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No a Ucraina nella Ue, una farsa ideologica che ignora corruzione, instabilità e costi insostenibili, insoddisfatti i criteri di Copenhagen


Una commessa pubblica da 40 milioni di dollari destinata all’acquisto di proiettili, finita su conti bancari nei Balcani.
Una direttrice licenziata per aver denunciato irregolarità negli appalti della difesa.
E rifugi antiaerei da milioni che si sfaldano sotto il primo attacco.

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Sono solo alcune delle crepe profonde nel sistema ucraino. Eppure, su questo stesso sistema, l’Unione Europea sta costruendo l’ipotesi di un’adesione accelerata.

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Sin dall’inizio del conflitto, il tema dell’ingresso di Kiev nell’UE è stato letto attraverso una lente ideologica. È il metodo ormai consueto con cui si raccontano le guerre: si parte dai valori, si finisce col perdere di vista la realtà.

Il dibattito è polarizzato, spesso ingenuo. Si racconta che l’ingresso dell’Ucraina sia un fatto determinabile, senza sbavature di fondo.

Ma gli ostacoli ci sono, e non sono né morali né emotivi. Sono giuridici, istituzionali e politici.

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Partiamo dall’ABC normativo, per aderire all’Unione, un Paese deve soddisfare i criteri di Copenaghen:

stabilità democratica e rispetto dei diritti umani;

un’economia di mercato funzionante;

la capacità di adottare l’intero corpo normativo dell’Unione, l’acquis communautaire.

E l’Ucraina, oggi, non è nemmeno vicina a questi standard.

Attualmente, il Paese registra un preoccupante tasso di corruzione, problematica cronica che affligge l’Ucraina da decenni, e che fu proprio il fulcro della campagna elettorale di Volodymyr Zelensky.

L’allora outsider prometteva una lotta senza sconti al sistema marcio dei favoritismi, delle mazzette e degli oligarchi.
Non è andata così.

Secondo l’Indice di Percezione della Corruzione 2024 di Transparency International, l’Ucraina si colloca al 105° posto su 180 Paesi, con un punteggio di 35 su 100.
Per capirci: l’Ucraina si trova ben al di sotto di Serbia, Albania, Moldavia e Georgia, tutti Paesi che attendono da anni una risposta da Bruxelles.

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A rafforzare il dato ci sono i report della Corte dei conti europea, secondo cui “la grande corruzione rimane una minaccia grave e sistemica, e le azioni intraprese dall’Ue tra il 2016 e il 2019 hanno prodotto impatti modesti e frammentari” (Relazione speciale 23/2021).

E i fatti recenti confermano le parole.
A gennaio 2024, cinque funzionari del Ministero della Difesa ucraino sono stati arrestati con l’accusa di aver sottratto quasi 40 milioni di dollari destinati all’acquisto di munizioni.
A gennaio 2025, lo stesso Ministro della Difesa Umerov è finito sotto inchiesta per aver rimosso la direttrice dell’Agenzia per gli Appalti della Difesa, colpevole, a quanto pare, di aver bloccato forniture sospette.
Nel frattempo, l’OLAF, organismo antifrode dell’UE, ha raccomandato il recupero di 91 milioni di euro in fondi europei per gravi irregolarità nell’acquisto di generatori per l’Ucraina.

Non sono episodi sporadici. Sono sintomi.
Oltre alla corruzione endemica, l’Ucraina non soddisfa neppure il secondo dei criteri di Copenaghen: quello economico.
Secondo le valutazioni della Commissione europea, aggiornate al 2024, l’Ucraina ottiene un punteggio di 1,5 su 5 sia per il funzionamento dell’economia di mercato, sia per la sua capacità di affrontare la concorrenza nel mercato interno dell’UE. È un voto da “non classificato”.

Il PIL pro capite ucraino, secondo il Fondo Monetario Internazionale, resta inferiore non solo alla media UE, ma anche a quella di Paesi come Albania e Macedonia del Nord.

A tutto questo si aggiunge la dipendenza assoluta da aiuti esterni: nel solo 2024, la Banca Mondiale ha approvato finanziamenti per oltre 2 miliardi di dollari, solo per garantire stabilità interna e pagare stipendi pubblici.

Ora, è evidente a tutti che l’Ucraina è un Paese in guerra.
E nessuno pretende che un’economia martoriata possa rientrare subito nei parametri. Ma è proprio questo il punto: è impensabile immaginare un’adesione a breve termine, quando servono anni di ricostruzione e decine di miliardi in fondi post-bellici per far ripartire infrastrutture, imprese e istituzioni pubbliche.

Tanto più che anche l’Unione Europea stessa non è nelle condizioni di reggere un nuovo peso sistemico.
Siamo in piena recessione tecnica. Il debito complessivo ha superato i livelli di guardia e sei Stati membri hanno superato il 100% del proprio PIL in debito pubblico.
A questo si somma una guerra commerciale in corso, che peggiora ulteriormente le prospettive economiche dell’intera area euro.

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C’è poi un altro tema, quasi completamente assente nel dibattito pubblico, ma che rischia di avere ricadute pesantissime sul piano interno per molti Stati membri, Italia in testa: la Politica Agricola Comune.

Se c’è un pilastro concreto dell’Unione, questo è proprio la PAC.
Una voce che pesa per circa il 31% del bilancio europeo e che garantisce pagamenti diretti agli agricoltori sulla base della superficie coltivata, oltre a finanziare programmi di sviluppo rurale e sostenibilità ambientale.

Tradotto: chi ha più ettari, prende più soldi.

Con l’attuale assetto, la superficie agricola totale dell’UE è di circa 157 milioni di ettari.
L’ingresso dell’Ucraina — che da sola dispone di oltre 41 milioni di ettari di terre coltivabili, molte delle quali gestite da colossi agroindustriali, significherebbe un aumento di quasi il 26% delle superfici da finanziare.

Ma il bilancio della PAC non crescerebbe di conseguenza.
Il risultato? Tagli trasversali per tutti.

Secondo stime pubblicate da UNSIC (Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori), se si volessero mantenere gli attuali livelli di pagamento per ettaro (circa 343 euro), l’Unione dovrebbe aumentare la dotazione PAC di oltre 95 miliardi di euro.
Un’ipotesi irrealistica, considerando lo stato già critico dei conti europei.

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Più probabile, invece, è lo scenario opposto: mantenere il budget invariato e ridurre il sostegno.
Il che porterebbe a un taglio medio del 20% degli aiuti per gli agricoltori europei.

Ultimo tema, ma decisivo, gravita attorno all’articolo 42 del Trattato sull’Unione Europea.
È l’articolo che impegna ogni Stato membro ad aiutare e assistere militarmente un altro Stato membro aggredito. In gergo, si chiama “clausola di difesa reciproca”.
Il paragrafo 7 dell’articolo 42:

«Nel caso in cui uno Stato membro subisca un’aggressione armata, gli altri Stati membri gli devono assistenza e aiuto con tutti i mezzi in loro possesso.»

Ora, immaginiamo l’Ucraina come membro UE.
Significa che qualunque escalation con Mosca, anche solo in un futuro ipotetico, diventerebbe un affare diretto dell’Unione. E quindi nostro.

Non si tratta solo di fondi o di ricostruzione. Si tratta, potenzialmente, di uomini e mezzi. Di conflitto.
E a quel punto, non basterebbero più le dichiarazioni di sostegno o gli aiuti logistici: l’Italia, come tutti gli altri Paesi UE, sarebbe giuridicamente vincolata a intervenire.

Siamo pronti ad accollarci una guerra per procura?
Siamo sicuri che la nostra sicurezza nazionale sia compatibile con un’adesione che porta la linea del fronte ai confini di casa?

Per ora, nessuno sembra porsi la domanda.

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Abbiamo parlato di corruzione strutturale, di un’economia in stato comatoso, di una PAC che collasserebbe sotto il peso di 40 milioni di ettari da sovvenzionare, e infine del rischio – mai discusso pubblicamente – che un articolo di trattato ci leghi mani e piedi a una guerra che non abbiamo scelto.

Tutto questo dovrebbe bastare per sospendere dal dibattito pubblico questa eventualità.
Tuttavia, non è la sola incoerenza in cui inciampa l’Unione Europea quando si parla di allargamento.
Basti pensare ai Paesi promossi a candidati nel 2022: la Bosnia, dove prosperano partiti anti-cristiani e anti-minoranze; la Moldova, dove lo Stato non controlla nemmeno tutto il proprio territorio.

Tutti Paesi che, per storia recente, struttura interna e livello di governance, non rispettano i criteri minimi di adesione ma neppure presentano un humus culturale-religioso compatibile con quello degli altri Stati membri.

Sicché ci concentriamo così tanto sulla volontà di “proteggere” l’Ucraina sotto la bandiera blu, tema che ha monopolizzato il dibattito europeo negli ultimi tre anni.

Ma di una cosa non si parla mai: dell’identità che dovrebbe oggi avere l’Unione.

I valori fondanti appaiono sempre più distanti, ripetuti a vuoto, depotenziati dalla loro stessa invocazione.

E poi, diciamolo: non basta nemmeno averne, di valori. Se non diventano la bussola chiara delle scelte politiche e istituzionali, sono solo slogan da conferenza stampa.

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Qualcuno diceva: “L’Europa o si fa così o non è”.

Bene. Ma oggi… quo vadis, Europa?

Di Vanessa Combattelli





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