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In un mondo entrato in “permacrisi”, anche le Pmi italiane devono dotarsi di strumenti di risk management per difendersi dalle crescenti minacce. «Di fronte al concreto rischio di chiusura di determinati mercati, a causa dei dazi e non solo, le Pmi esportatrici devono differenziare i paesi di sbocco. Ma anche lavorare sul prodotto ed essere più competitive, offrendo maggiori garanzie, stabilità e presenza» dice in questa intervista a Economy Gianluigi Lucietto, vicepresidente di Anra, l’Associazione nazionale dei risk manager e responsabili assicurazioni aziendali, professionista esperto in gestione dei rischi e continuità operativa.

 

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Quali sono le principali sfide che dovrebbero spingere le Pmi ad avvalersi della consulenza di un risk manager, se non l’hanno al loro interno?

Anche a prescindere dall’aspetto geopolitico, i cui assetti cambiano in maniera repentina ogni giorno, le Pmi hanno la necessità di avere qualcuno che sia in grado di monitorare costantemente le minacce che possono arrivare dal contesto nel quale operano. Minacce che prendono diversa forma e possono essere presenti in momenti diversi nella vita di un’organizzazione, perché un’azienda è come un essere vivente all’interno di un ecosistema. Nel cammino operativo le minacce possono concretizzarsi oppure no: ma se non si interviene, restano le vulnerabilità che sono insite nelle caratteristiche operative, finanziarie e strategiche dell’azienda. Un professionista esperto nella gestione dei rischi è in grado di focalizzarsi sull’identificazione, la misurazione e il trattamento di queste minacce, al fine di sanare le vulnerabilità.

In che modo?

Si può rendere l’organizzazione più forte con anche dei piccoli accorgimenti, a volte non servono stravolgimenti operativi. Può bastare semplicemente riuscire a riunire intorno a un tavolo le figure più importanti della Pmi, che possono essere gli uomini fedeli all’imprenditore, le persone che hanno una maggiore esperienza, per analizzare determinate situazioni che si presentano all’impresa stessa nel suo muoversi all’interno del proprio ecosistema. Si tratta di capire quale evento può colpire l’azienda, quali effetti può portare al suo interno, con che grado di destabilizzazione.

I rischi sono sempre gli stessi oppure questa effervescenza geopolitica ha introdotto nuove sfide?

 

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In un periodo di relativa tranquillità e di stabilità geopolitica, potremmo pensare alle nuove sfide del futuro che vengono ben presentate dal Global Risk Report del World Economic Forum: scarsità d’acqua, difficoltà nel reperire determinate materie prime, fenomeni migratori, concentrazione nelle mega-cities, con il comportamento di individui di diversa religione, razza, provenienza, che si trovano a convivere con certi ecosistemi. Ma tutti questi rischi in questa fase sono passati in secondo piano, perché c’è un’evoluzione così frenetica del quadro geopolitico che spinge a considerare maggiormente alcuni fattori. È il caso dell’interruzione dell’operatività derivante dalla chiusura di determinati mercati.

Cosa può comportare questo rischio?

Ci sono aziende che rischiano di non essere più in grado di continuare ad operare. È più facile pensare

a una possibile interruzione dell’operatività derivante da un terremoto, piuttosto che da un’alluvione: finché non si riparano i danni è impossibile ripartire. Oppure a un’esplosione che deriva a sua volta da una mancata manutenzione di un grande macchinario, con effetti a cascata tangibili, diretti. Ma se una Pmi ha investito in modo importante sull’export negli Stati Uniti, riuscendo ad entrare in quel mercato dopo anni di tentativi e cospicui investimenti, e poi a causa dei dazi il suo prodotto non è più appetibile come prima perché diventa eccessivamente costoso, il problema può essere altrettanto serio; così come se esportava in modo importante in paesi messi in black list e colpiti da sanzioni. Le prime a pagare sono le Pmi che fanno parte dell’indotto che sta alla base di quell’export.

Come ci si può preparare a un’eventualità di questo tipo?

Ci sono varie tecniche che possono essere adottate. Ad esempio la diversificazione dei mercati di sbocco, dotandosi di strumenti che permettano di avere un continuo monitoraggio sulla possibilità di operare in determinate aree, anche informandosi sulla stabilità dei governi. Per le Pmi italiane all’estero, che magari hanno creato uno stabilimento in loco, modificare la propria strategia non è facile come cambiarsi d’abito da una stagione all’altra. Per questo è importante non essere esposti in un determinato mercato oltre una certa quota. È preferibile riuscire ad avere piccole quote in più mercati, così se alcuni non vanno proprio benissimo ce ne sono altri che hanno una correlazione inversa. Guardando a una grande impresa, poi, se le esportazioni si riducono a causa dei dazi la prima cosa che fa è ridurre il numero dei fornitori, mantenendo solo quelli che possono essere più competitivi, che offrono maggiori garanzie, maggior stabilità e maggior presenza. Una piccola impresa insomma può essere spazzata via da un batter d’ali di una farfalla in Amazonia…

Che altro si può fare?

Differenziare il prodotto, con un’attenzione maggiore per il consumatore. Si lavora così su un’altra leva, i motivi per i quali scegliere un prodotto, magari anche se costa un po’ di più, investendo sulla qualità. Non dimentichiamo che il brand Made in Italy è uno dei più forti al mondo, il Made in Germany, il Made in England o il Made in USA non mi pare lo siano. Più in generale, si deve cercare di pensare a che cosa potrebbe andare storto in tempo di pace, affinché si possa essere preparati in tempo di guerra. Costa di meno riunirsi intorno a un tavolo: il professionista esperto nella gestione dei rischi segnala una serie di criticità che si potrebbero creare, utilizzando una metodologia ben definita.

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Ci fa un esempio?

La più comune e più conosciuta rientra nell’applicazione del processo di gestione dei rischi della ISO 31000, altre tecniche sono all’interno della EN 31.010. Alcune sono semplici da capire, da praticare, altre necessitano di un’organizzazione ben strutturata che sia in grado di elaborare dati, informazioni, che è a portata solo delle grandi imprese. Questo permette di andare a correggere e migliorare l’esposizione dell’azienda al rischio, quindi di aumentare la sua capacità di resistere ad un evento dirompente, riducendo nel suo complesso la vulnerabilità. Un imprenditore non ha bisogno che gli si dica che cosa deve fare, ma di qualcuno che sia in grado di dargli informazioni il più puntuali possibile affinché lui possa decidere. Il professionista esperto nella gestione dei rischi non si sostituisce mai alle decisioni strategiche dei consigli di amministrazione, si limita a fornire le informazioni che permettono di aumentare l’efficacia decisionale mantenendo inalterato l’equilibrio finanziario, e quindi l’efficienza economica delle attività.

Quanto è diffuso questo genere di pratica di risk management fra le Pmi?

Le percentuali sono molto basse, perché i risk manager sono visti come un costo. L’imprenditore italiano non ha voglia di pensare al peggio. Ma è molto meglio farlo, ripeto, in tempo di pace: in tempo di guerra non hai tempo per decidere, per valutare le varie ipotesi di gestione, per capire quella che potrebbe essere la più efficace. Quando ci si ammala, i farmaci, la riabilitazione, i tempi di convalescnza hanno un costo. Noi professionisti esperti nella gestione dei rischi siamo come medici che aiutano i pazienti a prevenire la malattia: una spremuta d’arancia al giorno costa molto meno, e con la vitamina C si aumentano le difese immunitarie. Anche per le imprese, comprendere dove sono esposte ai rischi è come fare un check-up approfondito, tanto più importante oggi perché basta anche un piccolo evento che sfrutta un’elevata vulnerabilità per far sparire l’azienda dal mercato.



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