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Allarme Censis: il caro denaro è come un nuovo dazio


«Il credito in Italia ha un prezzo. E non è solo quello dei tassi d’interesse. Dal 2019 al 2025, il Taeg medio nazionale per gli investimenti delle imprese (ovvero il costo totale del credito) è schizzato dal 2,34% al 4,77%» denuncia il presidente di Confcooperative Maurizio Gardini, commentando il Focus Censis-Confcooperative «Bce, il “dazio” del credito e lo spread territoriale». Ricerca che introduce un nuovo concetto di dazio, il «dazio del credito» appunto, «che viene erogato con criteri che rischiano di cristallizzare le disuguaglianze esistenti, creando uno spread territoriale in un’Italia creditizia a due velocità» aggiunge Gardini. È infatti pari a 1,89 punti la forbice che separa il costo del credito per le imprese tra la Calabria (fissato al 5,68%) e la Valle d’Aosta (3,79%). Risultato? «Per un credito a 10 anni da 300 mila euro, un’impresa calabrese paga 33.000 euro in più rispetto a una della Valle D’Aosta. Mentre una famiglia calabrese che chiede un prestito a 5 anni, da 50mila euro, paga 2.300 euro in più rispetto all’Emilia Romagna. È la geografia dell’apartheid finanziario italiano dopo la stretta monetaria del 2022-2023 – commenta Gardini – chi nasce al Sud paga di più».

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I conti delle imprese

A maggio 2025 il credito alle società non finanziarie italiane segnava un -1,42%. Un dato che, seppur in miglioramento rispetto ai dati del 2023 (quando si toccò il -6,6%), racconta di una difficoltà che non accenna a migliorare. La variazione congiunturale sui tre mesi è debole: +0,45% a gennaio, +0,05% a febbraio. A soffrire di più sono le microimprese, questo perché – spiega il Censis -i l sistema creditizio italiano ha sviluppato una logica da algoritmo molto selettivo. L’analisi per dimensione d’impresa e classe di rischio presenta infatti un conto pesante per le imprese. Tra dicembre 2023 e dicembre 2024, nel segmento a basso rischio, i prestiti alle grandi imprese sono cresciuti del +2,35%, mentre quelli alle micro, piccole e medie imprese languono (rispettivamente -0,68%, -2,40% e -3,63%). Ma è nel segmento ad alto rischio che si concentrano le criticità. Le microimprese scendono dal -7,18% al -7,92%. Anche le grandi imprese, se percepite come rischiose passano dal -3,74% a -4,79%. La mappa del credito italiano è da apartheid finanziario. Il tasso annuo effettivo globale (Taeg) sui prestiti superiori a un anno per investimenti disegna un Paese spaccato in due: in Calabria si paga il 5,68%, in Basilicata il 5,65%, in Sicilia il 5,36%. Il Mezzogiorno nel suo complesso sconta un 5,16%, un macigno rispetto al 4,71% del Nord Ovest (Piemonte al 4,44, Lombardia al 4,88) e al 4,59% del Nord Est, col Veneto al 4,78 e l’Emilia Romagna l 4,43%.


Il presidente di Confcooperative Maurizio Gardini

 (ansa)

Le condizioni delle famiglie

Per le famiglie italiane il quadro che delinea il Focus «è più incoraggiante, ma non privo di ombre». A maggio 2025 si registra infatti un incremento tendenziale dell’1,5% dei prestiti concessi, che prosegue la lenta risalita avviata a fine 2024. Anche la variazione trimestrale di febbraio (+2,01%) conferma che il ciclo del credito sta uscendo dalla lunga fase di contrazione. I tassi sui mutui per l’acquisto di abitazioni sono scesi dal picco del 4,50% del novembre 2023 al 3,17% di maggio 2025. Un calo significativo, ma che non ha ancora riportato i tassi ai livelli pre-2022, quando si attestavano tra l’1,95% (gennaio 2019) e l’1,27% (gennaio 2021). Anche qui incide lo spread territoriale, nel 2024 i prestiti concessi alle famiglie per un periodo superiore all’anno e fino a cinque anni registrano le condizioni più favorevoli in Emilia-Romagna (4,2%), Trentino-Alto Adige (4,4%), Lombardia (4,75%) e Piemonte (4,85%), dove il costo del prestito si attesta sensibilmente al di sotto della media nazionale (5,08%), mentre il Sud è al 5,70 e le Isole al 5,69%.

Il nuovo portafoglio degli italiani

Nel primo trimestre del 2025, le attività finanziarie detenute dalle famiglie italiane ammontano a 6.043 miliardi di euro, con una composizione del portafoglio che riflette sia una forte diversificazione sia alcuni spostamenti significativi rispetto all’anno precedente. La quota più rilevante continua a essere rappresentata dalle azioni e altre partecipazioni, che pesano per il 29,7% del totale, seppur in lieve calo rispetto al 30,3% del primo trimestre 2024, per un ammontare complessivo pari a 1.794,8 miliardi di euro. Seguono biglietti, monete e depositi, che restano su valori elevati (26,1%), pur riducendosi leggermente come incidenza rispetto all’anno precedente (26,7%), e che ammontano a 1.578,8 miliardi di euro. Emergono segnali interessanti su alcune componenti dinamiche del portafoglio: i titoli obbligazionari crescono in quota dal 7,9% all’8,3%, raggiungendo 500,6 miliardi di euro, con una crescita trainata in particolare dai titoli italiani, che passano da un’incidenza del 6,2% al 6,5%, per un totale di 392,1 miliardi. Ancora più evidente è il rafforzamento delle quote di fondi comuni, che rappresentano il 14,1% delle attività complessive, in aumento rispetto al 12,8% dell’anno precedente, arrivando a 850,0 miliardi di euro. Spicca il ritorno ai titoli di Stato, che passano dal minimo del 2,3% nel 2021 al 5,1% nel 2024. Dopo anni di disinvestimenti dovuti ai tassi zero, i titoli pubblici italiani tornano a occupare un posto significativo nel portafoglio delle famiglie, grazie al rialzo dei rendimenti e all’offerta ampia di BTP e titoli retail.

Il risparmio perduto

«Il confronto spietato tra il 2004 e il primo trimestre 2025 racconta di un’Italia che ha perso la capacità di guardare al futuro» segnala il Censis. Nel 2004, la propensione al risparmio oscillava tra il 13,3% e il 14,6%, con un potere d’acquisto che superava i 357 miliardi di euro reali nel terzo trimestre. Dieci anni dopo, nel 2014, la propensione si è attestata intorno all’8,6-8,8%, mentre il potere d’acquisto è sceso attorno ai 326 miliardi, segnando una perdita secca di circa 30 miliardi. Nel 2024, invece, la propensione al risparmio è tornata su livelli analoghi a quelli del 2014 (tra l’8,5% e il 9,5%), ma il potere d’acquisto invece no, attestandosi sui 340 miliardi: un recupero parziale, ma non sufficiente a colmare la distanza rispetto all’inizio degli anni Duemila. Nel primo trimestre 2025 la propensione al risparmio si è attestata al 9,3%, mentre il potere d’acquisto è salito a 346 miliardi di euro, ancora 10 miliardi in meno rispetto al 2004.

2026: l’illusione del miglioramento

Le previsioni al 2026 dipingono un futuro di apparente miglioramento, ma sotto la superficie le fratture restano. Il tasso di deterioramento del credito scenderà per tutti: le grandi imprese lo vedranno dimezzato dal 2 all’1%, le microimprese dal 3,7% al 3%. «Numeri che nascondono una verità scomoda: anche nel 2026 le microimprese avranno un tasso di deterioramento triplo rispetto alle grandi – conclude il Censis -. Il settore delle costruzioni resterà quello più a rischio (3,2%), mentre l’industria scenderà al 2,1%. Non è un miglioramento, è la cristallizzazione di un sistema creditizio a due velocità».

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