A cosa servono le startup innovative? Potremmo rispondere con le parole di Reid Hoffman: “Le startup non sono solo aziende, sono movimenti che ridisegnano il futuro”. E, visto che Hoffman è stato prima director di PayPal, poi co-fondatore di Linkedin (venduta per oltre 26 miliardi di dollari a Microsoft) e successivamente founding investor di OpenAi, l’organizzazione che ha lanciato ChatGPT, la risposta va presa sul serio (e se si vuole approfittare dell’esperienza di Hoffman si può leggere il suo libro Blitzscaling) .
Le startup, quindi, sono nuove imprese che spingono la crescita di un sistema economico e hanno un ruolo decisivo nell’ecosistema dell’innovazione di un Paese. Anche in Italia, oltre 10 anni il primo Startup Act, questa convinzione di è diffusa ed è entrata anche nelle stanze più istituzionali e negli ambienti più tradizionalisti, sebbene non manchino ancora le resistenze.
Le startup, con l’innovazione che portano nel sistema economico, sono fattori di crescita e competitività, come ha ricordato dall’alto della sua posizione e della sua esperienza anche un rappresentante dell’establishment come Mario Draghi nel suo tanto citato (ma ancora poco seguito) “Rapporto sulla competitività europea” dell’autunno 2024. Creano nuovo valore, per se stesse, per le aziende tradizionali che con loro riescono a sviluppare un dialogo costruttivo, ma creano anche nuova occupazione e contribuiscono alla competitività del Paese in cui nascono e operano.
Una startup innovativa è diversa da una normale impresa
Secondo la definizione classica di Steve Blank, imprenditore e docente a Stanford che ha creato il modello di riferimento e scritto libri che sono la bibbia per i nuovi imprenditori, una startup ( e non start up e qui spiego perché) è “una organizzazione temporanea che attua un business model scalabile o replicabile”. Parliamo, quindi, di aziende neonate ma con DNA e prospettive da gigante.
L’alchimia della startup è unica: richiede persone con buone idee, che servono a poco se mancano quelle con capacità organizzative e i capitale necessari per farle diventare realtà economicamente sostenibili. Solo se questi tre ingredienti si mescolano nelle giuste dosi c’è la possibilità di creare un business innovativo. Con un’avvertenza: la startup non è ancora un’impresa con un business model definito e immutabile. Non è detto che ci azzecchi subito.
È, quindi, una organizzazione temporanea per definizione, che deve avere la capacità di vedere e accettare rapidamente gli errori, cambiare la strategia, rivedere i modi di operare. Il carico più pesante è sulle spalle del o dei founder, leader-fondatore, ma conta anche il coinvolgimento di diverse competenze e professionalità capaci di un rapporto “distaccato” con l’embrione di impresa.
Per questo ci sono mentor, business angel e angel investor (investitori privati che sono anche “superconsulenti” che mettono a disposizione competenze e network), incubatori e acceleratori dove le startup vengono sostenute soprattutto nella loro fase iniziale (che in gergo viene definita early stage) e altri operatori che aiutano le startup a trovare la loro strada e a crescere.
A differenza delle imprese tradizionali, quindi, la startup ha un’organizzazione fluida, una gerarchia informale e, soprattutto, lavora su progetti ad alto rischio perché spesso non hanno precedenti, a volte neanche concorrenti e devono quindi verificare la bontà dell’idea e la sostenibilità del business strada facendo. Fino a quando non si cresce, aumenta il livello di maturità e, se le cose vanno bene, si diventa scaleup, cioè impresa in cui crescono dimensione, fatturato (di solito a doppio cifra) e presenza sul mercato (anche a livello internazionale).
Le startup in Italia
Nonostante tutto, nonostante il tradizionale scarso sostegno alle imprese e la poco diffusa cultura imprenditoriale, anche in Italia le startup sono diventate una realtà ormai all’attenzione degli operatori internazionali, come confermano i sempre più consistenti investimenti di fondi statunitensi o europei e alcune exit (il momento in cui la nuova impresa viene acquisita da un’altra azienda o fa una quotazione in Borsa e gli investitori realizzano un ritorno del loro investimento, quando le cose vanno bene) in cui gli acquirenti sono americani o comunque stranieri.
È accaduto tutto negli ultimi 10 anni, dopo lo Startup Act del 2012, il primo quadro normativo che ha dato una definizione normativa di startup innovativa, riservando a questo tipo di imprese alcune semplificazioni e diversi incentivi anche per chi investe. A fine 2024 è stato fatto dal legislatore un aggiornamento delle regole per definire meglio la differenza fra una startup e una nuova impresa di qualsiasi settore e per mettere ordine negli incentivi per chi investe in un contesto in cui le risorse finanziare, seppure in aumento, sono ancora scarse rispetto ad altri Paesi (qui gli ultimi dati sugli investimenti di venture capital)
L’importanza dell’ecosistema di startup e innovazione
“I soldi sono solo un mezzo. Da soli non valgono nulla”, rassicura in qualche modo Greg Horowitz, un venture capitalist di lunga esperienza autore di un libro di culto per i founder di startup, “Rainforest: the secret to building the next Silicon Valley”, in cui sviluppa la sua teoria della foresta pluviale dove la vegetazione cresce all’ombra dei grandi alberi e con una continua irrigazione naturale.
Per Horowitz, bisogna cercare i soldi giusti: «Avete bisogno di smart money: quando qualcuno investe in una startup la cosa più importante non sono i soldi, ma quello che conosce e chi conosce. È questo che crea tutto il valore. I soldi sono solo qualcosa di cui c’è bisogno per fare le cose. Occorre costruire partnership intelligenti, perché se i soldi non ci sono possono arrivare dall’estero, ma perché ciò accada servono contatti di cui potersi fidare». Una lezione seguita da molti founder italiani.
Quello delle startup è diventato un movimento che, un’onda dopo l’altra dalla Silicon Valley, si è diffuso nel mondo. In Italia la “rainforest” è popolata da circa 30mila startup, che vedono impegnati quasi 90mila soci e costituiscono un pezzo importante di quella filiera dell’innovazione dove ci sono circa 2500 PMI innovative (sono le startup innovative che hanno superato il periodo previsto dalla legge), 262 tra incubatosi e acceleratori certificati, 55 parchi scientifici e tecnologici e quasi 10mila dipendenti. Una filiera che abilita oltre 200mila persone e vale, nel suo complesso, quasi 40 miliardi di risorse mobilitate, secondo un’analisi effettuato da InnovUp, l’associazione che rappresenta l’ecosistema italiano dell’innovazione.
Il mito della Silicon Valley
Anche nell’ecosistema italiano nlinguaggio, rituali e modelli di riferimento sono quelli della Silicon Valley, la valle del silicio, quell’area meridionale della baia di San Francisco culla, a partire dagli anni 50 del secolo scorso, di imprese tecnologiche (da Hewlett-Packard ad Apple) e startup digitali di successo mondiale (da Google a Facebook). Ancora oggi resta l’ecosistema più avanzato per capacità di innovazione e potenza finanziaria: non c’è founder che non abbia fatto o voglia fare un pellegrinaggio lì dove hanno creato le loro imprese Steve Jobs e Mark Zuckerberg.
La mitologia è sostenuta da fatti: se si guarda alla mappa mondiale degli ecosistemi dell’innovazione il Nord America resta quello più potente. Due indicatori: quasi la metà delle 90mila scaleup attive nel mondo e degli investimenti globali sono lì e la Silicon Valley resta il polo principale di quell’ecosistema (i dati vengono da uno studio di Mind the Bridge di fine 2024).
Ecco perché Greg Horowitt, laureato in biochimica ed economia (con una seconda laurea in musica, tiene a precisare), dopo aver fatto la sua startup tecnologica ed essere diventato un venture capitalist, ha indossato i panni dell’evangelista che si è dato come missione l’esportazione nel mondo del modello della Silicon Valley e della rainforest.
Non sempre è possibile applicarlo e ogni ecosistema ha caratteristiche legate alla cultura, alle tradizioni e alle caratteristiche economiche del Paese, ma le startup nascono e crescono sempre in un ambiente che sembra caotico, dove tutto appare spesso casuale ma in realtà si muovono all’interno di reti di persone e di organizzazioni che rappresentano veri e propri trampolini di lancio. Per questo nella filosofia del founder un principio fondamentale è la condivisione: le idee cominciano ad esistere e ad avere un valore quando si scambiano e circolano.
Il valore delle startup per le imprese trradizionali
Un quarto di secolo dopo la sua teorizzazione (il libro del professore californiano Henry Chesbrough “Open Innovation: the new imperative for creating and profittino from Technology” è del 2003) l’innovazione aperta è diventata una pratica diffusa a livello internazionale e anche in Italia.
Che cos’è? Ecco la definizione di Chesbrough: “L’Open Innovation è un modello di innovazione distribuita che coinvolge afflussi e deflussi di conoscenza gestiti in modo mirato tra i confini dell’organizzazione fino a generare anche ‘spillover’, il fenomeno che avviene quando un’attività economica produce effetti positivi anche oltre gli ambiti per cui agisce“.
Le startup prima fonte di innovazione
Le startup sono il principale ingrediente di questo modello che, con applicazioni e intensità diverse, ispira anche la maggioranza delle grandi imprese italiane, l’88% (con il 62% che ha avviato collaborazioni) secondo un recente report degli Osservatori Startup Thinking e Digital Transformation Academy del Politecnico di Milano, che fanno questa previsione: nel 2027 le startup diventeranno la prima fonte di stimolo all’innovazione, superando i vendor di tecnologie, il management interno e le società di consulenza.
Nelle PMI, com’è facile prevedere, la situazione è diversa (il 31% pratica l’open innovation) anche se non mancano i casi di dialogo e attività con le startup grazie anche a un mercato di servizi che permette di accedere a questa opportunità di innovazione: vale circa 3 miliardi, secondo il monitoraggio annuale dell’Italian Innovation Open Lookout del Politecnico di Milano, ed è in forte sviluppo proprio per l’esigenza di tutto il sistema economico di aumentare produttività e competitività con le soluzioni innovative delle startup portate in ogni angolo dell’azienda (dalla gestione del personale alla produzione).
L’intelligenza artificiale e la sua diffusione sono diventate un fattore di accelerazione del dialogo aziende – startup, perché secondo le imprese tradizionali il primo fra i vantaggi dell’innovazione aperta con le startup è la possibilità di esplorare i nuovi trend tecnologici. Ma ci sono anche benefici più concreti: identificare nuove opportunità di business, accelerare l’innovazione, stabilire nuove partnership, acquisire competenze che mancano nell’organizzazione.
Le startup come leva di competitività
Appare chiaro a questo punto perché nel Rapporto Draghi per la competitività europea ci siano parole chiare sulla necessità di incentivare gli investimenti in startup. C’è da colmare un ritardo pericoloso: un terzo degli unicorni europei (le startup che hanno superato il miliardo di valutazione) si trasferisce negli Stati Uniti o guarda al listino azionario americano perché nel Vecchio Continente la crescita è ancora ostacolata da barriere strutturali e normative.
La crescita è importante per la singola impresa, per il sistema economico ma anche per le future startup perché quando una startup cresce, diventa scaleup e poi grande azienda continua ad alimentare il processo di innovazione. I founder che hanno fatto la exit, finanziano o creano nuove startup o le nuove tech company comprano altre startup. Google e Apple non hanno mai smesso di fare acquisizioni di startup per innovare o entrare in nuovi mercati, Microsoft e Amazon stanno investendo miliardi nelle startup dell’intelligenza artificiale.
L’innovazione delle startup e la sovranità tecnologica
Qui entra in gioco il fattore strategico, che giustamente preoccupa il presidente Draghi e adesso, finalmente, anche l’Europa. Se non si sostiene l’innovazione delle startup si rischia di perdere la sovranità tecnologica. Per questa ragione sta crescendo l’attenzione sull’intelligenza artificiale, sull’economia dello spazio e sulle cosiddette startup deeptech, quelle che sviluppano tecnologie di frontiera basate sulla ricerca in campi come la medicina o, appunto, l’aerospazio.
Ecco perché tutti i governi europei stanno attuando politiche stabili di sostegno delle imprese innovative con norme semplici e un mercato aperto che favorisca la concorrenza e lasci spazio ai nuovi arrivati. Ecco perché per la prima volta c’è una Commissaria Europea per le startup, la ricerca e l’ìnnovazione, Ekaterina Zaharieva, che ha manifestato la volontà politica di arrivare a un 28° regime, un nuovo status giuridico a livello europeo (UE) per aiutare le “innovative company” a crescere grazie a norme più semplici e armonizzate.
Non tutte le startup saranno imprese di successo. La gran parte sono destinate a fallire o a una vita grama ma, se la proliferazione continua e le migliori saranno adeguatamente sostenute, il ciclo sarà virtuoso e sarà possibile avere le giuste pennellate per ridisegnare il nostro futuro.
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