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Dallara, dall’Emilia a Indianapolis: la ricetta della Motor Valley italiana per battere i dazi


di
Alessia Cruciani

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Andrea Pontremoli, ceo dell’azienda di auto da corsa, annuncia: «Il modello della Motor Valley già replicato nei settori del food, logistica e digitale. Si vince solo se sosteniamo le imprese dell’ecosistema»

«Parto da un concetto che ripeteva il più grande filosofo della storia, secondo me, mio nonno: “La ricchezza divide, la povertà unisce”. Ora che andiamo verso un mondo che ci farà impoverire, bisogna unirsi. Nella Motor Valley dobbiamo passare da un egosistema a un ecosistema».
Andrea Pontremoli, ingegnere di 67 anni, dal 2007 è alla guida di Dallara, tra le più importanti aziende specializzate nello sviluppo e nella produzione di auto da corsa, fondata nel 1971 a Varano de’ Melegari dall’ingegnere Giampaolo Dallara, e che oggi occupa circa 860 persone.
«La Motor Valley è nata per essere un brand turistico, ma adesso abbiamo aggregato un alto numero di imprese — continua l’ad —. E dobbiamo considerare la formazione non solo per le aziende più note dell’area, come Ferrari, Maserati, Lamborghini, Dallara, ma per le altre 16.500: abbiamo il dovere di aiutarle a crescere, altrimenti non potremmo esistere nemmeno noi».

Quanto sono importanti per voi le competenze? Oltre a Dallara Academy e Innovation Farm, siete coinvolti anche con il Muner (Motorvehicle University of Emilia-Romagna) e gli Its.
«Sono fondamentali. Oggi tutti si lamentano della scarsità di professionisti ma con Ferrari, Lamborghini e altri abbiamo ideato 9 lauree specialistiche in ingegneria che non esistevano, con il 25 per cento degli studenti che viene dall’estero. L’80 per cento dei laureati magistrali esce con una votazione tra 110 e 110 lode. E tutti trovano un lavoro già prima di finire. Abbiamo poi messo insieme 4 università dell’Emilia-Romagna con una laurea inter-ateneo, portando il concetto di un campus grande come una regione. Mettiamo a disposizione strumenti come la galleria del vento, il banco motore della F1. Prepariamo i nostri ingegneri».




















































Non servono solo ingegneri.
«Con Innovation Farm e gli Its prepariamo meccanici, laminatori: chi lavora con le mani. Impieghiamo molte persone con stipendi decisamente alti rispetto alla normale industria automotive dove tutto è robotizzato».

 

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Chi sta seguendo questa formula?
«Food, logistica, digitale. L’Innovation Farm ha il suo gemello con la Food Farm. Per rendere competitivo il nostro territorio con Guido Barilla, Alessandro Chiesi e Davide Bollati abbiamo dato vita al sistema “Parma io ci sto” insieme a Fondazione Cariparma e Confindustria. E dopo Muner, ora c’è l’università Fooder. E poi c’è la Barilla Academy. Un’azienda non può essere competitiva se non rende competitivo il territorio in cui si trova».

Noto che ha al collo il badge aziendale. Ne ha bisogno anche il ceo?
«Certo, definisce chi può andare dove. Lavorando per tanti clienti, la parte della confidenzialità è essenziale».

Che messaggio date come azienda?
«Assumiamo dalle 15-20 persone ogni secondo lunedì del mese. Io dedico un’ora del mio tempo alle persone che entrano, l’ingegner Dallara fa lo stesso così come il direttore della aerodinamica e tutti gli altri. I nuovi entrati in 8 ore visitano l’azienda e quando tornano possono dire: “Aspettavano me, c’erano tutti”. Vogliamo dare l’idea di quanto sono importanti le persone. È il nostro modo per esser ancora qui tra 50 anni. Le aziende non esistono per i prodotti ma per i valori».

Come è organizzata oggi Dallara a livello di assetto societario?
«La maggioranza è in mano alla famiglia Dallara, io ho la quota di minoranza. Poi abbiamo fatto due trust separati con lo stesso fine: non vendere l’azienda per 25 anni e reinvestire gli utili per creare valore. E non abbiamo debiti. Chiudiamo il bilancio a giugno. L’esercizio 2023-24 ha registrato 214 milioni di fatturato. Quello 2024-25 lo chiuderemo intorno ai 240-250 milioni con circa il 15-16% di ebitda. Gli Stati Uniti pesano per circa il 25%, poi ci sono Europa e Giappone».

I dazi americani vi riguardano, avendo la società Dallara Usa a Indianapolis?
«È una holding di 5 aziende. A Indianapolis abbiamo riprodotto lo stesso ecosistema che abbiamo nella Motor Valley e lì a maggio, al termine della 500 Miglia, ci sarà l’inaugurazione del primo distaccamento della Purdue University, come ha fatto Muner nella sede di Varano. Ma i dazi ci toccano perché esportiamo molto e picchiano parecchio».

Ripete sempre: «Dobbiamo fare cose complicate». Perché?
«Il nostro obiettivo è vendere innovazione ai clienti. E puoi essere innovativo se dici “solo io”. Non lo sei se dici “anche io”. Il concetto di unicità è fondamentale. Per riuscirci usiamo due potenti strumenti. Il primo sono le competizioni sportive. Nel motorsport ci sono solo due possibilità: o vinci o impari. Il secondo è l’errore. Se non posso sbagliare, faccio solo quello che so, sono conservativo per definizione. È necessario sbagliare molto, velocemente e a basso costo».

Come si fa?
«Nella nostra galleria del vento posso provare decine di migliaia di forme diverse senza mai produrre l’auto, la moto, il casco. Con la F1 abbiamo fatto circa 40 mila elementi diversi in 9 mesi. La summa di tutto è il simulatore di guida che permette a un pilota di guidare un’auto che non è mai stata costruita».

Con la divisione aerospaziale avete partecipato alla missione di Axiom. Quali test erano in programma?
«È attraverso la complessità che tiri fuori l’innovazione. Noi andiamo nell’aerospazio spinti da problemi difficili per provare la resistenza di alcuni materiali che ci serviranno per lo spazio ma anche per la terra».

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Come l’ingegner Dallara, anche lei è della Val Ceno. Che cosa ha di speciale questa zona?
«Dalla finestra del mio ufficio vedo il fiume dove mio padre lavorava come mugnaio e io con lui per pagarmi gli studi. A Bardi, il mio Paese, ho preso un ristorante, ho creato un’azienda agricola e un albergo diffuso ristrutturando case di mille anni fa e riportandole all’epoca. È il mio modo di lasciare qualcosa. Il ritorno dell’investimento è calcolato in 300 anni. Non lo consiglio come business. Alle mie cinque figlie, dai 22 ai 34 anni, non lascerò soldi ma solo gran “motori” che dovranno far andare facendo funzionare le cose».


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