Ristrutturazione dei debiti

procedure di sovraindebitamento

 

Manifesto di 140 organizzazioni in difesa del servizio sanitario nazionale – Salute e Benessere


MILANO – Un patto in dieci punti in difesa della sanità pubblica, e per ricostruire il Servizio sanitario nazionale (Ssn), è stato presentato oggi, 18 giugno, nella sede della Acli, a Milano. 

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È stato illustrato il manifesto di oltre 140 organizzazioni della società civile per rilanciare un sistema equo, universale e sostenibile, “contro l’autonomia differenziata e il declino del Ssn”. 

Nel documento, intitolato “Non possiamo restare in silenzio. La società civile in difesa della sanità pubblica”, si chiede: il finanziamento adeguato del Ssn; il potenziamento del personale sanitario; il riorientamento dei fondi sanitari integrativi, per evitare disparità e derive privatistiche; la riorganizzazione delle cure primarie, con un ruolo centrale dei Distretti sociosanitari e delle Case della comunità; l’attuazione della riforma per la non autosufficienza, con priorità alla domiciliarità e al governo pubblico. 

E ancora: governance dell’assistenza farmaceutica; promozione dell’l’approccio One health, per contrastare i determinanti ambientali, sociali e commerciali della salute; esclusione della sanità dall’autonomia differenziata; garanzia dei Livelli essenziali di assistenza e prestazioni, con risorse certe e meccanismi perequativi e, infine, rafforzamento del ruolo del Parlamento, a tutela dell’universalità dei diritti sanitari in tutta Italia.

“La prevenzione richiede dirigenti del Ssn formati attraverso l’istituzione della Scuola Superiore di Sanità. Se vogliamo trattenere medici e infermieri nel Ssn dobbiamo aumentare gli stipendi. Si deve realizzare, il più presto possibile, una revisione sistematica del Prontuario Terapeutico Nazionale da parte di un comitato indipendente presso l’Aifa”, ha dichiarato Silvio Garattini, fondatore dell’Istituto Mario Negri. 

“Serve una svolta culturale: passare dalla sanità alla salute, come diritto universale. In un tempo segnato da spinte alla privatizzazione, rafforzare il sistema pubblico e integrare servizi sanitari e sociali è fondamentale. Le politiche di salute sono politiche sociali”, ha sottolineato don Virginio Colmegna, presidente di Prima la comunità.

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IL DOCUMENTO

La società civile per la sanità pubblica

Questo documento nasce dal lavoro congiunto delle oltre 130 associazioni che, aderendo all’appello “Non possiamo restare in silenzio. La società civile in difesa della sanità pubblica”, hanno deciso, in occasione dell’incontro di Firenze del 22 febbraio 2025, di riaffermare valori e indirizzi comuni e individuare gli elementi fondamentali per il rilancio del Ssn, anche alla luce dell’attuale preoccupante dibattito politico e istituzionale.

Il percorso avviato con l’appello del novembre 2024 ha l’obiettivo di unire le tante forze che sempre più diffusamente, in tutte le regioni, non vogliono arrendersi al declino del Servizio sanitario nazionale, sono pronte a partecipare a iniziative di mobilitazione e chiedono un eguale impegno da parte dei decisori e delle forze politiche.

Il documento si apre con un elenco di 10 punti chiave e si articola in due capitoli: 1. Il rilancio del Ssn. 2. L’Autonomia differenziata fa male alla tutela della salute.

Ciascun capitolo affronta i temi che più minacciano i diritti e il benessere delle persone. Il documento non ha quindi ambizioni di esaustività ma intende individuare cosa non si deve fare (né oggi, né domani) e cosa si può fare (a partire da oggi) per avviare una decisa inversione di tendenza.

Nel documento non trovano adeguata trattazione alcuni temi che, per quanto importanti, potranno essere sviluppati in successivi momenti di approfondimento, a partire dall’assistenza ospedaliera, area relativamente più strutturata e organizzata di altre che richiedono invece un consistente e urgente impegno.

10 punti chiave per il rilancio della sanità pubblica e contro l’autonomia differenziata delle Regioni

    Assistenza per i sovraindebitati

    Saldo e stralcio

     

  1. Il declino del Ssn non è irreversibile. Il secondo pilastro – l’assistenza cosiddetta “integrativa” dei fondi e delle assicurazioni – non è la soluzione. Servono scelte coerenti con il dettato costituzionale, le priorità espresse dalla popolazione e le evidenze scientifiche.
  2. Il Ssn deve poter contare su risorse adeguate, per garantire il diritto “incomprimibile” alla salute, ridurre gli enormi divari rispetto ai principali paesi europei e colmare quelli al suo interno, ridare fiducia (e risposte) alla popolazione. Deve recuperare capacità di programmazione, indirizzo e controllo a tutti i livelli di governo e potenziare la produzione e l’erogazione diretta di servizi e percorsi di cura da parte delle strutture pubbliche, riducendo progressivamente il ricorso a erogatori privati.
  3. Le risorse devono essere destinate agli ambiti prioritari di intervento, in primo luogo al personale del Ssn di tutti i livelli, alla prevenzione, alle cure primarie e alla domiciliarità in particolare per le persone non autosufficienti e con disabilità.

    Le politiche del personale non possono continuare ad essere soggette a tetti di spesa anacronistici e causa di effetti perversi fin troppo noti. È necessario adeguare dotazioni e remunerazioni, migliorare le condizioni di lavoro, promuovere formazione e opportunità di crescita professionale e di carriera.

  4. I fondi sanitari devono essere riorientati all’interesse generale, prevenendo la creazione di iniquità ed inefficienze, limitando le agevolazioni fiscali ai fondi realmente integrativi e preservando il loro carattere non lucrativo anche nella gestione delle quote versate.
  5. È necessario lo sviluppo e una solida riorganizzazione delle Cure Primarie, articolata per Distretti sociosanitari, per un’assistenza di prossimità, contro l’epidemia di cronicità, che si prenda effettivamente cura delle persone in modo integrato e proattivo, con la partecipazione della popolazione attraverso le Case della Comunità e il governo del Distretto.

    L’attuazione della riforma dell’assistenza per le persone non autosufficienti non può essere ulteriormente rinviata: adeguare il finanziamento del Fondo per la non autosufficienza, garantire il governo pubblico di tutti gli interventi, dare effettiva priorità alla domiciliarità e superare i pesanti limiti della sperimentazione universale.

  6. Il governo dell’assistenza farmaceutica richiede la regolare revisione di prezzi e farmaci a carico del Ssn, l’adozione di rigorosi criteri per la valutazione dei farmaci innovativi, la promozione dell’appropriatezza nella prescrizione e nel consumo. È necessario sostenere a livello europeo la creazione di una infrastruttura pubblica per la ricerca e la produzione di farmaci e vaccini.
  7. One Health: la salute in tutte le politiche, per contrastare i determinanti sociali e commerciali della salute; potenziare la tutela della salute nei luoghi di vita e di lavoro; attivare azioni mirate ai rischi ambientali legati all’inquinamento e ai cambiamenti climatici.
  8. Vuoi bloccare la procedura esecutiva?

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  9. La sentenza della Corte costituzionale n. 192 del novembre 2024 sull’autonomia differenziata ha avuto un “massiccio effetto demolitorio” nei confronti della legge Calderoli.

    Il modello deve essere necessariamente di tipo “cooperativo” (e non duale) e deve tener conto dei principi inderogabili di solidarietà, perequazione, unitarietà delle politiche, parità del diritto all’accesso.

    Non si possono trasferire interi blocchi di materie o ambiti di esse, ma solo singole funzioni e solo dopo un’approfondita istruttoria che evidenzi i benefici recati alla collettività̀ (e non alla singola regione).

    I Lep devono essere adeguatamente finanziati a garanzia dei diritti fondamentali in tutto il territorio nazionale. Le materia “No Lep” semplicemente non esistono.

  10. La sanità deve essere esclusa dall’Autonomia Differenziata.
  11. Dopo la sentenza 192/2024 è fondamentale il ruolo del Parlamento. Promuovere una proposta di legge per una corretta interpretazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

1. Il rilancio del Servizio Sanitario Nazionale

Premessa

Da troppo tempo il Servizio sanitario nazionale, un patrimonio fondamentale per la salute delle persone e per la coesione sociale, non riceve la giusta attenzione. Da troppo tempo osserviamo una grande indifferenza nei confronti del progressivo indebolimento della sanità pubblica. Eppure, a dispetto della storica penuria di risorse e delle continue difficoltà, il Ssn è sempre stato capace di raggiungere buoni risultati in termini di salute, migliori di quelli mediamente osservati nel resto dell’Europa. Risultati dovuti alla lungimiranza di chi negli anni ’70 ha saputo scegliere per il nostro Paese un sistema universalistico ed equo, oltre che al lavoro di tanti professionisti e al contributo di famiglie e persone.

Da anni, tuttavia, il Ssn sta attraversando una lenta e profonda crisi. Stiamo scivolando pericolosamente verso un sistema che garantisce la salute solo a chi se la può permettere, per condizione economica, luogo di residenza, posizione lavorativa o bisogno di assistenza.

Stiamo scivolando verso un Ssn “residuale”, che si occupa solo di ciò che non interessa il mercato privato o protegge solo i rischi non assicurabili. Ma il Ssn non può essere “residuale”. Il Ssn, o è universale, globale e solidale, o non è un Servizio sanitario nazionale. Non è possibile preservare i princìpi del Ssn riducendo le sue tutele e sviluppando per ampia parte dell’assistenza un secondo pilastro, mutualistico e assicurativo. Questo ci riporterebbe ai tempi delle mutue, costose e inique, che abbiamo superato proprio con l’istituzione del Ssn.

Chi sostiene che sia preferibile per tutti far convivere un Ssn ridimensionato (per i più disagiati) e un secondo pilastro rafforzato (per chi se lo può permettere) nasconde i rischi di modelli unanimemente riconosciuti meno efficienti e più iniqui, sfrutta le difficoltà della finanza pubblica per giustificare soluzioni che graverebbero invece pesantemente proprio sul bilancio dello Stato e quindi sui contribuenti, semina paure e luoghi comuni aderendo acriticamente all’idea che la salute sia un bene di consumo come qualunque altro bene e che quindi possa essere consegnata agli interessi dei mercati.

Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 

Siamo fermamente convinti invece che il declino del Ssn non sia irreversibile. Servono scelte coerenti con il dettato costituzionale, con le aspettative e le priorità espresse dalla popolazione e con le evidenze scientifiche, tutte a favore di sistemi universalistici, globali e solidali. Per questo è necessario bloccare il declino del Ssn e avviare un suo progressivo rafforzamento. È possibile. La storia, anche recente, insegna che quando un obiettivo è considerato prioritario le risorse si trovano. Basta modificare l’allocazione delle risorse, contrastare seriamente l’infedeltà fiscale, rivedere il sistema fiscale in senso equo e progressivo. Non possiamo rischiare ulteriori tagli al welfare, a maggior ragione per compensare l’aumento delle spese militari o anche solo per pagare gli interessi sui debiti che dovranno essere sottoscritti. Non possiamo continuare con un welfare soffocato da stringenti vincoli di bilancio mentre la difesa ottiene finanziamenti sottratti alle regole europee.

Ma non è un problema solo finanziario. È in primo luogo un problema culturale e politico. La tutela della salute deve essere affrontata nella consapevolezza che la salute è un diritto fondamentale, senza la quale non è possibile “il pieno sviluppo della persona umana” (Costituzione, art. 3) e che “il diritto alla salute, coinvolgendo primarie esigenze della persona umana, non può … essere sacrificato fintanto che esistono risorse che il decisore politico ha la disponibilità di utilizzare per altri impieghi che non rivestono la medesima priorità” (Corte Costituzionale, sentenza 195/2024).

Questo non vuol dire lasciare tutto immutato: molto deve essere ancora fatto per dare piena attuazione ai principi della legge 833/1978 e ai tanti provvedimenti ignorati nella maggior parte delle nostre realtà, anche perché spesso non sostenuti da adeguati finanziamenti. Molto deve essere fatto per affrontare le sfide e le opportunità che i cambiamenti ambientali, sociali e tecnologici ci pongono. In particolare, molto deve ancora essere fatto per interrompere le distorsioni diffusamente praticate aderendo acriticamente a modelli di governo ottusamente aziendalistici, irrispettosi del valore del lavoro di tutti i professionisti e dei bisogni reali della popolazione, che combinano il peggio dei sistemi burocratici e di quelli imprenditoriali. Preservare gli equilibri di bilancio, fondamentale quando si utilizzano le risorse dei contribuenti, non può essere l’unica né la principale priorità perché è “la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionare la doverosa erogazione” (Corte Costituzionale – sentenza 275/2016).

Molto deve essere fatto per promuovere a tutti i livelli la cultura del “prendersi cura” delle persone, superando l’approccio “prestazionale” che pretende di rispondere ai bisogni di salute attraverso l’erogazione di singoli servizi (offerti dal mercato, nel più ampio ambito del consumismo sanitario). È necessaria invece, soprattutto per i problemi con un importante carico assistenziale come nelle cronicità, la capacità di progettare percorsi proattivi, coordinati e continuativi, con la partecipazione della persona assistita e del suo contesto di vita, garantiti da un sistema di interventi sanitari, sociali, abitativi integrati e non inquinati da interessi di profitto.

Adeguare le risorse ai bisogni di salute della popolazione

Il declino del Ssn è in primo luogo un problema di sottofinanziamento, documentato dalla tendenza, già avviata prima della pandemia, a una progressiva riduzione della percentuale del Pil destinata al finanziamento del Ssn: dal 6,8% del 2014 al 6% del 2025, fino al 5,6% previsto per il 2030.

Il sottofinanziamento è evidenziato anche dai confronti internazionali: l’Italia destina alla sanità pubblica solo il 12% del totale della spesa pubblica, contro il 20% della Germania, il 16% della Francia e il 15% della media UE. In termini pro capite, l’Italia spende un terzo in meno della media UE e quasi il 40% in meno della Germania, mentre in percentuale sul Pil la spesa sanitaria pubblica è in Italia inferiore alla media europea di circa 2 punti percentuali e ancor più contenuta rispetto a paesi come Germania e Francia.

Il primo obiettivo è garantire al Ssn risorse adeguate, prevedendo il progressivo avvicinamento del Fondo sanitario nazionale ai valori medi dei principali paesi UE. A tal fine è necessario procedere su più fronti: riforma del sistema fiscale che – nel rispetto del criterio di progressività di cui all’articolo 53 della Costituzione – superi gli elementi di flat tax via via introdotti ed elimini i tanti aggiustamenti adottati a favore di specifici ambiti o categorie; lotta all’evasione fiscale (anche rafforzando la tracciabilità dei pagamenti); riallocazione delle risorse (a partire da una attenta rimodulazione dei sussidi dannosi per l’ambiente e per la salute). Anche la revisione dell’imposta di successione, avvicinandola a quella di altri paesi europei, può contribuire a rafforzare il sistema di welfare a favore delle generazioni più giovani. Va inoltre precisato che il Ssn continua ad essere impegnato a contrastare frodi ed abusi e a promuovere l’efficiente utilizzo delle risorse, ma gli eventuali “risparmi” così ottenuti non possono compensare il suo sottofinanziamento.

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Ma non basta aumentare le risorse: bisogna anche destinarle a ciò che è cruciale per invertire la rotta. Le risorse aggiuntive devono essere destinate esclusivamente al potenziamento dei servizi e dei percorsi di cura assicurati direttamente dal Ssn, attraverso una nuova politica del personale e il congelamento dei contratti di fornitura con i soggetti privati accreditati.

Indispensabile è il rafforzamento della capacità di programmazione, indirizzo e controllo in tutti i livelli istituzionali, compreso il livello centrale, ormai gravemente impoveriti di professionalità ed esperienze. È fondamentale difendere la globalità dell’assistenza che deve essere garantita dal Ssn, rigettando ogni tentativo di riduzione dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) anzi adeguandoli agli sviluppi delle conoscenze, e completare la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni nel settore sociale. È altrettanto fondamentale rigettare l’ipotesi che la riduzione dei Lea sia l’unica via per finanziare programmi volti a eliminare le carenze che ancora esistono in vaste aree del Paese, il che comporterebbe un loro inaccettabile livellamento verso il basso per tutti. Per favorire l’effettivo esercizio del diritto alla salute delle persone che vivono nelle regioni e nelle aree con servizi sanitari in maggiori difficoltà è necessario invece prevedere programmi straordinari di convergenza e risorse aggiuntive, anche prevedendo il ricorso all’articolo 119 della Costituzione (c. 5).

È necessario porre fine alla pesante riduzione della spesa per il personale dipendente, passata dall’inizio del secolo ad oggi dal 39,8% al 29,8% della spesa del Ssn, a causa dell’anacronistico vincolo imposto da manovre di finanza pubblica incuranti del ruolo svolto dal suo principale fattore produttivo: i professionisti del Ssn. Gli interventi sul personale devono essere volti al riconoscimento del valore sociale del lavoro di cura:

adeguamento degli organici ai bisogni di salute della popolazione (e non solo ai vincoli di finanza pubblica), revisione del trattamento economico (un infermiere italiano guadagna circa un terzo in meno del collega tedesco), qualificazione dell’organizzazione del lavoro (anche tenendo conto della diffusa prevalenza delle donne nelle professioni di cura), miglioramento delle opportunità formative e di carriera, rafforzamento della formazione sul campo e della capacità di lavoro in equipe e di collaborazione fra territorio e ospedale, rinnovamento di tutte le competenze in relazione allo sviluppo delle scienze e delle tecnologie, con specifica attenzione al personale medico infermieristico e delle professioni sanitarie e sociali. Il Ssn deve tornare ad essere protagonista della propria crescita professionale e culturale utilizzando il grande patrimonio di conoscenze presenti al suo interno.

È necessario rivedere in modo sostanziale il modello di programmazione della formazione dei medici e delle altre professioni sanitarie, definendo un “numero programmato” adeguato ai reali bisogni socio sanitari della popolazione e superando le rigidità e gli errori del passato. In particolare, vanno evitate pseudo-soluzioni che evocano il superamento del numero chiuso (quando le carenze sono riferibili solo ad alcune specifiche specializzazioni post- laurea), si limitano a spostare di sei mesi le scelte degli studenti e impongono sforzi spropositati alle università. È necessario intervenire prioritariamente sulle gravi carenze delle professioni infermieristiche, aumentando l’attrattività dei corsi di laurea e la loro qualificazione.

Solo mettendo in atto rapidamente e con continuità questi interventi sarà possibile invertire l’emorragia di personale dal Ssn verso il privato o i paesi esteri, ridurre le esternalizzazioni di servizi essenziali a imprese commerciali o a cooperative spesso improvvisate e poco qualificate, mettere fine a fenomeni abnormi quali il ricorso ai “gettonisti” e ricondurre i rapporti pubblico – privato nell’ambito della programmazione pubblica.

Il “secondo pilastro” non è la soluzione

Di fronte al declino della sanità pubblica, il “Piano strutturale di Bilancio di medio termine 2025-29” – approvato dal Consiglio dei ministri il 27 settembre 2024 – anziché impegnarsi a rafforzare il Ssn prospetta il potenziamento del secondo pilastro attraverso “lo sviluppo e il riordino degli strumenti per la sanità integrativa”.

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Questa strada va fermata. Contrariamente a quanto sostenuto strumentalmente dai loro difensori, i fondi sanitari non sono la soluzione alla presunta insostenibilità del Ssn né tanto meno alle difficoltà di accesso ad un’assistenza appropriata a favore di tutta la popolazione. Questa strada va fermata per ragioni di equità e per ragioni di efficienza.

Per ragioni di equità, perché i fondi superano l’approccio della tutela della salute come diritto uniformemente riconosciuto a tutte le persone e (re)introducono uno stretto collegamento fra assistenza sanitaria e condizione occupazionale, producono una discriminazione a favore di alcune specifiche categorie di lavoratori (quelle con maggiori capacità contrattuali) e una differenziazione dei percorsi assistenziali su base categoriale e territoriale, escludono di fatto ampie parti della popolazione (quali disoccupati, lavoratori precari, pensionati e spesso anche i familiari degli iscritti), indeboliscono l’uniformità delle risposte sanitarie e affievoliscono le voci che dovrebbero invece rivendicare una migliore qualità dell’offerta pubblica per tutta la popolazione. Anche le agevolazioni fiscali a sostegno dei fondi sono causa di iniquità. Producono un minor gettito Irpef che è posto a carico dell’intera collettività di contribuenti (anche di chi non è iscritto ai fondi) e hanno effetti regressivi perché il beneficio cresce al crescere del reddito. Producono inoltre un minor monte contributivo che è posto a carico dei lavoratori aderenti al fondo sanitario i quali potranno contare, in vista del calcolo della loro pensione, su un minor ammontare di versamenti effettuati.

Dal punto di vista dell’efficienza complessiva del sistema, i fondi producono un eccesso di coperture assicurative, in particolare nei confronti di specifiche voci di spesa, come visite specialistiche e accertamenti diagnostici, e una moltiplicazione delle prestazioni erogate, con il conseguente rischio di aumento di prestazioni e diagnosi inappropriate, e quindi anche della spesa complessiva. I fondi operano infatti sulla base di un modello prestazionale, palesemente in contrasto con le esigenze di integrazione dei servizi e di presa in carico della persona, nonché sulla base di incentivi alla selezione delle prestazioni più remunerative a prescindere dalle priorità di salute, che, in sanità caratterizzano l’erogazione privata. In tale situazione si 

produce una perdita di benessere per la collettività e un aumento dei costi per la tutela della salute, ampiamente dimostrata nei paesi con sistemi sanitari basati sulle assicurazioni come gli Stati Uniti.

Più in generale, a dispetto della retorica dell’integrazione, i fondi cd integrativi sono sostanzialmente sostitutivi del Ssn (tra i fondi iscritti all’Anagrafe, quelli realmente integrativi sono solo il 4%). Una sanità sostitutiva, lungi dal rinforzare il Ssn sollevandolo da alcuni compiti di cura, rischia invece di peggiorare la qualità dell’assistenza per chi resta dentro la sanità pubblica: i servizi per i meno avvantaggiati rischiano infatti di essere servizi poveri. Al contempo, il Ssn subisce un aggravio di costi, in quanto i casi più gravi e costosi resterebbero, comunque, a carico della sanità pubblica.

Risulta quindi necessario riorientare le forme integrative di assistenza sanitaria verso l’interesse generale, prevenendo iniquità e diseconomie, limitando le agevolazioni fiscali ai soli fondi effettivamente integrativi, rafforzando le regole di funzionamento e la trasparenza del settore, preservando il principio della mutualità e il carattere non lucrativo dei fondi anche evitando l’affidamento della gestione alle compagnie assicurative.

Una solida riorganizzazione delle Cure Primarie

Il futuro delle politiche sanitarie è nelle Cure Primarie, il primo livello di contatto delle persone e delle famiglie, con un servizio sanitario capace di prendersi cura delle persone nei luoghi prossimi a quelli in cui vivono, costituendo il primo elemento di un processo continuo di assistenza che si avvale di una molteplicità di figure professionali (medici di medicina generale e specialisti, infermieri e tecnici delle professioni sanitarie, assistenti sociali, ecc.), anche appartenenti a servizi diversi (consultori, prevenzione, salute mentale e lo stesso ospedale) ma adeguatamente formati a lavorare in gruppo, promuovendo la piena partecipazione delle persone, delle famiglie e delle comunità. Questa concezione delle Cure primarie realizza un salto di paradigma: dalla erogazione di singole prestazioni al prendersi cura, un atto complesso fatto di biologia e di relazione, di ascolto e di proposta, di competenze tecniche e di etica, di una medicina sobria e rispettosa, in cui il prendersi cura comporta la progettazione di un percorso assistenziale proattivo e la partecipazione della persona assistita e del suo contesto di vita. Un concetto di Cure Primarie ben delineate sin dall’origine, nella Dichiarazione Universale di Alma Ata del 1978, che non ha mai trovato adeguata attuazione nel nostro Paese. Specialmente dopo la pandemia non possiamo più attendere.

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Lo sviluppo e una solida riorganizzazione delle Cure primarie, da attuare in tutte le regioni, si basa sul Distretto socio-sanitario, una struttura di governo che integra le competenze dei Comuni con quelle delle Aziende sanitarie territoriali per realizzare una pianificazione congiunta sociale, sociosanitaria e sanitaria, con la partecipazione delle rappresentanze sociali presenti sul territorio, e la sua efficace attuazione coordinando l’attività di tutti i servizi territoriali. A questo scopo, l’articolazione in Distretti socio-sanitari delle Aziende sanitarie territoriali deve evitare dannosi gigantismi e individuare la dimensione ottimale per assicurare la pronta accessibilità ai servizi da parte della popolazione e favorire dialogo e collaborazione fra operatori e servizi, tenendo conto delle peculiarità geografiche, sociali, storiche, epidemiologiche e infrastrutturali.

In quest’ottica la Casa della Comunità, spazio riconoscibile dai cittadini, è il luogo dell’accoglienza dove si realizza il prendersi cura della persona. Essa costituisce, finalmente, l’occasione da non sprecare affinché la comunità diventi protagonista del proprio progetto di salute partecipando alle decisioni che lo determinano. Un progetto di salute definito partendo dai bisogni e dalle risorse presenti, proiettato anche verso chi non arriva, i più vulnerabili, garantendo a ogni persona protezione e cittadinanza per tutta la vita, nella logica del superamento delle diseguaglianze di salute derivanti in larga parte da determinanti sociali, specie quelli socio-economici. Ed è con questi presupposti che si potrà realizzare concretamente, nella Casa della Comunità, il cui governo deve essere necessariamente pubblico, una effettiva integrazione sociale e sanitaria, sempre sbandierata e mai attuata, accanto a una partecipazione sostanziale della comunità e di tutti i soggetti che in essa operano.

In tale visione il Medico di Medicina Generale e il Pediatra di Libera Scelta devono e diventare una componente essenziale della equipe interdisciplinare e interprofessionale della Casa della Comunità indipendentemente dal luogo nel quale esercitano prevalentemente la loro attività: garantire la prossimità ai propri assistiti implica essere parte integrante di una equipe territoriale con attività disseminate sul territorio e attività interdisciplinari e interistituzionali svolte nella Casa della Comunità. Questo richiede la qualificazione della formazione e della formazione continua dei medici di medicina generale, con un percorso formativo specialistico universitario al pari degli altri professionisti del Ssn, e la possibilità di far parte, come loro, della dirigenza medica del Ssn.

La non autosufficienza: dare piena attuazione ai diritti e alle cure

L’Italia ha una popolazione sempre più anziana che necessita di un sistema di welfare che assicuri ai più fragili i servizi necessari per “prendersi cura” di loro. Premesso che la non autosufficienza è un problema con un predominante carattere sanitario, la riforma della non autosufficienza, inserita nel PNRR e approvata con la legge delega 33/2023, indicava risposte – attese da decenni – nell’ambito della prevenzione, della promozione dell’autonomia e dell’invecchiamento attivo, nonché dell’adeguamento degli interventi sociosanitari a domicilio, prevedendo l’integrazione delle attività, affiancando agli interventi sanitari (LEA) i tanto attesi Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali (LEPS). L’attuazione della legge delega è stata tuttavia dapprima ridimensionata (con il rinvio a numerosi ulteriori provvedimenti, i cui termini sono già scaduti), poi snaturata (intaccando il principio dell’universalità degli interventi facendo ricorso al consueto strumento dei bonus per ristrettissime categorie di persone, selezionate per anzianità e per reddito) e infine azzoppata (non essendo accompagnata da un progressivo incremento di fondi, per il sociale come per la sanità). Restano in particolare in attesa di attuazione le parti relative alla definizione dei LEP sociali, dei sostegni alle cure domiciliari, della riqualificazione della residenzialità: una riforma tradita da un’attuazione del tutto deludente.

È necessario adeguare il finanziamento del fondo per la non autosufficienza e garantire il governo pubblico degli interventi necessari ai diversi livelli: dare effettiva priorità alla domiciliarità, sviluppando l’assistenza domiciliare, adattando le abitazioni e promuovendo soluzioni innovative di coabitazione solidale; creare forme di protezione e supporto coerenti con il diritto di cittadinanza, superando i pesanti limiti della sperimentazione della prestazione universale, che ora si rivolge solo allo 0,6% delle persone non autosufficienti; garantire il governo pubblico del settore dell’assistenza residenziale e semiresidenziale e un’adeguata presenza di strutture pubbliche in un ambito attualmente dominato dalle imprese private, rivedendone anche gli standard per l’accreditamento.

Il governo dell’assistenza farmaceutica

L’Italia, con una spesa farmaceutica pubblica che nel 2023 è stata di 24,2 miliardi di euro, pari al 19% del finanziamento complessivo del Ssn, è uno dei paesi in Europa con il più ampio accesso a farmaci a carico della collettività. Sarà però possibile continuare a garantire l’accesso ai nuovi farmaci, in un quadro di sostenibilità della spesa, solo attraverso una valutazione rigorosa del valore terapeutico aggiunto ai fini di una maggiore differenziazione dei prezzi tra quelli ad alto e a basso valore terapeutico o, in alcuni casi selezionati, anche della loro rimborsabilità. Questa valutazione è inoltre necessaria per stabilire se un farmaco è veramente innovativo. In questa prospettiva è criticabile la modifica dei criteri che regolano il fondo dei farmaci innovativi, introdotta con la legge di bilancio 2025, così come la procedura proposta dall’Aifa in corso di adozione. Se si allargano le maglie, se non si distingue più fra farmaci realmente innovativi e farmaci solo potenzialmente innovativi, se si accettano anche i risultati derivanti da studi di qualità bassa o molto bassa, e se fra i comparatori di un nuovo farmaco si escludono i farmaci utilizzati off-label (privi di indicazione autorizzata per mancanza di interesse commerciale da parte delle aziende produttrici), si produce un danno grave alla sostenibilità della spesa.

La spesa farmaceutica a carico del Ssn è, però, solo una parte della spesa farmaceutica complessiva. Sempre nel 2023 la spesa farmaceutica sostenuta direttamente dalle famiglie ha raggiunto i 10,6 miliardi di euro. Molta di questa spesa privata potrebbe essere evitata. Informazioni comparative, messe a disposizione dall’Aifa e dalle Regioni e una maggiore trasparenza sui costi potrebbero consentire ai medici prescrittori e ai cittadini di orientarsi meglio e risparmiare. Circa 1,1 miliardi di euro riguardano, ad esempio, la differenza fra il prezzo minimo del farmaco generico e il prezzo di quello “griffato” (branded), nonostante i due prodotti siano del tutto equivalenti. Analogamente, anche per i farmaci non a carico del Ssn (cd fascia C) sono presenti differenze importanti di prezzo fra i prodotti generici e i rispettivi originatori. In entrambi i casi sono necessari specifici interventi di informazione (e anche di responsabilizzazione) dei medici prescrittori. Ancora: parte di questa spesa privata è per i farmaci contraccettivi, che dovrebbero essere gratuiti in tutto il Paese, mentre ora lo sono solo in alcune Regioni.

Naturalmente, non si tratta solo di governare il prezzo e la spesa dei farmaci, rimane la necessità di un uso appropriato. Ad esempio, un utilizzo eccessivo di antibiotici è responsabile della diffusione dell’antibiotico-resistenza e di un aumento dei decessi per infezioni in precedenza curabili. Migliorare l’uso degli antibiotici, sia a livello umano che negli allevamenti animali, è un intervento di prevenzione primaria con un rilevante impatto atteso di sanità pubblica.

Il governo della spesa farmaceutica pubblica, e di conseguenza anche di quella a carico delle famiglie, dipende in primo luogo dalle decisioni assunte dall’Aifa sia sui nuovi farmaci approvati dalla Agenzia Europea del Farmaco (EMA) che su quelli già inclusi nel Prontuario Terapeutico nazionale. Riguardo ai nuovi farmaci, Aifa contratta con le industrie farmaceutiche il prezzo di vendita e l’eventuale rimborso a carico del Ssn nonché le limitazioni all’uso e l’individuazione delle persone che possono beneficiare del trattamento. Inoltre, Aifa conduce una periodica (da troppo tempo attesa) revisione dei farmaci già inclusi nel Prontuario farmaceutico nazionale e dei loro prezzi. Recentemente, sono state assunte dall’Aifa decisioni riguardanti lo spostamento della distribuzione di intere categorie di farmaci di largo uso (come ad esempio gli antidiabetici) dalle strutture delle ASL alla rete delle farmacie private, il che comporta certamente un forte aggravio di spesa a fronte di un presunto vantaggio di accesso per i pazienti finora mai realmente documentato. Su altri aspetti, invece, come quello dell’appropriatezza prescrittiva e dell’aderenza terapeutica, ha un peso rilevante ciò che viene fatto a livello regionale e locale. Si spiega così buona parte della variabilità regionale nella spesa farmaceutica a carico del Ssn (esclusi i farmaci innovativi) che in rapporto al fondo sanitario della regione nel 2023 passava dal 15-16% in regioni come Veneto, Toscana e Lombardia al 19-20% in Campania, Abruzzo e Sardegna.

Diventa quindi necessario, per un’azione mirata anche ai rischi ambientali legati all’inquinamento e ai cambiamenti climatici favorire una collaborazione funzionale – in prospettiva di un riassetto istituzionale – tra i Dipartimenti di prevenzione delle ASL e le Agenzie di Protezione Ambientale, attivando procedure specifiche, momenti di coordinamento e programmi condivisi. In questa direzione va l’istituzione del Sistema Nazionale di Prevenzione Salute dai rischi ambientali e climatici (SNPS), quale parte integrante del PNRR, un Sistema che non è ancora decollato principalmente per la mancanza di impegno politico e istituzionale, che rischia di accentuare ulteriormente le differenze tra le regioni italiane.

Negli ultimi anni si è registrato un peggioramento degli indicatori generali su infortuni e malattie del lavoro. La “causa delle cause” è rappresentata dal modo di produzione, dalle condizioni di lavoro, dalla precarietà, dagli appalti al massimo ribasso e dalla diffusione dei subappalti. È urgente incrementare l’efficacia dei Dipartimenti di prevenzione nella tutela della salute nei luoghi di vita e di lavoro, con la partecipazione delle organizzazioni sindacali, rafforzare la centralità del livello nazionale e regionale, potenziare il sistema pubblico dei controlli e identificare le responsabilità a tutti i livelli.

È necessario contrastare, accanto ai tradizionali determinanti sociali, anche i “determinanti commerciali della salute” (le strategie delle industrie che in nome del profitto promuovono prodotti e scelte nocivi per la salute) adeguando le politiche regolatorie e fiscali nei settori maggiormente responsabili dei danni, al fine di ridurre il consumo di prodotti quali tabacco, alcol e “cibo spazzatura”, e integrando tali iniziative con azioni specifiche di tutela del consumatore e di contrasto alla narrazione dominante, anche attraverso campagne informative istituzionali. Il contrasto ai determinanti sociali e commerciali è un’azione finalizzata in particolare a ridurre le diseguaglianze e promuovere l’equità.

È altresì urgente potenziare i programmi organizzati di screening oncologici basati su solide prove di efficacia e quindi previsti dal Piano Nazionale di Prevenzione con azioni specifiche di informazione e prossimità finalizzate a incrementare la partecipazione delle popolazioni più difficili da coinvolgere e reindirizzare l’attività di screening spontaneo (per lo più svolta autonomamente attraverso erogatori privati) nel percorso dei programmi organizzati per garantire appropriatezza, qualità ed equità, nel rispetto dei criteri basati sulle migliori evidenze scientifiche.

Va infine potenziata la collaborazione dei Dipartimenti di prevenzione con le Case della Comunità e gli altri servizi distrettuali e i medici di medicina generale nelle attività di prevenzione per i pazienti cronici e su popolazioni a rischio con controlli periodici e counseling e interventi di disassuefazione.

La sentenza della Corte costituzionale n. 192 del novembre 2024 ha avuto un “massiccio effetto demolitorio” nei confronti della legge n. 86 del 2024 (legge Calderoli), per dirla con le parole della Corte, riprese testualmente dall’ordinanza con cui la Cassazione aveva dichiarato, a dicembre 2024, che le operazioni referendarie potevano continuare ad avere corso. Proprio la constatazione di tale effetto demolitorio ha costituito il motivo che ha portato il giudice costituzionale (con la sentenza n. 10 del 2025) a dichiarare inammissibile la richiesta di referendum abrogativo della parte sopravvissuta della legge stessa.

È da questo effetto “demolitorio” che occorre allora (ri)partire. La sentenza n. 192 ha una fondamentale portata. Essa motiva l’incostituzionalità di ben 7 disposizioni della legge – che peraltro ne rappresentano il cuore – e fornisce ben 5 interpretazioni “costituzionalmente orientate” (ed esclude dall’applicazione dell’articolo 116, terzo comma le regioni a statuto speciale). Soprattutto essa fissa un “modello” di regionalismo che è necessario rispettare se non si vuole incorrere nel rischio per le future leggi sull’autonomia differenziata di subire la stessa sorte della precedente. Da questa impostazione derivano importanti conseguenze.

1.

Il modello di regionalismo non può più essere quello “duale” che ci propone la legge Calderoli, ma se ne deve necessariamente adottare uno di tipo “cooperativo” (così espressamente indicato al punto 4 della sentenza della Corte costituzionale), tendendo conto dei principi inderogabili di solidarietà, perequazione, unitarietà delle politiche, parità del diritto all’accesso.

2.

La “filosofia” della legge Calderoli (e del regionalismo differenziato nel suo complesso, sin dalle bozze di intese definite nel 2018) si è incentrata sul trasferimento di intere materie o parte di esse (tutte quelle possibili secondo la Regione Veneto), entro una prospettiva (“duale”) di appropriazione dei poteri per la gestione diretta di tutte le funzioni possibili (oltre 500). Questa prospettiva non può più essere perseguita perché, come ha chiarito la Corte costituzionale, non si possono trasferire interi blocchi di materie o ambiti di esse, bensì esclusivamente singole “funzioni” e solo a seguito di una esplicita motivazione, documentata da una approfondita istruttoria tecnica, legata al principio di sussidiarietà, che evidenzi i benefici recati alla collettività̀ e non alla singola regione. Viene così respinta la via dell’autonomia “fai da te” che secondo la legge Calderoli si doveva risolvere in un rapporto bilaterale ed esclusivo tra il Governo e la regione interessata. È per questo che, dopo la decisione della Corte, non si può più parlare di Autonomia differenziata come una nuova forma di Stato (cade il parallelo spesso richiamato con lo Stato autonomico spagnolo), ma si possano stabilire solo trasferimenti di specifiche funzioni entro l’attuale forma di Stato, che rimane governato dai principi di unità e indivisibilità, solidarietà ed eguaglianza, e che devono operare nel rispetto di tutti i principi fondamentali posti in Costituzione. Ciò vale tanto più se, come avverte la stessa Corte, è il principio di sussidiarietà che deve legittimare la scelta di allocazione delle funzioni, ed esso può operare anche in senso inverso (“è un ascensore”), potendo dunque giungere a richiamare alcune funzioni dalle Regioni allo Stato. In conclusione sul punto deve rilevarsi che la Corte ha cambiato la prospettiva generale, riportando al centro dell’attenzione non più i poteri da devolvere, ma i diritti da garantire.

3.

Inoltre, viene ad essere ridefinita sin dalle fondamenta la questione – ritenuta centrale anche dai fautori dell’autonomia differenziata – dei Livelli essenziali delle prestazioni, Lep. I Lep vanno infatti intesi come livelli adeguatamente finanziati per garantire i diritti fondamentali in tutto il territorio nazionale. In questo caso la questione viene posta con i piedi per terra, rivelando la sua reale dimensione politico-costituzionale. Infatti, sino ad ora, nel progetto Calderoli, ma ancor prima con la precedente legge di bilancio e poi con i lavori della “Commissione Cassese”, si è fornita una visione falsamente “amministrativistica” o “tecnocratica” della questione delle tutele riferite ai diritti civili e politici. È importante rilevare a questo proposito che la Corte (nel fondamentale n. 14 del considerato in diritto) sottolinea che il dibattito parlamentare per l’approvazione della legge costituzionale n. 3/2001 modificò la formulazione proposta inizialmente di “livelli minimi di assistenza” in “livelli essenziali di assistenza”. Sino a ora è sembrato che l’unico obiettivo fosse quello di giungere a “definire” i Lep (peraltro – come ha rilevato a suo tempo anche il Governatore della Banca d’Italia – in via del tutto generica), senza preoccuparsi né della loro necessaria effettiva garanzia, che richiede inevitabilmente la valutazione dei relativi costi e la conseguente redistribuzione degli oneri, assai distante dalle attuali reiterate dichiarazioni di “invarianza finanziaria”, né della politicità di tali scelte. Scelte che vanno a ridisegnare lo Stato sociale nel suo complesso, assai distante dall’attuale mero elenco di funzioni che si vuole predisporre per assegnare in via astratta a indeterminati soggetti la tutela di concreti diritti. Ora la Corte impone che sia il Parlamento con deleghe non generiche a definire le singole tutele. Un ribaltamento che dovrebbe portare al centro l’organo della rappresentanza politica e bilanciare la forza dell’organo esecutivo. Non più Commissioni tecniche o dpcm governativi, ma leggi (di delega) specifiche. La morale che se ne dovrebbe trarre è che ora non spetta più al Governo (alle sue Commissioni, ai suoi decreti) decidere sui Lep, ma anzitutto al Parlamento.

4.

Anche la questione delle materie “No-lep” (cioè quelle per le quali non sarebbe prevista la definizione di un livello essenziale delle prestazioni) è stata sfatata. Semplicemente non esistono, ma va verificato di volta in volta il coinvolgimento di diritti civili e sociali nei singoli trasferimenti di funzioni. Ciò è quanto basta per interrompere il progetto perseguito caparbiamente da Calderoli di iniziare (anzi proseguire) con le materie “No-lep”. Se infatti, per fare un esempio, si applicassero alcune indicazioni delle pre-intese per la sanità e una singola regione potesse determinare autonomamente tariffe, contratti, fondi integrativi si produrrebbe una chiara violazione degli articoli 5 e 32 della Costituzione.

5.

La Corte ha chiarito che vi sono materie non trasferibili o difficilmente trasferibili, sebbene siano in astratto ricomprese nel terzo comma dell’articolo 116 Cost., in ragione dei vincoli europei. Tale richiamo deve essere interpretato come un invito a guardare oltre i corporativi interessi regionali e tornare a riflettere entro una prospettiva di tutela dei diritti delle persone che valichi gli stessi confini nazionali.

6.

È il Parlamento, dunque, che viene chiamato ad assumersi le proprie responsabilità. L’idea di contenere l’intervento del legislatore, che secondo il progetto governativo doveva limitarsi ad acconsentire agli accordi definiti da singola Regione e Governo è stata smentita. L’approvazione delle intese non può essere ridotta ad un “prendere o lasciare” da parte del Parlamento, scrive la Corte. Da qui la fondata richiesta dovrebbe essere quella di investire il Parlamento, le Commissioni parlamentari, i nostri rappresentanti tanto di maggioranza quanto di opposizione per ridiscutere e giungere a cambiare un modello che dopo la sentenza non può più essere perseguito. Come? Esigendo l’istituzione di una Commissione parlamentare speciale, ovvero prospettando almeno la necessità di una riflessione pubblica e di un serrato dibattito che coinvolga tutte le forze politiche, e che abbia come scopo esplicito ripensare in modo radicale quale regionalismo vogliamo. Si può in tal caso ipotizzare la possibilità che i partiti che non hanno condiviso la legge Calderoli presentino un disegno di legge volto a recepire le indicazioni della Corte costituzionale, escludendo dalla trasferibilità la materia della sanità, interpretando in modo corretto l’articolo 116, comma terzo.

Già oggi la sanità pubblica paga il prezzo di un processo di forte differenziazione regionale, di un “federalismo d’abbandono”, con l’abbandono di norme e principi comuni per tutto il paese. Il Governo, e in particolare il Ministero della salute, deve tornare a svolgere le sue fondamentali funzioni di programmazione, indirizzo, controllo – come previsto dalle norme – a cui in questi anni ha rinunciato. Questo per assicurare un assetto equilibrato e coerente del Ssn, a partire dalla reale erogazione dei Lea in tutto il territorio nazionale. Del resto anche per questo esiste la previsione costituzionale del potere sostitutivo (art. 120). Il Servizio sanitario è uno e nazionale: va in ogni modo frenata la frammentazione in 21 sistemi sanitari regionali – peraltro sempre più fondati su logiche di mercato – che ne sta minando la fisionomia, mettendo il pericolo la tutela del diritto universale alla salute.

Siamo pienamente consapevoli che il nostro impegno non si ferma qui. Nei prossimi mesi non mancheranno forzature, tentativi di aggirare i contenuti della sentenza n. 192 della Corte. Sarà dunque necessario seguire con attenzione i lavori del Parlamento e rendere trasparenti i lavori della Commissione tecnica per i fabbisogni standard, tanto più alla luce del fatto che la legge n. 42/2009 e la legge n. 68/2011 non hanno avuto alcun esito, venendo meno la stessa applicazione dell’articolo 119 della Costituzione. A essere affrontati in modo prioritario devono essere i nodi irrinunciabili della perequazione e dell’equità in tutto il territorio nazionale, nella cornice dei vincolanti principi costituzionali.

Documento promosso da: Associazione Salute Diritto Fondamentale, Associazione Giovanni Bissoni, Laboratorio Salute e Sanità – LABOSS, Associazione Prima la Comunità, Associazione Alessandro Liberati, Salute internazionale, Cittadinanzattiva, Gruppo Abele, Forum Diseguaglianze e Diversità, e condiviso con oltre 130 associazioni.

Per adesioni inviare una mail a: salutedirittofondamentale@gmail.com





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