Ecco cosa hanno deciso i giudici della Corte della Cassazione con l’ultima sentenza su un argomento sempre “caldo” come quello relativo a licenziamenti e nuove assunzioni.
Possibili implicazioni legali se le assunzioni sono troppo ravvicinate ai licenziamenti
La Corte di Cassazione, e non solo, si è espressa più volte su questo tema, evidenziando come il comportamento di un’azienda che licenzia un dipendente per poi assumerne subito un altro con mansioni simili, magari con anzianità azzerata e stipendio inferiore, sia discutibile al punto di configurare situazioni giuridicamente problematiche. Tale comportamento, oltre a generare dubbi sulla genuinità delle motivazioni del licenziamento, rischia di esporre l’azienda a:
- Possibili contenziosi legali
- Richieste di reintegro del lavoratore licenziato
- Pagamento di indennità risarcitorie
- Sanzioni per comportamenti discriminatori
Tutto questo può venire amplificato nel caso di un licenziamento per motivi oggettivi come la soppressione della posizione laddove procedere immediatamente con una nuova assunzione per lo stesso ruolo potrebbe configurarsi come una azione da impugnare da parte del lavoratore che, ricordiamo, ha 60 giorni di tempo dalla comunicazione del licenziamento per impugnarlo in via stragiudiziale. Successivamente, dispone di un tempo che arriva a 180 giorni aggiuntivi per depositare il ricorso in tribunale.
Cosa rischia l’azienda per licenziamento illegittimo
Se in caso di impugnazione, il lavoratore ottiene il riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento, può richiedere, in alternativa alla reintegrazione, un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione non soggetta a contribuzione, che si aggiunge all’indennità dovuta per il periodo compreso tra il licenziamento e l’effettiva reintegrazione.
Le conseguenze comunque, esplicitate nelle sentenze, varieranno in base alla dimensione dell’azienda e alla tipologia di licenziamento. Per le piccole imprese, generalmente è prevista solo un’indennità risarcitoria, mentre in caso di aziende con più di 15 dipendenti, se il licenziamento dovesse essere ritenuto discriminatorio o nullo, è previsto il reintegro del lavoratore. Per licenziamenti per giustificato motivo oggettivo dichiarati illegittimi, il giudice può disporre un’indennità risarcitoria.
L’ultimo pronunciamento in merito, anche sulle motivazioni del licenziamento e sulla legittimità delle stesse è la sentenza pronunciata dalla Cassazione civile, Sez. lav., il 3 luglio 2025, n. 18063. Quanto emerge dalla sentenza, in brevissimo, è il concetto che non è possibile licenziare un dipendente soltanto perché si preferisce assumere un’altra figura in sua sostituzione.
Il caso dell’ultima sentenza della Cassazione su licenziamenti e nuove assunzioni
Il caso specifico riguardava il licenziamento di un lavoratore con vent’anni di anzianità, impiegato negli anni in diverse mansioni, beneficiario di permessi ex art. 3 L. 104/1992 per assistere il coniuge disabile con una invalidità riconosciuta all’80%. Alla base del provvedimento, ragione oggettiva del licenziamento, la giustificazione della soppressione della posizione lavorativa ricoperta dal dipendente.
La suprema corte ha evidenziato come non risulti adeguatamente espletato l’obbligo, a carico dell’azienda, che impone di verificare ogni possibilità utile di ricollocazione (repêchage) del dipendente anche in mansioni inferiori purché nel rispetto della sua professionalità.
Ricostruendo la vicenda si è appreso che la datrice di lavoro ha unicamente proposto una posizione alternativa con turnazione incompatibile con le esigenze di cura del coniuge disabile. Il rifiuto del lavoratore, motivato proprio dalla necessità di garantire la continuità dell’assistenza , era stato accompagnato dalla disponibilità a essere adibito a qualsiasi altra mansione, anche inferiore, a condizione di mantenere lo stesso orario, a conferma del suo atteggiamento collaborativo e della volontà di preservare il rapporto di lavoro. Nonostante ciò, la datrice di lavoro ha proceduto al licenziamento senza verificare l’esistenza di ulteriori soluzioni organizzative.
La decisione della Corte
A completare il quadro il fatto che la società avesse assunto nuovi dipendenti e utilizzato lavoratori somministrati sia prima che dopo il licenziamento del ricorrente, azioni che smentivano di fatto l’impossibilità di ricollocare il lavoratore. Tutto ciò valutato, la Corte ha ritenuto violati non solo l’obbligo di ricollocamento che impone una seria e documentabile verifica di ogni possibilità di reimpiego, ma anche i principi di correttezza, buona fede e solidarietà sociale, che devono informare le scelte datoriali soprattutto quando coinvolgono lavoratori portatori di esigenze particolari tutelate dalla legge, come quelle derivanti dall’assistenza a familiari disabili.
L’extrema ratio e l’obbligo di repêchage
La condotta datoriale risulta anche contraria al principio di “extrema ratio” che deve presiedere a ogni licenziamento per motivo oggettivo, come peraltro chiaramente affermato anche dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 59/2021, la quale impone che la cessazione del rapporto sia l’ultima soluzione possibile, e non possa prescindere da una attenta verifica effettiva e corretta delle possibili alternative.
Il licenziamento del dipendente, per di più con un contratto stipulato precedentemente all’abolizione dell’art.18 dello statuto dei lavoratori, abrogato nel 2015 con il Jobs Act, che ha introdotto il contratto di lavoro a tutele crescenti, di fatto è ammesso esclusivamente se questo si rende colpevole di scarso rendimento o, comunque, di violazioni disciplinari tali da giustificare il licenziamento per giusta causa.
Il licenziamento è stato per questi motivi dichiarato affetto da illegittimità, sia per difetto di giustificato motivo oggettivo in senso stretto, sia per violazione degli obblighi di repêchage, con diritto del lavoratore alla reintegrazione o, quantomeno, al risarcimento del danno secondo le tutele previste dal sistema vigente.
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