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La corsa del made in Italy a investire negli Usa per evitare i dazi: ma quanto costa aprire un impianto?


di
Redazione Economia

Conto e carta

difficile da pignorare

 

Da Pirelli ad Illy, da Granarolo a Prysmian egli studi di fattibilità di EssilorLuxottica e Prada. Ma aprire uno stabilimento per sventare i dazi di Trump può non essere così facile. Il nodo della forza lavoro cara

Delocalizzare negli Stati Uniti non significa semplicemente cambiare etichetta o spedire container. Significa comprare terreni, edificare stabilimenti, trovare manodopera locale, ottenere autorizzazioni, garantire continuità nella qualità e nei tempi di produzione. Tutto questo mentre l’inflazione americana spinge verso l’alto il costo della vita e delle attività produttive, e mentre il dollaro continua a muoversi con forti oscillazioni rispetto all’euro. Secondo un recente studio della Confindustria Usa-Italia, per aprire un sito produttivo negli Stati Uniti servono in media dai 12 ai 24 mesi e un investimento iniziale che può oscillare tra i 5 e i 15 milioni di euro. Una cifra che non tutte le imprese possono sostenere, soprattutto senza garanzie stabili di lungo periodo.

La corsa delle aziende

Nome in codice: SelectUsa. Esiste dai tempi di Barack Obama ma ora sta trovando nuova linfa. E’ un progetto su larga scala costruito da ormai diverse amministrazioni americane, due a guida democratica e ora supporto dai conservatori, per incentivare gli insediamenti di aziende straniere negli Usa. Trump lo ha notato ed è perfettamente compatibile con la sua politica commerciale aggressiva che mette al centro l’America First, prima gli Stati Uniti e poi il resto, con l’obiettivo dichiarato di riportare la manifattura sul suolo americano contrastando la Cina fabbrica del mondo. 




















































Le strategie di Pirelli ed Illycaffè

Il presidente esecutivo di Pirelli Marco Tronchetti Provera ha spiegato che «un nostro team ha avviato discussioni per aumentare la nostra capacità produttiva negli Usa». «Stiamo facendo un lavoro di valutazione per capire se una parte di quanto vendiamo sul mercato Usa può essere prodotto lì, negli Stati Uniti», ha ammesso l’amministratrice delegata di Illycaffè Cristina Scocchia. Aggiungendo di sperare «che non sia necessario». Dunque, anche il caffè italiano nel mirino della geopolitica. Se i dazi promessi da Donald Trump dovessero estendersi anche al caffè Illy potrebbe essere costretta a rivedere il proprio assetto industriale, valutando lo spostamento di parte della produzione negli Stati Uniti. Uno scenario ipotetico, ma tutt’altro che remoto. «Facciamo un lavoro di valutazione per capire se una parte di quanto vendiamo sul mercato Usa può essere prodotto lì», ha spiegato Scocchia che però ha invitato a ragionare anche sul rischio di aumento del costo del lavoro: «Gli Stati Uniti sono un Paese con bassa disoccupazione e alta occupazione e le recenti politiche migratorie di Trump sono restrittive. Sembra quindi difficile che molte aziende europee possano trasferirsi senza creare dinamiche inflattive sui salari».

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Chi sta investendo: da Prysmian a Granarolo

Prysmian, dal canto suo, ha approvato un investimento di circa 245 milioni in Nord America per potenziare la produzione di cavi di media tensione. Il gruppo dell’alimentare Granarolo intende ampliare lo stabilimento nel Connecticut e raddoppiare la produzione. Stesso discorso per Lavazza, che ha annunciato di voler accelerare gli investimenti a Filadelfia. Durante l’assemblea degli azionisti a Parigi del gruppo italo-francese EssilorLuxottica l’amministratore delegato Francesco Milleri ha annunciato che la società sta valutando la possibilità di aumentare la produzione negli Stati Uniti. «Attenderemo tre-quattro mesi per avere una situazione più stabile prima di decidere», ha spiegato Milleri, riferendosi al contesto incerto dei dazi commerciali. Il direttore finanziario Stefano Grassi ha confermato la prudenza davanti a uno scenario mutevole, segnalando che tra le misure in esame ci sono anche lievi aggiustamenti di prezzo sul mercato americano.

Come si muove la moda

Prada aspetta: l’amministratore delegato Andrea Guerra spiega che eventuali decisioni sul pricing saranno prese in base all’evoluzione della politica commerciale americana. Ferrari che ha deciso un aumento dei prezzi fino al 10%. Secondo gli analisti i clienti statunitensi del Cavallino non saranno scoraggiati dai prezzi più alti. Non ha ancora stabilito cosa fare Stellantis che dall’Italia esporta in Usa modelli come la 500 elettrica, l’Alfa Giulia, Tonale e Stelvio. Numeri comunque contenuti sui quali l’azienda aspetta di fare le sue valutazioni quando le misure saranno più chiare. Otb (gruppo italiano che controlla Diesel, Jil Sander e Maison Margiela) sta eseguendo simulazioni per valutare aumenti tra l’8% e il 9% sul mercato statunitense. «Stiamo analizzando, marchio per marchio, le possibili azioni per ridurre l’impatto delle tariffe», dice il ceo Ubaldo Minelli.


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12 luglio 2025 ( modifica il 12 luglio 2025 | 07:43)

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