Ecco la seconda e conclusiva parte (la prima la trovate qui) dell’intervento di Giovanni Scansani dedicato alla Welfare Integration, soluzione che sta caratterizzando l’evoluzione del Welfare Aziendale in Italia e che, come tale, sta riscuotendo un interesse crescente da parte di imprese, lavoratori e Provider.
Quanto valgono i bonus?
Possiamo adesso rispondere alla domanda che ci siamo posti in precedenza: acquisendo i bonus pubblici cui si ha diritto e sfruttando le diverse agevolazioni esistenti, quanto arriva in media pro capite e ogni anno nelle tasche dei lavoratori? Secondo le analisi effettuate dagli operatori della Welfare Integration che, oltre ai dati da essi direttamente elaborati, periodicamente intervistano dei panel di dipendenti delle aziende che si avvalgono dei loro servizi, si tratta di circa 1.000/1.200 euro all’anno per singolo beneficiario.
Questo valore – una coincidenza che sembra quasi un “segno” – è sostanzialmente analogo a quello medio individuale attribuito con i piani Welfare Aziendale che, nel 2024, si è attestato su 1.000 euro all’anno pro capite (come ci indica il report dell’Osservatorio Welfare curato da Edenred).
In sostanza, l’integrazione dei public benefit come “terzo pilastro” del sistema dei benefit aziendali (aggiungendosi ai fringe benefit e ai flexible benefit) è capace di raddoppiare il valore del welfare complessivamente disponibile per ciascun lavoratore beneficiario.
Il rilevante effetto che l’apporto dei public benefit genera rispetto al valore complessivo del budget individuale disponibile (dato dalla sua componente aziendale sommata a quella pubblica) ha indotto alcune aziende più all’avanguardia ad includere, nei percorsi di Educazione Finanziaria resi disponibili ai lavoratori, anche un focus sulla corretta gestione del “Credito Welfare” trattato alla stregua dei restanti asset di cui dispone il lavoratore e il suo nucleo familiare. Anche questa è un’ulteriore evidenza del rilievo che l’integrazione tra Welfare Aziendale e Welfare Pubblico sta assumendo nell’ambito dello sviluppo delle iniziative di benessere prescelte dalle imprese per sostenere la loro organizzazione.
Colmare il “vuoto” del Welfare Aziendale
Il brillante risultato dell’incremento del valore economico complessivo disponibile per i lavoratori, vale la pena rammentarlo, non provoca un corrispondente aumento dello stanziamento aziendale previsto per il welfare perché bonus e agevolazioni sono benefit di tipo public (sia detto per inciso: se consideriamo che questo immenso giacimento di risorse “non riscosse” è, in buona parte, già stato “pagato” dalle imprese e dai lavoratori attraverso la tassazione, non mettere i dipendenti nelle migliori condizioni per recuperare queste sostanze è un evidente paradosso perché le imprese, con lo “scambio sociale” reso possibile dal Welfare Aziendale, intendono sempre anche sostenere i redditi dei loro collaboratori).
Occorre inoltre considerare che la capacità dei public benefit di generare l’apporto economico di cui sopra non è ridotta dai criteri di selezione dei beneficiari o lo è molto meno di quello che comunemente si pensi.
Molte misure pubbliche, infatti, non prevedono requisiti di tipo economico per essere acquisite, mentre, per quelle che prevedono limitazioni da comprovare con l’attestazione ISEE, l’asticella è spesso fissata a livelli del tutto compatibili con la posizione economica e patrimoniale nella quale ricade la gran parte dei lavoratori dipendenti (si pensi alla previsione di livelli ISEE che alcuni bonus fissano a 30mila, 40mila o 50mila euro).
Fa dunque una grande differenza (anzitutto economica) per i lavoratori e le loro famiglie essere, da un lato, informati circa le opportunità di sostegno offerte dal Welfare Pubblico (nazionale, regionale e comunale) e dall’altro essere posti nelle condizioni di ricevere un supporto esperto per affrontare le (volutamente) complesse procedure che impediscono un agevole accesso ai public benefit.
Colmare questo “vuoto” che altrimenti rende incompleto il piano di Welfare Aziendale è quindi espressione non solo di un intento socialmente meritorio da parte delle imprese (che, tra l’altro, potrebbero agevolmente rendicontarne l’impatto anche rispetto ai loro obiettivi ESG/SDGs), ma come si è visto accresce il valore complessivo del “pacchetto welfare” messo a disposizione dei lavoratori.
Nel Paese con i salari tra i più bassi in Europa queste opportunità non dovrebbero andare perdute, tanto più che, come si è detto, quei positivi effetti, per essere prodotti, non implicano neppure ulteriori budget diretti a carico delle aziende. Si può allora senz’altro sostenere che non attivare l’integrazione che abbiamo sin qui descritto rappresenti una vera e propria contraddizione, soprattutto per le aziende che hanno la tanto evocata “Persona al centro”.
Un’epoca nuova per il Welfare Aziendale
Rispetto a quanto abbiamo sin qui scritto è molto interessante richiamare il “Rapporto CENSIS” sul Welfare Aziendale (la cui VIII edizione, pubblicata quest’anno, è significativamente intitolata: “Lavoro, aziende e benessere dei lavoratori: un’epoca nuova”). Il “Rapporto” sottolinea come sia sempre più necessario attivare una relazione tra lavoratore e azienda orientata (i grassetti sono nostri) a dare soluzione ai differenti e soggettivi bisogni “non necessariamente dentro il set di servizi del welfare aziendale”. Il “respiro” delle complessive iniziative disponibili diventa, infatti, più ampio perché l’attenzione aziendale “non è più focalizzata solo su quel che concretamente, nella piattaforma di welfare aziendale, può essere messo a disposizione dei lavoratori all’interno del plafond economico di cui beneficiano, ma sui bisogni del lavoratore e sulle risposte che l’intero sistema di welfare è in grado di garantire”.
Coglie allora nel segno il CENSIS quando ci ricorda che quello in atto è “un passaggio culturale, prima ancora che operativo, che gli attori del welfare aziendale devono fare e che trasforma quest’ultimo nelle modalità in cui si è imposto e strutturato in questi anni in un pezzo importante di un sistema più ampio di welfare” (che include quello pubblico). Così facendo – sottolinea il “Rapporto” – le imprese allargano il perimetro del Welfare Aziendale “tradizionale”, abbracciando “una visione olistica del benessere che si occupa di tutti gli aspetti della vita del lavoratore, contribuendo così al suo equilibrio e alla sua serenità”. Non potrebbe essere descritta meglio la portata più profonda dell’autentico Welfare Aziendale, strettamente ancorata alla sua funzione sociale e della quale la prima e la principale “leva” da azionare per il suo perseguimento non può che essere l’enorme giacimento di risorse “non riscosse” che alimenta l’offerta dei public benefit.
Una conclusione logica
La considerazione finale che può trarsi è che il Welfare Aziendale esprime la sua massima efficacia solo se, oltre agli usuali fringe e flexible benefit di fonte privata, non dimentica per strada i numerosi public benefit disponibili e che la completezza dei piani di Welfare Aziendale non può prescindere dall’integrazione con le numerose misure di fonte pubblica.
Nota a margine: per le imprese che sono ancora lontane dall’adozione di strutturate policy di welfare, l’integrazione con i public benefit può rappresentare una sorta di entry level dal quale, poi, scalare per avviare più articolati interventi che potranno condurre anche alla progettazione di veri e propri piani di Welfare Aziendale (che a quel punto saranno, ab origine, di tipo “integrato”).
Come si vede la sinergia pubblico/privato va bene sempre, a prescindere dallo stadio di sviluppo del welfare in azienda e quale che sia la dimensione e il settore nel quale opera l’impresa e questo perché quella sinergia è semplicemente logica, prima ancora che utile per i lavoratori e le loro famiglie.
Giovanni Scansani
Co-founder BONOOS Srl
Docente a contratto Università Cattolica Milano
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