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Un patto imprese-università per spingere l’Italia digitale


In Italia, oltre venti milioni di persone lavorano, due milioni frequentano l’università, otto milioni sono studenti e studentesse nelle scuole. Ogni giorno, dietro ogni prodotto e servizio, dietro ogni aula e ufficio, ci sono uomini e donne che lavorano, imparano, collaborano, si mettono in gioco. Questo è il vero cuore del Paese. Eppure, oggi quel cuore sente un battito più affannoso. A fronte di trasformazioni sempre più rapide, molte persone si sentono smarrite, vulnerabili, sole. Viviamo un’epoca in cui tutto accelera: le tecnologie, i mercati, i linguaggi. L’intelligenza artificiale – potente, pervasiva, ancora poco compresa – entra nei luoghi di lavoro, non come un annuncio del futuro, ma come presenza del presente. Non è solo una questione di algoritmi: è una questione di fiducia. Di capacità collettiva di affrontare la transizione senza lasciare indietro nessuno.

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È tempo, allora, di una nuova agenda. Un’agenda per il lavoro che cambia, che guardi al futuro senza paura e al presente senza rassegnazione. Un’agenda che parta dalle persone, e in particolare da quelle che lavorano nelle piccole e medie imprese italiane. Le PMI italiane sono l’ossatura del nostro sistema produttivo, ma anche l’anello più esposto all’incertezza tecnologica. Molte di esse operano ancora in un ecosistema analogico, fatto di saper fare, relazioni personali, pragmatismo quotidiano. Ma proprio in queste realtà, l’intelligenza artificiale sta già penetrando: nei software gestionali, nella logistica, nel marketing, nella produzione. A volte con consapevolezza, più spesso in modo silenzioso. Il rischio è quello di una frattura: tra chi ha accesso agli strumenti dell’innovazione e chi ne resta escluso; tra chi governa il cambiamento e chi lo subisce. Per questo accompagnare le PMI non significa solo aggiornarle tecnicamente. Significa costruire condizioni di fiducia, visione, competenza condivisa. L’intelligenza artificiale modifica profondamente il modo di lavorare: introduce nuove mansioni, trasforma le esistenti, ne rende obsolete altre. Ma ciò che chiede alle persone non è meno impegno, bensì un impegno diverso. Accanto alle competenze digitali, diventano cruciali il pensiero critico, la capacità di risolvere problemi, la comunicazione, la collaborazione interdisciplinare. Cresce anche il bisogno di competenze etiche: saper usare l’IA è importante, ma ancora più importante è saper decidere quando non usarla. Non è solo un tema di aggiornamento professionale. È una sfida culturale. Un Paese che vuole crescere in produttività deve investire in umanità pensante.

Per affrontare questa sfida servono strumenti agili, inclusivi, accessibili. Le micro-credential sono tra questi. Si tratta di certificazioni di breve durata, rilasciate da università, enti di formazione, aziende, che attestano il possesso di competenze specifiche, immediatamente spendibili nel lavoro. Sono modulari, personalizzabili, riconosciute in tutta Europa, nel pubblico e nel privato. Possono aiutare chi lavora a riqualificarsi senza doversi fermare. Possono valorizzare anche i percorsi non formali. Possono ridare dignità e motivazione a chi pensa di non essere più “formabile”. Il Consiglio dell’Unione Europea ne ha raccomandato lo sviluppo già dal 2022. E in Italia alcune università – da Bologna al Politecnico di Milano, da Ca’ Foscari a Napoli Federico II – stanno già sperimentando percorsi di micro-credential in collaborazione con imprese e territori. Non siamo soli in questo percorso. In Francia, il programma Compétences et Métiers d’Avenir punta proprio a formare nuove figure professionali per l’economia digitale e sostenibile. In Germania, i conti formazione individuali (Bildungskonten) permettono a ciascun lavoratore di investire sulla propria crescita. Nei Paesi Bassi, l’approccio “Leven Lang Ontwikkelen” – apprendere tutta la vita – è diventato politica nazionale. E a livello europeo, il Pact for Skills ha già riunito oltre 2.000 attori – imprese, governi, università – per sviluppare percorsi di upskilling e reskilling in settori chiave come l’industria, l’energia, la sanità. Le micro-credential sono parte integrante di questa strategia. L’Europa ha già tracciato la direzione: ora tocca a noi interpretarla con coerenza e coraggio.

Anche in Italia non mancano strumenti: dal Fondo Nuove Competenze alla Formazione 4.0, dagli ITS Academy ai progetti del PNRR. Ma troppo spesso questi strumenti sono frammentati, discontinui, faticosi da interpretare per le imprese e poco riconoscibili per i cittadini. Mancano una cabina di regia e un disegno strategico unitario che trasformi interventi episodici in politiche strutturali. Il risultato è che molti fondi non vengono spesi, molte PMI restano ai margini e molti lavoratori non si sentono coinvolti. Al tempo stesso, alcune esperienze pilota vanno valorizzate: le università che offrono micro-credential riconosciute; le filiere industriali che sperimentano percorsi congiunti tra scuola, formazione e impresa; le regioni che introducono piattaforme digitali per la certificazione delle competenze. Sono semi da cui può germogliare un nuovo modello italiano. Ma serve volontà politica e un’alleanza tra pubblico e privato, tra sapere e lavoro, tra centro e territori. La transizione è già iniziata. E come tutte le transizioni può generare crescita, o può generare paura. La differenza la fa il modo in cui la si accompagna. Accompagnare non è proteggere a oltranza né forzare il cambiamento. È offrire strumenti, visione, ascolto. È aiutare chi lavora a sentirsi ancora protagonista. È fare in modo che nessuno si senta superfluo.

L’Italia ha tutto per riuscirci: un patrimonio diffuso di intelligenze, imprese familiari radicate nei territori, università capaci di innovare, una cultura del lavoro che sa essere anche cultura della dignità. Serve però pensiero lungo. Serve un’agenda che investa nel capitale umano, con coraggio e continuità. Serve la forza di dire che accompagnare le persone, non lasciarle sole, è la forma più alta e concreta di modernità. Serve un Piano nazionale per il lavoro che cambia, capace di dare una regia coerente a ciò che oggi è disperso. Il PNRR terminerà nel 2026: i fondi eventualmente non spesi potrebbero essere riallocati per questa priorità.

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