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Le radici culturali del riarmo, dialogo con Stefano Zamagni



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Il vertice Nato e quello dell’Unione Europea, previsti per la fine di giugno 2025, porteranno da una parte a consacrare il piano di riarmo europeo da 800 miliardi di euro promosso dalla Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen e dall’altro a definire di tempi di attuazione dell’impegno richiesto dagli Usa ai Paesi dell’Alleanza atlantica di raggiungere il nuovo obiettivo del 5 per cento del Pil da dedicare alla spesa militare. Secondo il premier britannico, il laburista Starmer che ha stanziato nuovi fondi per il potenziamento delle armi nucleari, dobbiamo esplicitamente prepararci alla terza guerra mondiale. Il nuovo fronte aperto da Israele in Iran è annunciato esplicitamente come una vera e propria guerra che chiederà il coinvolgimento diretto delle potenze occidentali a cominciare dagli Stati Uniti sotto la presidenza di Donald Trump.

Contro tale deriva bellicista, che si aggrava di ora in ora, si levano alcune voci autorevoli. Tra queste quella dell’economista Stefano Zamagni, emerito della prestigiosa università di Bologna e già presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali che ha definito il riarmo della Ue un tragico errore e propone di escludere dal mercato azionario le imprese di armi come strumento per frenare il loro potere pervasivo sulle scelte politiche.

Stefano Zamagni

In una Bologna già pienamente estiva la rete associativa del Portico della pace, in collaborazione con Città Nuova, ha promosso il 29 maggio 2025 un incontro pubblico presso lo storico Palazzo D’Accursio, sede del Comune, per parlare delle alternative all’economia di guerra. Dopo una breve panoramica della filiera delle imprese di armi presenti in Emilia Romagna, esposta dalla giornalista d’inchiesta Linda Maggiori, sono intervenuti Stefano Zamagni e Vera Negri Zamagni in qualità di economisti dell’Alma Mater studiorum ( nome dell’ateneo bolognese che si fregia del primato storico in Europa).

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Riportiamo di seguito l’intervista al professor Zamagni.

Come ha esordito nel suo intervento, siamo immersi in  una condizione contraddittoria che vede  continue invocazioni alla pace associate ad un evidente rimozione collettiva della situazione estrema in cui si trova il mondo attraversato da un numero crescete di conflitti armati. Come si spiega, a suo parere, un tale stato di cose ?
Siamo nel pieno di un evidente paradosso: nonostante tutti si lamentino della guerra e affermino di volere la pace, il numero di guerre combattute a livello globale è aumentato significativamente negli ultimi 30-40 anni. Questo fenomeno sorprendente e irrazionale si spiega con determinate cause profonde che risalgono principalmente ad una corrente di pensiero che ha avuto la sua teorizzazione nell’età moderna con Machiavelli e soprattutto con Hobbes. Una concezione in base alla quale la guerra è inevitabile, perché fa parte della natura umana, intrinsecamente aggressiva e malvagia (“homo homini lupus” – ogni uomo è un lupo per l’altro uomo). Questa visione ritiene che la società possa solo contenere e limitare l’aggressività tramite politiche di deterrenza e di riarmo continuo.

Quale visione si presenta come alternativa a tale pessimismo antropologico?
Esiste una linea di pensiero, nata e diffusasi in Italia nel Rinascimento, secondo cui lo stato naturale dell’essere umano è la pace (“homo homini natura amicus” – ogni uomo è per natura amico dell’altro uomo). Secondo questa prospettiva, le guerre esistono a causa di regole e istituzioni che le alimentano.

Cosa non la convince della visione hobbesiana della natura umana?
Si tratta di una concezione  intrinsecamente fallace e controproducente. L’idea di armarsi per scoraggiare un potenziale avversario porta inevitabilmente a una corsa agli armamenti reciproca, poiché l’avversario farà lo stesso ragionamento, cercando di riarmarsi ancora di più. Questo meccanismo non porta alla pace, ma anzi accresce la probabilità di conflitto.

In tale contesto, ha parlato nel  convegno di palazzo D’Accursio di un nuovo fattore che spiega la corsa al riarmo. Di cosa si tratta?
In pratica, la privatizzazione della guerra. Mentre in passato le imprese produttrici di armi erano in qualche modo controllate da autorità statuali, oggi sono prevalentemente privatizzate e quotate in borsa. Questo significa che le decisioni non sono più guidate principalmente da soggetti politici, ma dagli interessi economici di questi complessi privati che guadagnano enormemente dalla produzione e dalla vendita di armi. Le imprese produttrici di armi sono tra quelle con i più alti tassi di profitto.

Che responsabilità esistono a livello culturale nello spianare la strada al riarmo?
Esiste un problema nel modo in cui viene insegnata la storia nelle scuole e università. I programmi di studio tendono a concentrarsi quasi esclusivamente sulla guerra, trascurando o ignorando completamente la storia della pace. Questo contribuisce a diffondere l’idea, specialmente tra i giovani, che la guerra sia una parte inevitabile della condizione umana e che non ci sia alternativa. Questa “anestetizzazione della psiche” (psychic numbing) rende le persone indifferenti alla sofferenza di massa, come illustrato dalla frase di Stalin: “Una morte è una tragedia, un milione di morti è una statistica”.

Nei suoi interventi fa spesso riferimento all’insegnamento di Paolo VI sullo sviluppo come “il nuovo nome della pace?”. Cosa significa concretamente?
Lo sviluppo deve intendersi come un processo che mira a rimuovere gli ostacoli alla libertà, come sono la fame e la miseria. È termine diverso dalla crescita materiale, perché implica umanamente liberazione e progresso verso condizioni di vita migliori per tutti. Quindi promuovere lo sviluppo significa costruire istituzioni di pace che eliminino le cause profonde dei conflitti, come la fame, che può spingere le persone a comportamenti disperati.

Quali istituzioni internazionali dovrebbero essere riformate per promuovere la pace e in che modo?
Innanzitutto, occorre modificare gli statuti del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che portano alla guerra perché progettati per servire gli interessi dell’Occidente a scapito del resto del mondo. In secondo luogo, è necessario cambiare le regole delle Nazioni Unite, in particolare eliminando il diritto di veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, poiché questo potere permette a un singolo Paese di bloccare la volontà della maggioranza e impedisce un’azione efficace per garantire la pace globale.

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Perché sostiene la necessità di un Ministero della Pace così come richiesto in Italia dalla Comunità Papa Giovanni XXIII°? Non è, in fondo, una conquista simbolica e poco concreta?
Non è affatto una proposta astratta. Lo dimostra il fatto  che, dopo la Seconda Guerra Mondiale in Italia, mentre vennero istituiti il Ministero della Difesa e il Ministero degli Interni, non si riuscì a istituire un Ministero della Pace, nonostante fosse una proposta “naturale” e supportata dall’opinione pubblica stremata dalla guerra. Ciò accadde perché alcune forze politiche si opposero. La creazione di un Ministero della Pace avrebbe non solo un valore simbolico, ma opererebbe concretamente per promuovere la pace, iniziando a livello culturale ed educativo. Spero questa idea possa realizzarsi grazie al supporto di un’opinione pubblica capace di esprimere una forte opposizione alla cultura e politica che legittima la guerra e il riarmo.

Ecco il video integrale dell’incontro del 29 maggio 2025

 



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