Nel disegno complesso dell’Europa post-pandemica, nel quadro fluido di transizioni gemelle e nella retorica infiammata della resilienza trasformativa, le competenze digitali emergono come vettore strutturale e insieme simbolico del nuovo patto sociale fra istituzioni, cittadinanza e mercati.
Capitale umano digitale e giustizia sociale nel nuovo patto europeo
Non a caso, l’investimento in capitale umano, formalizzato attraverso i Programmi Operativi Regionali e Nazionali (POR e PON) e reso cogente mediante i vincoli di destinazione dei Fondi Strutturali europei, si configura come risposta sistemica a un triplice deficit: quello infrastrutturale, quello cognitivo e quello adattivo.
Il paradigma della crescita non si misura più in termini puramente economico-finanziari ma viene riformulato lungo assi multidimensionali in cui la formazione digitale – nella forma ibrida dell’upskilling e del reskilling – diventa asse portante dell’inclusione attiva, della giustizia intergenerazionale e della coesione territoriale, tuttavia, l’apparente neutralità tecnica di tali processi cela un’ambiguità strutturale che merita di essere tematizzata sul piano politico-giuridico.
Criticità strutturali dei percorsi formativi finanziati
A fronte di una proliferazione crescente di iniziative finanziate dai fondi europei – spesso attuate in regime emergenziale o delegate, in forma parcellizzata, a soggetti terzi non sempre integrati nei meccanismi pubblici di pianificazione – si osserva una criticità strutturale che investe la coerenza tra i percorsi formativi attivati e i fabbisogni effettivi del sistema produttivo e occupazionale.
Tale scollamento non è riconducibile soltanto a un difetto di coordinamento o di aggiornamento degli strumenti di programmazione, bensì si radica in una difficoltà più profonda, di natura epistemica, legata all’indeterminatezza intrinseca della categoria stessa di “competenza digitale”, infatti, lungi dal rappresentare un insieme finito e oggettivamente definibile di abilità, essa si configura come una costruzione dinamica e polisemica, che abbraccia dimensioni tra loro eterogenee: dalla padronanza strumentale degli ambienti digitali alla capacità critica di interpretare i flussi informativi, dall’etica della responsabilità tecnologica alla consapevolezza dei propri diritti e poteri nel nuovo ecosistema informazionale, fino a comprendere quella capacità matura e consapevole di orientare le proprie scelte nel contesto digitale, che si può definire come forma piena di autodeterminazione cognitiva.
Limiti delle metriche di valutazione e interrogativi normativi
In questo scenario in rapido mutamento, la valutazione degli impatti delle politiche pubbliche non può accontentarsi di metriche lineari o di indicatori standardizzati riferiti al solo tasso di occupabilità post-intervento, ma deve tradursi in un’analisi multidimensionale capace di cogliere la profondità trasformativa di tali investimenti. Ne consegue che la misurazione non può essere separata dalla riflessione giuridica: essa implica un interrogativo normativo di fondo, ovvero se e come il diritto possa e debba orientare la costruzione del capitale umano digitale in un’ottica di giustizia, sostenibilità e coesione: in questa prospettiva, diventa necessario interrogarsi in modo critico sulle contraddizioni e i conflitti che caratterizzano oggi le politiche di formazione digitale.
Dinamiche conflittuali nella governance multilivello
Tensioni strutturali, queste, che si manifestano con chiarezza in tre direttrici principali:
- anzitutto nella tensione tra una razionalità allocativa, che orienta la distribuzione delle risorse secondo criteri di efficienza e una razionalità redistributiva, che persegue invece la correzione degli squilibri strutturali e delle marginalità sistemiche;
- poi nel conflitto tra una sussidiarietà verticale, fondata su una logica programmatoria di tipo top-down, e una responsabilità orizzontale, che valorizza il protagonismo dei territori, dei corpi intermedi e dei soggetti formativi nella costruzione condivisa dei percorsi educativi;
- infine, nella frizione più profonda tra la giuridicità delle politiche pubbliche – intese come strumenti ordinati, trasparenti e orientati al perseguimento dell’interesse generale – e la libertà sostanziale degli individui di autodeterminare il proprio cammino di apprendimento e sviluppo personale.
Questi conflitti teorici e operativi si condensano nel fragile equilibrio della governance multilivello che caratterizza l’attuazione dei fondi europei, spesso più attenta agli adempimenti procedurali e alla rendicontazione documentale che all’effettiva valutazione di impatto sui territori e sui soggetti coinvolti. Per tale ragione, una seria politica dell’inclusione digitale non può prescindere da un ripensamento delle metriche valutative, degli assetti istituzionali e dei presupposti concettuali su cui poggia il nesso fra diritto alla formazione, trasformazione tecnologica e giustizia sociale.
Lungi, poi, dal colmare i divari preesistenti, il rischio è che gli investimenti digitali, se non inquadrati in una visione organica e anticipatoria, finiscano per produrre nuove asimmetrie, amplificando la marginalizzazione di quelle fasce della popolazione meno raggiungibili dagli strumenti tradizionali della formazione professionale. L’approccio giuridico alla questione non può prescindere da una riflessione sul principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 della Costituzione italiana che impone non solo di rimuovere gli ostacoli materiali ma anche – e soprattutto – quelli culturali, cognitivi e relazionali che impediscono la piena partecipazione di ogni individuo alla vita collettiva.
L’Unione europea e il diritto alla cittadinanza digitale
In questa direzione, il diritto dell’Unione Europea, con la sua enfasi sul lifelong learning, sulla digital inclusion e sul rafforzamento del pilastro sociale, offre un corpus valoriale e regolatorio da reinterpretare in chiave costituente, come spazio dinamico per la costruzione di cittadinanza digitale e inclusione sistemica, ma è chiaro che la sua efficacia dipenda dalla capacità degli Stati membri di tradurre tale cornice in strumenti efficaci, adattivi, misurabili.
Infatti, il tema della misurazione degli impatti non può essere affrontato secondo una logica meramente numerica o ridotto alla sola trasparenza procedurale: al contrario, richiede, l’adozione di strumenti valutativi complessi, capaci di andare oltre il semplice tasso di occupabilità per cogliere anche i percorsi di emancipazione personale, oltre l’inserimento lavorativo per rilevare i gradi di autonomia acquisita, oltre la digitalizzazione delle singole mansioni per riconoscere trasformazioni più profonde nella struttura stessa dei saperi.
In questa prospettiva, il concetto di capitale umano deve essere ripensato al di là della sua dimensione produttiva e riarticolato in una visione post-industriale e relazionale, che riconosca nella persona non soltanto una risorsa per il mercato, ma un soggetto attivo, consapevole e situato. Quindi, se non si affronta il disallineamento tra domanda e offerta di competenze con una visione sistemica e anticipatoria, il rischio è quello di perpetuare la frattura già evidente tra i tempi lenti della politica pubblica e la velocità mutevole dell’economia, tra la rigidità dei calendari di spesa dei fondi e la dinamicità dei mercati del lavoro.
Governance anticipatoria e ruolo creativo del diritto
Per tali ragioni diventa chiara l’esigenza di formalizzare una governance anticipatoria, capace di orientare i fabbisogni emergenti e di progettare competenze che ancora non esistono ma che saranno cruciali per il lavoro del futuro e in questo senso, il diritto, lungi dall’essere mera tecnica regolatoria, deve riappropriarsi della sua funzione creativa e ordinante, divenendo strumento di previsione e di accompagnamento, di composizione e riequilibrio, in un’epoca segnata dall’instabilità epistemica e dalla riconfigurazione continua degli assetti socio-lavorativi.
Pertanto, la riflessione sulle competenze digitali non può esaurirsi nella definizione di un repertorio di abilità tecniche, ma deve includere una visione della cittadinanza come insieme integrato di capacità, valori e poteri negoziali e in tal senso, l’inclusione non è solo un obiettivo politico ma una categoria giuridica sostanziale, che richiede – per essere realizzata – l’interazione virtuosa di norme, risorse, visioni e istituzioni, il rischio, altrimenti, è quello di una nuova marginalizzazione algoritmica, in cui la mancanza di skill diventa nuova forma di esclusione sociale e in cui i divari digitali si traducono in diseguaglianze cognitive non più colmabili.
Dalla distribuzione di fondi alla costruzione di ecosistemi formativi
La responsabilità delle politiche pubbliche, allora, non è solo quella di distribuire fondi o moltiplicare corsi, ma di generare ecosistemi formativi generativi, reticolari, capaci di abilitare l’apprendimento continuo e riflessivo lungo l’intero arco della vita ed è in questo spazio profondo e liminale – tra diritto, economia, educazione e tecnologia – che si gioca la possibilità di un nuovo patto sociale fondato non sulla mera adattabilità funzionale dell’individuo al mercato, ma sulla sua piena partecipazione al progetto di civiltà digitale che l’Europa, nel suo sforzo di coesione e innovazione, è chiamata a edificare. Ma c’è da chiedersi in conclusione: siamo davvero pronti, come sistema politico e culturale, a riconoscere nell’investimento sul capitale umano non solo una leva di competitività, ma un atto di giustizia sociale e di visione collettiva del futuro?
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