Per le imprese italiane l’energia elettrica continua a costare il 30% in più della media europea, nonostante il 45% della produzione avvenga con fonti rinnovabili. A pesare sulle bollette sono anche gli oneri generali di sistema e i permessi di emissione di CO2, che le centrali che utilizzano combustibili fossili devono acquistare.
Per cercare di capire cosa concretamente si possa fare per ridurre i prezzi dell’elettricità nel nostro Paese abbiamo interpellato Massimo Beccarello – Professore associato di Economia dei settori produttivi presso l’Università di Milano-Bicocca, dove dirige il Centro di economia e regolazione dei servizi, dell’industria e del settore pubblico (Cesisp) -, che, tra le altre cose, ci ricorda come sul costo dell’energia rinnovabile pesi «la parafiscalità, che non è pagata allo stesso modo da tutte la categorie di consumatori».
Guardando in particolare alle imprese, la ripartizione di questo costo dipende anche da decisioni prese a livello europeo?
Sì, ma non vorrei parlare solo del passato. Oggi la Commissione europea con il Clean Industrial Deal ha introdotto un documento che a livello nazionale stiamo trascurando nella sua rilevanza. Questo documento identifica un perimetro di linee di azione, strumenti per il mercato dell’energia come il decoupling dal gas, la disponibilità a una revisione sulla disciplina sugli aiuti di stato per mitigare il costo dell’energia per le industrie. Con questi atti la Commissione finalmente riconosce gli effetti della transizione sulla competitività del sistema produttivo e chiede agli Stati membri un contributo anche di idee. Un’occasione da non lasciarsi scappare.
Tornando alle decisioni in essere, la Commissione europea, sulla base di un regolamento del 2014, aggiornato nel 2022, ha identificato una lista di codici Ateco riferiti a settori industriali, a cui gli Stati membri possono concedere sconti sulle componenti parafiscali connesse ai sussidi alle rinnovabili, rispettando, tuttavia, dei criteri di pagamento minimo. In buona sostanza, i grandi energivori a rischio delocalizzazione riducono il loro costo su queste componenti a un contributo minimo pari ad almeno lo 0,5% del loro valore aggiunto. I criteri con cui la Commissione ha individuato questi settori sono due.
Quali?
L’intensità energetica e una significativa esposizione alla concorrenza internazionale, così da evitare il rischio di delocalizzazione delle attività. Questi principi peraltro erano stati usati nel 2012 anche per determinare la compensazione dei costi dovuti all’acquisto dei permessi di emissione della CO2 che indirettamente finiscono nel prezzo dell’elettricità. Va detto che i criteri utilizzati non sono privi di criticità per alcuni settori manifatturieri italiani, soprattutto in questo secondo caso.
In che senso?
Prendiamo un settore di eccellenza energivoro come quello della ceramica: paradossalmente non soddisfa appieno i criteri individuati dalla Commissione perché i grandi produttori si trovano sostanzialmente in Italia e in Spagna. Quindi, nella media di 27 Paesi europei, si abbassa notevolmente il parametro relativo all’esposizione del settore alla concorrenza internazionale. C’è un forte problema di “media del pollo” di trilussiana memoria. Un problema che riguarda anche molte produzioni del settore automotive, la fabbrica delle fabbriche, vista la rilevanza dell’indotto.
Questo tema dovrebbe essere rapidamente affrontato nell’ambito del Clean Industrial Deal. La struttura manifatturiera tra i Paesi europei è diversa da Stato a Stato, il documento dovrebbe rivedere la disciplina degli aiuti premiando le eccellenze dei diversi sistemi manifatturieri piuttosto che uniformarle con il rischio di un arretramento collettivo.
Ci spieghi meglio.
Guardiamo anche al futuro. Si sta parlando molto degli investimenti di grandi colossi informatici per la creazione di data center, anche nel nostro Paese, che sono strategici per non perdere il treno dello sviluppo della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale. Si tratta di strutture fortemente energivore che non potrebbero godere di alcun sconto in quanto l’ICT, settore di cui fanno parte, a livello europeo non è significativamente esposto alla concorrenza internazionale.
È bene in ogni caso chiarire un aspetto importante a proposito di questi sconti sugli oneri di sistema: qualcuno deve finanziarli e queste decisioni allocative richiedono necessariamente una visione strategica delle priorità di politica industriale, ma anche un “patto sociale” tra famiglie e sistema produttivo al fine di garantire opportunità di sviluppo.
Perché per abbassare i costi dell’elettricità viene indicato come soluzione il disaccoppiamento del costo dell’energia prodotta dalle rinnovabili da quello del gas?
Nel sistema in cui si forma il prezzo dell’energia elettrica, il meccanismo del system marginal price fa sì che l’impianto di generazione più costoso, necessario a soddisfare la domanda, sia il price maker. Per circa il 60% delle 8.760 ore dell’anno questo impianto è rappresentato dalla centrali a gas. Le quali, oltretutto, devono acquistare i permessi di emissione di CO2.
Di conseguenza il prezzo dell’energia prodotta da rinnovabili, ritirata dal Gestore dei servizi energetici (Gse) a valle delle aste che definiscono il livello di incentivo, viene sottoposto a un ricarico dato dal costo dell’energia prodotta col gas che ha al suo interno anche la componente di permesso di emissione di CO2. Un ricarico che tra l’altro non finisce nelle tasche dei produttori di rinnovabili.
Il problema è che in origine il costo della CO2 serviva per dare un vantaggio implicito alla produzione rinnovabile 10 anni fa più costosa. Adesso paradossalmente il prezzo della CO2 ci fa pagare di più l’energia rinnovabile anche se risulta più conveniente impedendo di ridurre il prezzo finale dell’elettricità. Un disaccoppiamento aiuterebbe a evitare questa distorsione.
Di disaccoppiamento si parla da tempo, perché sembra impossibile da attuare?
Per arrivare a un disaccoppiamento bisogna apportare delle modifiche alla struttura delle piattaforme commerciali del gestore del mercato elettrico. Va inoltre completata la piattaforma di mercato per negoziare i Power Puchase Agreement accanto al meccanismo di asta gestito dal Gse. In questo modo completiamo l’assetto delle piattaforme per avere “segnali di prezzo” a lungo termine in quanto le tecnologie rinnovabili hanno solo costi fissi e, per la loro negoziazione, l’attuale meccanismo di prezzo marginale risulta inadeguato.
Inoltre, va considerato che oggi l’energia prodotta ad esempio da fotovoltaico ed eolico viene ritirata dal Gse in base a un contratto “pay as produced”, cioè viene pagata l’energia prodotta effettivamente dall’impianto senza garanzie sulla quantità. Occorrono, quindi, dei servizi ancillari per garantire un bilanciamento della rete rispetto alla domanda. La soluzione ideale è quella di sviluppare i servizi connessi a sistemi di accumulo oppure di pompaggi idroelettrici ma anche ad altri impianti inclusi quelli a gas, per avere un mercato denominato di “time shift”, che consente di utilizzare l’energia prodotta dalle rinnovabili nelle 24 ore del giorno.
Quanto può volerci per mettere in atto queste modifiche?
Si tratta di interventi che, se avviati oggi, richiederebbero almeno un paio d’anni per essere completati. È una strada che va attivata sul piano progettuale da subito. Gli obiettivi di decarbonizzazione determineranno un struttura di produzione deve le rinnovabili saranno tra il 70% e il 75% della produzione e il gas avrà un ruolo progressivamente sempre più residuale. In questa prospettiva dobbiamo adeguare le strutture di negoziazione nate per accompagnare un vecchio modello di concorrenza tra tecnologie destinate a pesare sempre di meno sulla liquidità del mercato.
Oggi come si può riuscire ad avere un prezzo dell’elettricità più basso?
Nel breve si potrebbero rafforzare misure simili all’energy release con attenta valutazione agli effetti redistributivi, compiere scelte sul trasferimento della parafiscalità della bolletta elettrica alla fiscalità generale. Quest’ultimo tema, purtroppo, rischia di introdurre un rischio importante che sta emergendo a livello europeo ovvero, e in parte lo abbiamo visto durante la recente crisi del gas, il fatto che non tutti i Paesi hanno la stessa leva di azione sulla fiscalità generale determinando implicazioni sulla competitività energetica futura. Questo apre uno scenario con nuovi rischi.
Quale scenario?
Se osserviamo realisticamente le principali istanze pervenute negli ultimi 10 anni sia dal lato della domanda che dell’offerta, emergono soprattutto richieste di tutela sia in termini di misure per salvaguardare gli investimenti in impianti e reti, sia per ridurre il costo dell’energia. È un trend che ha evidenziato lo spostamento da un modello di mercato, dove per abbassare i costi occorreva far funzionare bene la concorrenza, a un’impostazione dove l’efficienza viene richiesta con istanze crescenti di una regolamentazione più efficace rispetto alle politiche per la sostenibilità e industriali.
Il fenomeno non è solo nostro, in molti mercati elettrici europei, come ad esempio la Francia o la Spagna, le istanze in questa direzione sono state anche più marcate. In questo scenario la leva fiscale potrebbe diventare un fattore di competitività importante tra Paesi.
Per abbassare i prezzi in un mercato non basterebbe aumentare l’offerta, in questo caso di energia rinnovabile?
È così, ma oggi, come vediamo dalle vicende legate alle aree idonee per la costruzione di impianti a fonti rinnovabili, non c’è libertà di impresa per sviluppare l’offerta con relativi effetti sugli extra costi da “rendita terriera”. Sul tema vedo un peccato originale legato al fatto che la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia sono materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Gli oneri purtroppo sono solo a carico dell’amministrazione centrale che assume impegni vincolanti a Bruxelles, mentre le Regioni sono prive di un vero “incentivo” per remare nella stessa direzione. Di fronte agli obiettivi di emissioni zero al 2050 un riflessione sull’attuale assetto di governance andrebbe effettuata per evitare ulteriori inefficienze che non possiamo più permetterci.
(Lorenzo Torrisi)
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