1% più ricco del Pianeta ha guadagnato qualcosa come 33.900 miliardi di dollari, un ammontare superiore di ben 22 volte alle risorse che sarebbero sufficienti per riportare sopra gli 8,30 dollari al giorno il reddito di quella parte della popolazione mondiale che vive sotto la soglia di povertà. Ecco, abbiamo bisogno di andare in direzione esattamente opposta. Temi come la riduzione dell’orario di lavoro, la creazione diretta e la redistribuzione del lavoro, la tassazione dei grandi profitti e dei grandi patrimoni, sono tutti i nodi che la politica, a tutte le latitudini, ma soprattutto a livello internazionale, pensiamo non possa più eludere. La seconda sfida a cui accennavo, quella della conversione ecologica e della decarbonizzazione, ha a che fare, direi, con l’ennesimo nemico dello sviluppo sociale che è, appunto, un cambiamento climatico che rischia di rendere inabitabili parti sempre più vaste del Pianeta con tutte le conseguenze che sappiamo e che rappresenta una delle più grandi minacce alla sopravvivenza stessa. È stato detto giustamente non del mondo della natura, ma solo della specie umana. E anche da questo punto di vista direi che la corsa riarmo è il contrario di quello che serve. In definitiva, pensiamo che vada assolutamente scongiurata la conversione delle nostre economie in economie di guerra, che dobbiamo concentrare tutte le risorse e gli investimenti per la transizione green e per l’innovazione tecnologica a partire dai nostri sistemi produttivi e che bisogna lavorare instancabilmente per un mondo che ormai è irreversibilmente multipolare e che proprio per questo non può che fondarsi sulla convivenza pacifica e sulla cooperazione per crescere in maniera equilibrata e sostenibile sia dal punto di vista sociale che dal punto di vista ambientale. Infine, a partire da queste considerazioni, venendo proprio per un attimo al merito più specifico dei temi all’ordine del giorno del vertice, la CGIL ovviamente condivide e sostiene la proposta dell’.. nei suoi punti fondamentali, quelli che ormai conoscete, dalla promozione della democrazia e dei diritti umani, al multilateralismo, dalla protezione sociale universale, al salario di sussistenza, eccetera eccetera, e direi che nonostante tutti i problemi che ho elencato in questo mio contributo, credo che ci siano anche altrettante ragioni di speranza che dobbiamo soprattutto trasmettere alle persone e ai lavoratori in particolare. Viviamo in un’epoca in cui, grazie proprio al progresso scientifico e tecnologico, disponiamo, mai come in passato, di tutta la conoscenza necessaria per affrontare le tante crisi che sono in corso e soprattutto per tornare a produrre reddito e benessere da distribuire con equità sia all’interno dei nostri paesi che tra le diverse aree del mondo. Per riuscirci però, lo ribadisco, la conoscenza e la tecnologia vanno messe al servizio di tutte e tutti, evitando che vengano utilizzate, come è accaduto fin qui, per concentrare potere e profitti in pochissime mani. E questo io penso sarà possibile non attraverso decisioni illuminate e magari calate dall’alto, ma solo grazie al coinvolgimento, alla partecipazione e al protagonismo collettivo dei lavoratori e dei cittadini. Coerentemente con questa impostazione, anche all’appuntamento del prossimo novembre non può restare chiuso nelle stanze del vertice come se si affrontassero questioni riservate agli addetti ai lavori ma va, per quanto possibile, socializzato e vissuto collettivamente, anche perché parliamo di questioni polisticissime che poi incidono sulla carne viva di tutte le persone e noi, in conclusione, abbiamo bisogno di un grande ritorno della politica a tutte le latitudini e, più precisamente, abbiamo bisogno del ritorno del primato della politica innanzitutto sull’economia e sulla finanza. Le forze politiche, le forze sociali, il mondo della scienza, il mondo della cultura, le istituzioni democratiche, devono riprendere in mano il controllo e il governo reale dei processi economici e sociali, perché non basta, evidentemente, la mano invisibile del mercato a garantire progresso e giustizia sociale. Questa non è un’opinione, penso di poter dire che ormai è un’evidenza fattuale più che confermata, soprattutto dai risultati degli ultimi 30 anni. Ed è proprio in questa direzione, insieme agli altri soggetti della rappresentanza sociale che vogliamo impegnarci e dare il nostro contributo per far sì che quel vertice che si terrà all’ONU dia davvero un segnale soprattutto di controtendenza e di cambiamento di cui il mondo, tutto il mondo, ha urgente bisogno, soprattutto di questo tornante storico così difficile.

 

Grazie, grazie a tutti i relatori che sono intervenuto finora. Adesso se ci sono domande. Io ho una registrazione di Paolo Motta che ha fatto un manifesto da presentare alle Nazioni Unite. Poi passiamo al collegamento con la sessione in inglese. C’è qui già in sala il direttore della Associazione Internazionale sulla qualità sociale e avremo in collegamento tre esperti dall’Inghilterra, dall’India e dall’Ucraina. Nel frattempo, il Direttore dell’Istituto di Economia dell’Accademia delle Scienze ci spiega in 5 questa iniziativa del Manifesto. Se c’è qualche domanda, altrimenti poi passiamo collegamento in inglese.

 

Paolo Motta: Ringrazio dell’invito e dell’occasione di poter parlare di un argomento che praticamente è quasi tabù. Un argomento che seguo da molti anni, in moltissime sedi, tra cui anche il gruppo di lavoro sugli obiettivi di sviluppo sostenibile e quella del riequilibrio territoriale che vuol dire anche riequilibrio sociale. L’equilibrio territoriale urbano rurale è praticamente ignorato da tutte le agenzie, è ignorato da tutte le COP, è ignorato da Agenda 2030 che ormai è vecchia perché è pre-Covid, precrisi alimentare, precrisi energetica, precrisi bellica, quindi tutti i 17 obiettivi non hanno mai preso in considerazione questo fatto. La realtà è che ad oggi su 10 miliardi di popolazione, più o meno, 7 miliardi e mezzo, 75% vive in aree urbane, di cui il 25%, più o meno, quindi parliamo di circa 1 miliardo e mezzo, 2 miliardi di persone, vivono in condizioni, in quartieri marginali, in slums, e sono tutti frutto di immigrazioni, migrazioni internazionali e immigrazioni interne. Questo argomento, non si sa perché, ogni volta che viene proposto viene accantonato. Quindi io ritengo che nelle nostre società, come ha detto la Professoressa Magino, con cui anni fa abbiamo seguito il discorso degli indicatori, non solo indicatori socio-economici, ma indicatori soggettivi del benessere, abbiamo tentato, ma l’esperimento anche in quel caso è stato più o meno stoppato. È evidente che le nostre società, io direi quelle occidentali, sono stremate, perché io viaggio molto e posso dire che le società fuori il G7 sono molto meno stremate di noi e vedono in un’ottica diversa. Da circa un anno, un anno e mezzo, sulla base di studi comuni, non comuni, eccetera, con tutto un gruppo di esperti indipendenti abbiamo preparato un manifesto da sottoporre all’attenzione del prossimo vertice sociale mondiale di novembre, perché non ci può essere un contratto sociale se non c’è questo argomento infilato dentro. Prima si è parlato dell’immigrazione, immigrazione che può essere non soltanto internazionale, ma anche intesa come pendolarismo interno. Per quale motivo bisogna vivere tutti quanti stressati qua dentro, quando puoi vivere anche in campagna e ad appena un’ora puoi vivere benissimo. Il Covid è stata la dimostrazione delle previsioni nostre al 2040-2050, ha accelerato tutto. Grazie al telelavoro, ai servizi sociali a distanza, al tempo libero a distanza, a tante altre cose, come l’apertura ad Internet, ha permesso di vedere che era possibile un modello alternativo. Molta gente, tra l’altro, ha avuto il tempo di ripensare alla propria vita, molti si sono interrogati sul fare avanti e indietro, sul non avere mai tempo per niente. Noi crediamo che sia necessario un approccio a questa problematica totalmente nuovo, completamente innovativo che dimentichi i vecchi paradigmi che abbiamo avuto imposti dall’Occidente a tutto il mondo dell’urbanizzazione, poi nati all’inizio per le rivoluzioni industriali, la prossimità casa-lavoro, ma ormai superati e quindi di affrontarlo secondo una visione multisettoriale, devo dire la brutta parola olistica, ma insomma insieme anche ….. di cui parlerà dopo il professor Van der Maesen, in cui si tenga conto insieme di tutte le cose che sono necessarie altrimenti si va, come ha detto la Professoressa Maggino verso un fallimento. Bisogna vedere l’aspetto socio-economico, l’aspetto socio-ambientale, l’aspetto socio-culturale, l’aspetto socio-politico, tutto quanto insieme. Quindi dico, se questo manifesto che è stato già sottoscritto e trova diffusione diventasse, tanto per mettere la pulce nell’orecchio. È una sfida a lungo termine. Speriamo che mettendo i semi adesso, come è stato nel 1992 a Rio col cambio climatico, quando ero giovane, dopo 30 anni qualche cosa si muova. Direi che però l’argomento l’Italia, proprio perché ha ancora delle aree interne assolutamente importanti con un 17% della popolazione, 5.000 comuni ancora piccoli, ma ancora vitali, ha una rete infrastrutturale che deve essere migliorata ancora nell’ultimo chilometro e così via, può diventare un modello di sviluppo, non dico per le pianure degli Stati Uniti o della Cina, ma sicuramente per tanti paesi, in primis quelli europei, per poter avere un modello di sviluppo territoriale più equilibrato che riduca le differenze sociali tra i cittadini. Questo è quanto. Grazie.

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Grazie. Allora, io avevo un po’ di copie, le abbiamo distribuite; sarà tenuto nel quadro delle raccomandazioni che poi faremo. Adesso passiamo all’ultima sessione che è la sessione in inglese. Allora, io chiamerei qui il Direttore dell’IASQ. Van der Maesen can you come here please? L’associazione Internazionale sulla Qualità Sociale ha più di 25 anni, è una rete che coinvolge circa 600 esperti in tutto il mondo. Loro hanno sempre lavorato a teorie tutto sommato alternative rispetto alla nostra lettura dei processi sociali, vanno molto nella direzione che ha detto la professoressa Maggino. Allora, potremmo anche chiedere il collegamento con gli esperti esteri.

 

Laurent J.G. Van der Maesen: I have prepared a PowerPoint presentation and I would like to talk to you using it, because otherwise it will be very abstract. I hope that the PowerPoint will be fine and that I can start shortly. I’m from the International Association of Social Quality, which started around 1959, at the same time as the first summit on social development. At that time, there were many other approaches to social quality, human security, social capital, social development and capacitive theory in Europe, the United States and Canada, as well as social harmony in China, for example. The problem for people engaged with social equality theory in the beginning was that there were so many different approaches. All of these approaches use concepts such as social cohesion, social justice, social empowerment, inequality, and so on. You can see in the second draft of the second summit in November that all of these concepts were wonderful, but the outcomes of the first summit didn’t tell us what happened. The second point is that I need to explain why we started in 1995. Thanks to developments and interpretations of urban development in the Netherlands, and changes in healthcare ideas in Canada and the United Kingdom, we started with one point that must be of great interest to Italy. You must ground your patterns of theory on the basis of European literature.

We distinguish between individualistic, foluristic, dialectical and collective ground patterns of sword. Pareto is one of the founders of individualistic ground patterns of Sal, Marx, dialectical and collective. If you are using concepts about daily reality, you have to connect them with The interpretation of the choice of the crown pattern is completely different from the nebulous interpretation of the social contract and empowerment. If you name, for example, the dialectical interpretation, but present all concepts summarised without explaining how to make the interpretation, as is the case in ‘Is it happening now?’, then I change.

We’ll go for one second. Can I change it? How do I transform it from here? Yes, here we are. We started our relationship with the international association in Rome in 2007, and I have been working with Marco on the development of the social quality perspective, as well as terrorism, since then. I am here for the sixth or seventh time, and we are here. Ja. You can see the International Association of Social Quality on the website, where you can access the latest edition of the International Journal of Social Quality, which is published in New York. Thanks to our work, the new basic principles are available on the website, as well as the manifesto of urbanisation.

We will also publish an editorial very soon, within three weeks, about the essence of the United Nations draft for the second summit. Marco Rigeria has the draft of it. We introduced the articles and the manifesto, and the question was: what can we learn from them about the second draft of the United Nations? Well, these speeches are based on the editorial and there are three main questions. What happened at the first summit? What happened with the official proposals for the second summit? And what can we propose as an alternative or complement? It is important to understand the Israeli perspective, as this is essential for the social call perspective. In practical terms, the United Nations declarations should be very practical. This is the message that was conveyed before the war: a practical man or woman who bases his or her views solely on facts and considers the theories and practices of their forefathers. The essence of the draft for the second summit ignores this in order to be understood.

Shortly, we will publish an editorial about this.

Societal transformations, biographical transformations and the polis. Arend was the first to use these concepts, but we were very interested in them and used them in the context of transformation and what happens on the horizontal line. We also introduced the vertical in the theory. The combination is of interest to academia, which receives funding from private sources or millions of dollars in order to proclaim and explain that academic analysis happens in circumstances where there is less money. If you picture a declaration of rationality in a world where rationality is not the norm, this is what is happening. My most essential PowerPoint is ‘What I mean is another power’.

Now, you have to use your imagination. There are four patterns of thought, one pump, and a fifth and second in China, etc. In the midst of all this, you have all the concepts you know: cohesion, empowerment, inequalities, etc. There are all the approaches known in Europe and America, etc., such as quality of life, social capital, capacity, etc., and they are designed in the PowerPoint. All these approaches use concepts without explaining their theoretical basis, which is very interesting. Without explaining the underlying patterns of thought, the indicators are merely empirical without a theoretical basis. This is where the frameworks come in. I can explain my reasoning here. Our concept framework of the social culture approach is based on European literature, etc. What is the social? Human beings are societal beings thanks to the dialectic between processes of self-expressions, developments and changes of collective identities. They are the essence of the outcomes of the social, which is a very interesting history. I don’t know if it is only the history of the democratic movement in Italy, which is famous for its psychological treatment that gives people a place in communities and creates new forms of community assistance, etc. It’s a wonderful movement, and they started from the social as an outcome of the productive and reproductive relationships of human beings as societal beings. This is completely in line with the third ground pattern of thought, which we have in our social framework.

I don’t know what the current state is, but people are talking about ex-urbanisation and urbanisation from this perspective. It is one aspect of the thematic fields. You can’t see processes without considering the welfare, economic situation or sustainability. How do we do that? We have societal defences and make distinctions between four dimensions: the sociopolitical, legal, social and social-cultural. These processes work in each thematic field, and if you can analyse that, you can understand the relations between the thematic fields. It is not an isolated manifesto of urbanisation; you see it in context, but it is important. We started based on the conceptual and analytical frameworks of our analysis of daily life circumstances and the distinction between constitutional, conditional and normative factors. These dimensions influence daily life circumstances, and we can analyse changes in daily life circumstances and social quality indicators based on interpretations of social factors. This allows us to understand the nature of processes in the dimensions, providing insight into what really happens in reality. For example, Bruntland and Sen’s distinction between three dimensions is well-known, and the UN has adopted this in the second summit declaration. The writers also use the three dimensions.

Three dimensions of nonsense: the use of the adjective ‘social’ is empty, and it doesn’t speak about the political-legal dimension or the socio-cultural dimension.

End of distinction between dimensions and development in development.

What can be proposed now, I suppose, as a member of the association, is the draft of 1995. What can be done is to first change the title, making it a ‘Declaration of Transformation’. Societal transformation. Secondly, the Italian intellectuals propose the creation of a global forum for academics situated in Rome, using a social perspective or developing the social quality perspective, because the social quality perspective addresses everything that happens in the world, not just small, isolated points.

This is for you: a global forum for academics. In his time, he was an exponent of academic thinking and was trained in his first years in Creek. He also interpreted social issues, albeit not very expressively. In his work, he analysed what was happening in the power structures of the Oracles and the polite, and his way of thinking is very inspiring at the moment. Rome is an excellent place to start a new initiative. place to start a new initiative. Well, the United Nations, for example, could call it something else and we will follow with an academic forum on societal transformations. We will give you a point of view on the practices, which are not discussed in the United Nations. All the money is going to a small group of people in the world and the rest has to see how to eat. You can see this in the Oxfam International documents, which are more than dramatic. This is not in line with the UN declaration. This is my proposal to you as a member of Erasmus and to him. I’m sorry that the start was difficult, but thank you for your time.

 

Allora, dovremmo avere in collegamento le altre persone. Allora, il professor Heyets, il Direttore dell’Istituto di Economia dell’Accademia delle Scienze di Kiev, con cui abbiamo avuto scambi di email fino a stamattina, vedo che ha problemi di collegamento.

 

Valeriy Heyets: A three-page text about the social quality perspective for Ukraine after recovery and European integration. You should know that, since 2015, we at the EIS and Eurus have been working with the Ukrainian academy. So we did a lot before the war. The war, of course, has changed the situation, and the focus is currently on the post-war situation. We hope that God will help them, but the question for the Academy of Sciences in Ukraine is how we can apply the social quality perspective to the post-war situation. How can we apply the social quality perspective to the post-recovery period? He has a three-page text. Perhaps the implementation is not the last point, but the essential thing is to realise this potential by institutionalising a social quality perspective within the strategic frameworks of state policy. This involves establishing cross-sectoral coordination mechanisms for reform implementation, integrating social quality indicators based on social quality perspectives into national and regional monitoring systems, and providing value-driven training for public managers, social workers, analysts, etc. Supporting the development of contextualised standards of social quality has the opportunity to lay the foundation for recovery, not only in terms of physical reconstruction, but also in terms of a humanistic approach. The development should be the subject of public policy, and the transformation of society should be its unit. The social quality perspective is not a governance framework; it is a dignity-based strategy. It is an infrastructure of trust. In my terms, it is a social language through which we can interpret, design and realise the future. Thank you for your attention. But of course, you have to read the text.

Dear colleagues,

On behalf of the Ukrainian Academic Community and the Institute for Economics and Forecasting of the National Academy of Sciences of Ukraine, we are pleased to extend our greetings from Kyiv to all participants of this conference. We would like to express our sincere gratitude to the organisers of this conference, the European Institute for Political, Economic and Social Research. We would also like to thank the Department of Social Science of the National Research Council, and in particular Professors Marier and Salvator.

In the 21st century, social policy is increasingly seen as a foundation for a social contract that defines residence, dignity, and social cohesion. The systemic challenges of our time — war, pandemic, climate change, and digital transformation — compel us to rethink the role of states, the responsibilities of institutions, and the parameters of public policy. They demand a departure from technocratic management towards a human-centred model of development. Against this global backdrop, the war in Ukraine has become a critical test and catalyst for a new polity. Ukraine’s deep reconfiguration of the normative underpinnings of social policy is underway. Ukraine is a catalyst in this respect.

The full-scale war launched by the Russian Federation in 2022 has produced a profound societal crisis that has triggered a fundamental transformation of Ukraine’s social policy. This transformation is based on mutuality, which reinforces levels of functionality, normativity and operation. At the functional level, the The shift has come from a fragmented, category-based approach to social assistance towards a systemic, digital, person-centred model. The core principles now include adaptability, proactive engagement, targeted support, and respect for human dignity. Policy is no longer confined to compensating for vulnerability, but instead enables the development of key strategic documents. Not only is it a directional framework, but it is also a conceptual framework for policy in post-war periods. In particular, the National Social Policy Strategy to 2030 was adapted to address the emphasis on digitalisation, decentralisation and community-based approaches. The programme implementing the International Classification of Functioning has reframed disability policy in terms of equal participation rather than assistance alone. Community recovery frameworks have established social cohesion as a core indicator of the territorial Ukrainian strategy, and are building flexible resilience and equitable labour markets. At the operational level, a range of institutional innovations are reshaping the infrastructure of the social system. The unified social sphere information system has enabled transparent social transfers. It has reduced duplication and ensured real-time monitoring and responsiveness.

A three-tier model of social services enables flexible provision according to the complexity of needs, ranging from basic counselling to supported living arrangements. Basic social benefits, effective from 2025, establish a universal safety net for individuals not covered by pension or insurance systems. The expansion of active labour market instruments, including vocational training, digital education, and microenterprise development, is shaping a more adaptive response to the consequences of war, as well as a deeper institutional shift. A new paradigm is emerging in which the individual is not merely a recipient of aid, but an active participant in the construction of a community that is both dependent and the driver of social cohesion and innovation. The state moves beyond its supervisory role to act as a catalyst for dignified and enabling societal frameworks.

Evolution has established an ethical and normative orientation that will shape the architecture of post-Ukraine society. This is not in line with the neoliberal pattern of the sword that you know, nor with the collectivist framework of the sword. In the context of a renewed paradigm of social reconstruction, the social quality perspective has gained particular significance.

Thank you and Professor Allen Walker. This interdisciplinary concept transcends categorisation and offers a comprehensive framework for understanding societal well-being as an integral attribute of the societal environment, which defines the capacity of individuals. The framework is built around interrelated dimensions, including socioeconomic dimensions, which encompass access to employment, housing, basic resources, and economic security. It emphasises not only the availability of aid, but also the capacity. The legal-institutional dimension pertains not only to the formal recognition of rights, but also to their enforceability, institutional protection, non-discrimination, and the predictability of governmental action. The sociocultural dimension reflects the level of societal trust, civic participation, shared identity, and the conditions under which people feel part of a community capable of collective action. The environmental dimension is interpreted as a special and general responsibility for national sustainability, including access to safe and healthy environments, just infrastructure, and climate justice.

The uniqueness of this approach lies in its capacity to consider social policy not as a set of tools, but as a coherent system of interrelated societal needs, institutional accountability, personal empowerment, integrated fiscal reconstruction, and human agency. It focuses on rights, individual needs, and future perspectives, aligning employment policy with local economic strategies and transforming the system of social assistance into one that supports human development. This approach strengthens individuals’ economic and civic capacities, offering Americans a deep, structurally coherent, dignity-oriented model of social development and transformation. Well, yes, it’s not just a matter of one or two pages. I think we should stop you there.

 

Marco Ricceri: Impressionante perché il 10-11, fra una settimana, ci sarà il vertice europeo sulla ricostruzione dell’Ucraina, in cui un migliaio di partecipanti di tutti i governi, le autorità saranno qui a Roma. È importante allora che dall’Accademia venga un messaggio di richiesta che consegneremo alle autorità competenti attraverso il Governo italiano di tenere con la dovuta attenzione tutti gli aspetti sociali e del lavoro che diciamo non hanno sufficiente rappresentazione nel pacchetto delle richieste che sono venute fuori. Quindi le indicazioni che sono state fatte, questo richiamo forte che viene dal mondo scientifico ucraino va in questa direzione. Grazie. Questa la manderemo a tutti.

 

Salvatore Capasso: Quindi mi compete di chiudere ringraziando Marco Ricceri, l’Eurispes. Voglio però lasciarvi andare con due parole di sintesi di quello che abbiamo sentito. Io credo che abbiamo un primo problema che emerge e che sembra banale, ma nel mondo ci sono paesi ad uno stadio di sviluppo diverso. È ovvio che se noi ci confrontiamo con il nostro Paese o con l’Europa dove già il livello di sviluppo economico è talmente avanzato che non ci sono persone che hanno bisogno di dare da mangiare ai propri figli, le prospettive con le quali si affrontano certi problemi come il cambiamento climatico o il welfare sono diverse da paesi come quelli dell’Africa subsahariana dove il livello del reddito è ancora a 2 dollari al giorno. Quindi problemi come il welfare, la sicurezza sul lavoro eccetera, ovviamente sono per noi sono di altissima priorità, ma in altri paesi questo non accade. Quindi questo è il primo punto. Dal momento che si tratta di un vertice delle Nazioni Unite, questo elemento secondo me non dobbiamo tenerlo in secondo piano che i paesi nel mondo hanno diversi obiettivi in questo momento da raggiungere. Il secondo elemento riguarda, la relazione che esiste tra la diseguaglianza e lo sviluppo economico. Prima è stato detto appunto che noi veniamo ovviamente da decenni nei quali la globalizzazione ha causato una grande diseguaglianza e questo è verissimo. Se noi prendiamo dall’anno 1990 circa al 2025, in questi 30 anni circa la Cina è cresciuta quasi del 460%. Pensate che i cinesi hanno triplicato il loro reddito pro capite, quest’anno 1 miliardo di cinesi sono usciti fuori dalla povertà. Lo stesso è accaduto in Nord Corea, nel Vietnam, in Cambogia. La globalizzazione, così come l’abbiamo vissuta, ha avuto degli effetti negativi, però ha permesso alla marea di crescere, quindi tutte le barche sono salite. Il problema dove sorge? Sorge nel momento in cui si creano delle diseguaglianze così come le stiamo vivendo noi e questo è un problema serio, la redistribuzione è un fatto serio. Il punto fondamentale è capire, come si diceva, che noi adesso abbiamo bisogno di far aumentare la domanda interna, ma che ci sono paesi che hanno bisogno di crescere ancora. Sto parlando de Botswana, dello Zimbabwe, giusto per essere concreti e i problemi che ci sono in Botswana o in Zimbabwe non sono i problemi che ci sono in Norvegia, in Danimarca o in Italia. Ovviamente le cose sono totalmente diverse. Quando si affrontano i problemi sociali a livello globale, questo fattore non lo possiamo dimenticare, altrimenti ricadiamo nella trappola dell’arroganza dei paesi ricchi che, ancora una volta, mettono i loro problemi di fronte ai problemi che esistono nelle altre parti del mondo. Quindi questo è un elemento fondamentale. L’altro elemento ha a che fare con l’ambito economico e parlo da economista. Noi abbiamo un modello economico che ci dice che l’accumulazione del capitale, la crescita è fondamentale, perché la torta prima deve essere cotta e poi dopo può essere tagliata e distribuita. Il punto fondamentale che voglio sintetizzare che emerge da oggi è possibile un modello di crescita diverso nel quale non solo noi facciamo crescere la torta, ma quella torta già indica in che modo può essere redistribuita. Michele Colucci ci ha fatto vedere che le diseguaglianze determinano le migrazioni, o meglio, i disagi sociali determinano le migrazioni e che a loro volta possono creare disagi. Se una crescita forte crea una forte sperequazione, questa sperequazione può influenzare la crescita stessa. Ed è un problema serio che noi europei, e questo è l’ultimo punto e poi vi lascio andare, dobbiamo affrontare. Io vi ho parlato del periodo 1990-2025. In quegli stessi anni il reddito dell’Italia è cresciuto del 4%. Se prendiamo gli ultimi 20 anni, il nostro reddito pro capite si è ridotto dell’1%. Lo stesso problema ce l’ha l’Europa. Trump dice che l’Europa ha mangiato al tavolo degli Stati Uniti. Ma se noi consideriamo nell’anno 1990, prendo quest’anno perché è stato citato, la differenza tra il reddito europeo e quello americano nell’anno era praticamente nulla, cioè gli europei avevano lo stesso Prodotto Interno Lodo degli Stati Uniti. Oggi noi siamo al 60% del reddito degli Stati Uniti, cioè in questi anni l’economia degli Stati Uniti ha continuato a crescere, anche se a tassi non elevatissimi, noi siamo stagnanti. Il Rapporto Draghi, il Rapporto Letta lo hanno detto in maniera esplicita e quindi qualcosa va fatto. Qual è la conclusione di questo discorso? È che effettivamente i problemi sociali non possono essere scollegati dal problema economico che dobbiamo affrontare di una bassa produttività e di una bassa crescita. È vero che noi dobbiamo occuparci anche dei lavoratori ed è paradossale occuparci del lavoro che cambia totalmente, però per fare alzare le barche bisogna che la marea si alzi e quindi non dobbiamo dimenticarci che il sistema produttivo ed economico possa rimettersi in moto. Questo è un problema che attanaglia in particolare gli europei, in altre parti del mondo non è così, perché molti paesi continuano a crescere, anzi per i conflitti e a causa dei conflitti. Se la Russia riesce a mantenere un tasso di crescita rilevante è proprio perché ha pompato sugli armamenti e sul mercato militare. Quindi i problemi sono totalmente diversi, non ci dobbiamo dimenticare che questo è un vertice mondiale in cui questo tipo di problemi li dobbiamo proporre tenendo conto quelle che sono le esigenze dei paesi meno sviluppati e quindi se vogliamo parlare di sociale non dobbiamo tenere in mente il nostro Paese, i problemi dell’Europa o dei paesi maturi, ma anche di paesi poveri che hanno bisogno ovviamente di crescere e di svilupparsi. Quindi sì, parliamo di sociale, parliamo di welfare, ma anche di come aiutare i paesi più poveri a uscire fuori da una trappola della povertà che dura da decenni. Comunque grazie per essere venuti e ovviamente non potevamo risolvere oggi i problemi. Questo è stato un primo incontro. Spero che da qui in poi cominceremo a lavorare assieme per costruire le fondamenta per arrivare al vertice di novembre, ma anche per proseguire portando avanti un lavoro collettivo. Grazie mille.



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