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Dazi Usa, Italia secondo paese più colpito in Europa: danni tra 15 e 35 miliardi, impatto su export e Pil, 178 mila posti a rischio


L’Italia è il secondo Paese più penalizzato dai dazi Usa dopo la Germania. Tariffe all’8% e dollaro debole colpiscono l’export e il rischio è una perdita fino allo 0,6% di Pil. Cosa succederà con i dazi ora al 30%?

 

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Mentre si alza il livello dello scontro commerciale tra Washington e Bruxelles, con la lettera di Donald Trump che annuncia dazi al 30% sulle esportazioni europee a partire dal primo agosto – e minaccia un’escalation fino al 60% in caso di ritorsioni – uno studio dell’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) chiarisce chi rischia di subire i danni maggiori nell’Unione europea. Tra i Paesi Ue, l’Italia risulta essere il secondo più penalizzato, subito dopo la Germania.

A maggio, il dazio medio applicato dagli Stati Uniti ai prodotti italiani ha raggiunto l’8%, ben oltre la media Ue del 6,7% e sopra anche alla Francia (6,4%). Solo la Germania fa peggio, con un dazio medio dell’11% applicato alle proprie esportazioni.

Dazi differenziati: dipende da cosa si esporta

Il motivo per cui l’Italia risulta così penalizzata nonostante l’unione doganale europea risiede nella composizione settoriale dell’export. Le tariffe americane non sono uniformi. Mentre il settore farmaceutico gode in molti casi di esenzioni, settori come acciaio, alluminio e automotive sono colpiti da dazi che possono arrivare fino al 25% o addirittura al 50%.

A inizio aprile, l’amministrazione Trump ha alzato il dazio minimo per l’UE al 20%, poi ridotto temporaneamente al 10% in una fase di tregua. Ma per Paesi come l’Italia, fortemente orientati all’export manifatturiero, il danno è stato immediato e più pesante rispetto ad altri partner europei.

Italia: -0,6% di Pil se i dazi arrivano al 50%

Secondo lo studio Ispi, un dazio del 10% genera già un rallentamento dello 0,1% nella crescita del Pil europeo. Se la minaccia di portare le tariffe al 50% dovesse diventare realtà, l’effetto sul prodotto interno lordo sarebbe ben più ampio: -0,8% per la Germania, -0,6% per l’Italia, -0,4% per la Francia. Si tratta di stime conservative, ma che confermano l’elevata esposizione del sistema produttivo italiano al mercato statunitense.

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L’effetto “invisibile” del dollaro debole

A pesare sull’export italiano non sono solo le tariffe, ma anche il deprezzamento del dollaro. Dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, il biglietto verde ha perso circa il 13% del suo valore rispetto all’euro. Questo fenomeno riduce la competitività dei prodotti europei sul mercato statunitense, agendo come un dazio aggiuntivo non dichiarato.

Secondo Confindustria, la combinazione tra dazio e cambio sfavorevole porta il carico effettivo sulle esportazioni italiane a un costo totale del 23%. L’Ispi stima un impatto solo leggermente inferiore: -21% sui ricavi potenziali rispetto al periodo pre-Trump. Un colpo durissimo per imprese che già operano con margini ridotti.

Dietro i dazi, anche un calcolo fiscale

Oltre alle motivazioni ideologiche, la convinzione che i deficit commerciali siano sempre dannosi, la politica dei dazi di Trump ha anche una componente fiscale: aumentare le entrate statali. Nel solo mese di maggio, il Tesoro americano ha incassato 24 miliardi di dollari in dazi. Se il trend dovesse proseguire, le entrate annue potrebbero superare i 290 miliardi, contro gli 80 miliardi iniziali.

Ma anche questo non basterebbe. Il recente Obba (One Big Beautiful Bill Act) farà salire il deficit federale da 1.800 a 2.100 miliardi di dollari, circa il 7% del Pil Usa, rendendo insufficiente qualsiasi effetto positivo derivante dai dazi. In pratica, Trump tenta di riparare un deficit con un altro.

Dazi al 30%: per l’Italia un impatto fino a 35 miliardi e 178 mila posti a rischio

Con l’annuncio dei dazi Usa al 30% a partire dal primo agosto, il quadro per l’Italia si fa ancora più preoccupante. Le stime aggiornate, elaborate dalla Svimez e da altri centri di ricerca, quantificano in modo drammatico le conseguenze potenziali di questa nuova stretta protezionista.

Nel primo scenario – che assume dazi al 30% su quasi tutte le categorie, ma con le esenzioni già note su farmaceutica, semiconduttori ed energia – l’Italia rischia di perdere 12,5 miliardi di euro di export (pari al 20% delle vendite verso gli Usa) e 9 miliardi di Pil, poco meno di mezzo punto percentuale. L’impatto sull’occupazione sarebbe devastante: oltre 150 mila posti di lavoro a tempo pieno potrebbero andare perduti, di cui quasi 13 mila al Sud.

Ma le conseguenze potrebbero essere anche peggiori. Se le tariffe del 30% venissero estese a tutti i comparti senza eccezioni, l’effetto si aggraverebbe ulteriormente: fino a 15 miliardi di export svaniti, 10,8 miliardi di Pil persi e 178 mila posti di lavoro cancellati, 16 mila dei quali nel Mezzogiorno. Uno scenario che, secondo la Cgia, potrebbe generare danni complessivi tra i 15 e i 35 miliardi di euro.

I settori più esposti, secondo il direttore di Svimez Luca Bianchi, sono la meccanica al Nord e l’agroalimentare al Sud, quest’ultimo stimato in 2 miliardi di export verso gli Usa, di cui 500 milioni dal Mezzogiorno. A rischio anche automotive, elettronica e farmaceutica, comparti a vocazione internazionale e protagonisti della fragile ripresa industriale del Sud.

 

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L’eventuale inclusione del settore farmaceutico tra quelli colpiti, oggi ancora incerta nella lettera di Trump, aggraverebbe ulteriormente la situazione: solo al Sud l’export farmaceutico verso gli Usa vale quasi 1 miliardo. Se tassato al 30%, il danno aggiuntivo ammonterebbe a 300 milioni di euro, portando l’impatto totale nel Mezzogiorno a 1,3 miliardi.

Per l’Italia, l’inasprimento dei dazi rappresenta un rischio concreto e immediato, tanto sul fronte industriale quanto su quello macroeconomico. A meno di un cambio di rotta, l’export rischia di diventare la prima vittima di questa nuova guerra commerciale.

Ultimo aggiornamento ore 8,41



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