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Il referendum sui licenziamenti nelle piccole imprese. Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Orsola Razzolini, Lorenzo Zoppoli e Corrado Caruso


Il referendum abrogativo parziale dell’art. 8 della l. 15 luglio 1966, n.604, sui licenziamenti individuali nell’ambito delle piccole imprese, con riferimento al limite massimo della tutela indennitaria

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V. A. Poso. Su iniziativa della CGIL sono stati promossi quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche (dopo la comunicazione in data 12 aprile 2024 dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 87 del 13 aprile 2024).

Il secondo, sinteticamente denominato dai promotori “Piccole imprese – Licenziamenti” ha ad oggetto il seguente quesito: «Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”?».

Il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato dalla CGIL, per realizzare il “lavoro dignitoso”, è inteso, in estrema sintesi, ad innalzare le tutele contro i licenziamenti illegittimi per le lavoratrici e i lavoratori che operano nelle imprese con meno di 15 dipendenti, eliminando il tetto massimo all’indennizzo, affinché sia il giudice a determinare il giusto risarcimento senza alcun limite.

Chiedo, in particolar modo, ai giuslavoristi, in cosa consista la disciplina normativa oggetto di referendum.

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Innanzitutto, un quadro sintetico dei soggetti ai quali si applica, spiegando, anche, le ragioni di politica del diritto poste a fondamento della l. n. 604/1966, che è rimasta, nel suo impianto originario, sostanzialmente immune, nonostante le riforme successive, dallo statuto dei lavoratori in poi, dovendosi, comunque, considerare le modifiche introdotte dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108. 

L. Zoppoli. La l. n. 604/1966 è la base di tutto l’edificio in cui albergano le tutele contro i licenziamenti arbitrari e/o viziati nella forma, nella motivazione, nella tempistica, nella procedura.

Si tratta di una disciplina importante e complessa, ripresa da accordi interconfederali degli anni ’50, che nell’insieme si può dire abbia resistito piuttosto bene al tempo con l’importante eccezione dei regimi sanzionatori, entrati in crisi solo pochi anni dopo con l’art. 18 della l. n. 300/1970.

Di quella originaria disciplina faceva parte anche il quadro sanzionatorio previsto dall’art. 8 che riguardava il licenziamento viziato in quanto carente della giusta causa o del giustificato motivo. Tale licenziamento era da considerarsi annullabile e il lavoratore godeva di una tutela c.d. obbligatoria: cioè aveva diritto ad essere riassunto entro tre giorni oppure (“in mancanza”) al risarcimento del danno consistente in un’indennità predeterminata nel minimo (5 mensilità dell’ultima retribuzione) e nel massimo (12 mensilità, che diventavano 8, se il lavoratore era in servizio da meno di trenta mesi, o 14, se aveva invece un’anzianità superiore a vent’anni), da graduare in base a tre parametri (dimensione dell’impresa, anzianità di servizio del lavoratore, comportamento delle parti).

Tutte le indennità venivano dimezzate per le imprese con meno di sessanta dipendenti (art. 8 c. 3). Per completezza occorre anche ricordare che la legge del 1966 non si applicava alle imprese con meno di trentacinque dipendenti (art. 11c. 1).

Con lo Statuto dei lavoratori la tutela obbligatoria divenne la sanzione per i licenziamenti ingiustificati solo nelle imprese che occupavano fino a sessanta dipendenti con eccezione delle unità produttive con più di quindici dipendenti o cinque, se agricole (c.d. “tutele parallele” frutto di una tribolata interpretazione giudiziaria assestatasi a fine anni ‘70 e avallata dalla Corte costituzionale). Questo assetto ha resistito fino alla l. 108/1990, adottata per scongiurare un referendum che avrebbe potuto generalizzare la reintegrazione.

Questa legge ha modificato entità e criteri di determinazione delle indennità risarcitorie, ma non il campo di applicazione dell’art. 8, conservando così la tutela obbligatoria nelle imprese che occupano fino a sessanta dipendenti con eccezioni delle unità produttive (o imprese ubicate nello stesso comune) con più di quindici dipendenti o cinque se agricole (art. 2 l. 108/90). Con la riforma del 1990 le indennità venivano fissate tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità (elevabili per i datori di lavoro con più di quindici dipendenti a 10, in caso di lavoratore con anzianità superiore a 10 anni, e a 14, in presenza di anzianità superiore a vent’anni); ed andavano calcolate sulla base non più di tre parametri ma di cinque (si aggiungono con qualche duplicazione: numero dei dipendenti occupati e anzianità di servizio del prestatore di lavoro).

Questo regime sanzionatorio, da un lato miserrimo e dall’altro frutto di cervellotiche ponderazioni, rende evidente come nelle piccole imprese la disciplina del licenziamento sia diventata sempre più frutto di compromessi all’insegna del pragmatismo più marcato dove il “valore della stabilità” per il lavoratore conta davvero poco rispetto alle miriadi di piccole imprese in cui sembra evidentemente inaccettabile indebolire anche minimamente la posizione contrattuale del datore di lavoro.

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Con il Jobs Act anche gli assunti con contratto a tutele crescenti (d’ora in poi catuc, usato come acronimo) nelle piccole imprese (le stesse di cui all’art. 2 della l. 108/1990, ripreso dall’art. 18 Stat. lav. novellato nel 2012) si son visti rimaneggiare le tutele contro i licenziamenti illegittimi: queste divengono sempre solo indennitarie (con eliminazione della riassunzione, per la verità alternativa quasi mai praticata), ma mai possono superare le sei mensilità (art. 9 c. 1 del d.lgs. 23/2015).

Pertanto, il referendum sull’art. 8 della l. 604/1966 riguarda specificamente solo i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, che vedrebbero cadere il limite massimo ora previsto per le sanzioni indennitarie e avventurarsi nel mare aperto del diritto dei contratti. Come del resto, grazie alla Corte Cost. (194/2018), già parzialmente sembra accaduto sia per i lavoratori delle imprese medio-grandi assunti con catuc (per i quali la determinazione dell’indennità è ora rimessa al giudice seppure in una forbice legale di 4/36 mesi) sia per gli assunti con catuc nelle imprese più piccole, che un’altra sentenza della Corte (183/2022) ha considerato in via di espunzione dall’ordinamento. 

O. Razzolini. Mi sembra che Lorenzo Zoppoli abbia già efficacemente tratteggiato il complesso quadro normativo vigente in materia di licenziamento nelle piccole imprese, dando conto anche della sua evoluzione storica.

Posso solo aggiungere che la scelta di diversificare il regime del licenziamento illegittimo in base al numero dei dipendenti sollevò un vivace dibattito parlamentare sin dall’approvazione della l. n. 604 del 1966 che, all’art. 11, ne sanciva la non applicabilità ai datori di lavoro che occupavano fino a trentacinque dipendenti per i quali avrebbe continuato ad operare il recesso ad nutum (v., in particolare, il resoconto del dibattito parlamentare del 12 maggio 1966).

Il requisito dimensionale dei 35 dipendenti, in parte mutuato dalla contrattazione collettiva, venne ampiamente criticato dalla minoranza e, in particolare, dall’on. Francesco Cacciatore(PSI, prima, PSIUP, poi)che respinse sia l’argomento fondato sull’elemento fiduciario che caratterizzerebbe i rapporti di lavoro nelle piccole imprese, giustificando l’esigenza di una maggiore libertà nel recesso, sia quello economico che faceva riferimento alla necessità di non gravare queste ultime di costi eccessivi. In subordine, la minoranza proponeva di abbassare il requisito da 35 a 10. Affermava Cacciatore in modo un po’ lapidario che «se il datore di lavoro non si trova nelle condizioni di affrontare la penalità o di riassumere il dipendente», nel caso il licenziamento venga ritenuto illegittimo, «vuol dire che non si deve concedere il lusso di licenziare ingiustamente».

L’on. Angelo Abenante (PCI) aggiunse che il requisito numerico si sarebbe tradotto in un incentivo per gli imprenditori ad eludere la legge frammentando l’impresa in tante unità o stabilimenti produttivi. Un’affermazione quest’ultima che va al cuore di un problema ancor oggi attuale. Il requisito numerico costituisce infatti un incentivo alla frammentazione di un’attività economica sostanzialmente unitaria non solo in una pluralità di stabilimenti e unità produttive riconducibili al medesimo soggetto di diritto, bensì in una pluralità di imprese e soggetti distinti sul piano giuridico formale (gruppi di imprese, reti, filiere).

Prevalsero, come noto, la proposta della maggioranza e i due argomenti – fiduciario ed economico – su cui essa si fondava.

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Se il criterio della fiduciarietà del rapporto oggi non è più la ratio della libertà di recesso concessa alle piccole imprese, per contro tenute ad addurre sempre una giusta causa o un giustificato motivo, esso continua a costituire la spiegazione del perché in tali contesti organizzativi resti preferibile non attuare il rimedio della reintegrazione. La Corte costituzionale ha altresì richiamato l’«esigenza di salvaguardare la funzionalità delle unità produttive» in cui la reintegrazione potrebbe comportare situazioni di tensione nelle relazioni umane e di lavoro (Corte cost., n. 152 del 1975).

L’idea di diversificare il regime del licenziamento alla luce di un criterio dimensionale basato sul numero dei dipendenti non è certamente isolata né circoscritta al solo contesto italiano.

La loi Macron, che adotta un regime di tutela in caso di licenziamento ingiustificato molto simile a quello del Jobs Act, diversifica le conseguenze in caso di licenziamento illegittimo, fissando tetti minimi e massimi all’indennità dovuta al lavoratore a seconda di due elementi oggettivi: il numero dei dipendenti occupati nell’impresa (meno di 20, tra 20 a 299, 300 dipendenti e oltre) e l’anzianità di servizio del dipendente licenziato (meno di 2 anni, 2-10 anni, più di 10 anni). Anche in Germania la disciplina in materia di licenziamento (KSchG) è applicabile soltanto alle imprese che occupano più di dieci dipendenti; pertanto, al di sotto di tale soglia vale il principio della libertà di recesso (salvi i casi del licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza o del licenziamento discriminatorio).

A mio parere, tuttavia, alla base del quesito referendario non vi è tanto la volontà di rivedere i criteri alla base della scelta di escludere le piccole imprese dalla tutela reale, quanto l’intento di mettere in discussione la legittimità dei tetti massimi all’indennizzo dovuto al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, in omaggio al principio dell’integrale risarcimento del danno affermato anche dal Comitato europeo per i diritti sociali (v. CGIL vs Italy, 11 settembre 2019). Un principio la cui affermazione, pur limitata ad un contesto assai circoscritto (lavoratori occupati nelle piccole imprese e assunti prima del 7 marzo 2015), avrebbe una grande importanza sul piano valoriale.

 

V. A. Poso. Siamo arrivati, poi, al testo vigente, che riguarda, comunque, i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, ai quali, invece, si applicano le disposizioni normative del d. lgs. n. 23 del 4 marzo 2015 (c.d. Jobs Act).

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Chiedo, in particolare, a Lorenzo Zoppoli di tracciare un quadro sintetico delle diverse posizioni emerse in dottrina su questa norma. 

L. Zoppoli. Direi che la dottrina è unanime nel ritenere che non si possa uniformare la disciplina dei licenziamenti per tutte le imprese ignorandone le differenze dimensionali, specie per quanto attiene alla solidità patrimoniale. Però è divisa sui parametri per valutare tale solidità. Molti ritengono che ormai non regga più il solo parametro del numero dei dipendenti, che dovrebbe essere almeno affiancato da altri come il fatturato o la redditività dell’impresa o la considerazione del grado di evoluzione tecnologica dell’organizzazione aziendale. Altri ritengono invece che il dato numerico rispecchi l’importanza dell’elemento fiduciario che sarebbe maggiore laddove a lavorare si è in pochi. Quest’ultimo era probabilmente il fattore determinante nell’escludere la reintegrazione per le imprese con pochi lavoratori. Ma se invece si tratta di graduare sanzioni indennitarie (come nella proposta referendaria) senza imporre alcuna prosecuzione del rapporto mi pare venga meno la rilevanza del numero dei lavoratori occupati.

                   

 

V. A. Poso. Orsola Razzolini hai qualcosa da aggiungere rispetto a quanto evidenziato da Lorenzo Zoppoli, con riferimento alle applicazioni giurisprudenziali più importanti e alla nozione di piccola impresa? 

O. Razzolini. Mi sembra che anche la giurisprudenza abbia sempre condiviso la necessità di differenziare le conseguenze del licenziamento illegittimo sulla base del requisito dimensionale. Va segnalata tuttavia la giurisprudenza in materia di licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato in violazione dell’art. 2110 c.c. e della contrattazione collettiva. L’orientamento più recente lo reputa nullo e pertanto improduttivo di effetti a prescindere dal numero dei dipendenti occupati nell’impresa (Trib. Pesaro, 27.4.2022; Cass., 22.5.2018, n. 12568; Cass., 22.7.2019, n. 19661). Un discorso diverso vale per il licenziamento inefficace per assenza di motivazione.

Non si può poi non soffermarsi sulla sentenza della Corte costituzionale n. 183 del 2022 che ha respinto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1, d.lgs. n. 23 del 2015, che circoscrive l’indennità dovuta ai lavoratori occupati nelle piccole imprese e assunti dopo il 7 marzo 2015 nel ristretto margine di 3-6 mensilità, richiamando tuttavia l’urgenza di un intervento legislativo che riveda la materia in termini complessivi sia con riferimento ai requisiti dimensionali sia con riferimento alla funzione effettivamente dissuasiva delle diverse indennità. La Corte punta in particolare il dito sulla perdurante idoneità del requisito numerico a denotare l’effettiva capacità economica dell’impresa.

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Ed in effetti si deve convenire che nel contesto attuale vi sono imprese immobiliari e fondi di investimento con fatturati estremamente elevati e pochissimi dipendenti e, per contro, imprese con molti dipendenti ma poco margine in termini di utili e fatturato prodotto.

Il numero dei dipendenti è dunque un criterio senz’altro indicativo ma non più esclusivo. Ancora andrebbe ripensato il perimetro dell’impresa da considerare per calcolare il numero dei dipendenti. Ad esempio, nei gruppi, i dipendenti di una società controllata al 99% andrebbero sommati con quelli della controllante; del pari, nelle filiere, l’impresa leader, che controlla saldamente le imprese parte della filiera, non può scaricare su queste ultime dipendenti e relativi costi senza assumerne alcuna responsabilità. In definitiva, nelle organizzazioni complesse ma fortemente integrate il principio della formale separazione soggettiva non può più operare in modo automatico e assoluto.

È infine la stessa scelta dei 15 dipendenti quale requisito numerico a destare perplessità.

È noto come, per l’Istat, più che le piccole imprese rilevino le microimprese (0-9 addetti), che costituiscono il 95,2% delle imprese attive, occupano il 43,8% dei dipendenti (con una spesa media di 21.800 euro per dipendente) e portano solo il 26,8% di valore aggiunto complessivo. Forse occorrerebbe tornare al requisito dei 10 dipendenti suggerito nel 1966. È utile, in proposito, ricordare la definizione di “microimpresa” (perché è in fin dei conti delle micro, non delle piccole imprese che stiamo discutendo) contenuta nel Decreto del Ministero delle attività produttive del 18 aprile 2005 sulla scorta della Raccomandazione della Commissione europea 2003/361/CE: è microimpresa l’impresa che ha meno di dieci occupati e un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro dove per “bilancio annuo” si intende “il totale dell’attivo patrimoniale”. Credo questa sia la definizione di “piccola impresa” che dovrebbe essere accolta sul piano legislativo.

Vorrei osservare, infine, che questa definizione solo in parte interseca quella di cui all’art. 2083 c.c. in base alla quale “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”. Requisito essenziale del piccolo imprenditore, per il Codice civile, è quello di essere titolare di un’organizzazione di mezzi e persone che tuttavia non prevale mai sul contributo personale diretto dell’imprenditore e dei suoi familiari. Difficilmente un’organizzazione che occupa nove dipendenti può dirsi non prevalente, salvo il caso dell’impresa artigiana dove è maggiore il rilievo, in termini specialmente qualitativi, del lavoro diretto anche manuale del titolare dell’organizzazione tanto giustificarne un trattamento speciale e differenziato.

 

V. A. Poso. Lorenzo Zoppoli hai qualcosa da aggiungere alle osservazioni di Orsola Razzolini? 

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L. Zoppoli. Mi pare che Orsola abbia dato le indicazioni necessarie, con qualche utile spunto di riflessione che va oltre gli orientamenti della giurisprudenza. Aggiungerei che la più recente giurisprudenza costituzionale si lascia apprezzare anche di più se si considera quella (v. la sentenza n. 26 del 2017) che bloccò il precedente referendum sull’art. 18, che, come scrissi tempestivamente (v. il Quaderno n. 4 di Diritti lavori mercati (a cura di Sandro Staiano, Antonello Zoppoli, Lorenzo Zoppoli, Il diritto del lavoro alla prova del referendum, Editoriale Scientifica, 2018), impedì una utile verifica popolare sulla svolta legislativa realizzata con il d.lgs. 23/2015 che confermava e anzi, come si è detto prima, peggiorava le tutele contro i licenziamenti illegittimi anche nelle piccole imprese, cristallizzando il discrimine basato sul solo numero di dipendenti per di più individuato in valori troppo alti.

 

V. A. Poso. Come giudicate, nel merito, la richiesta referendaria sulla norma in questione? Lo slogan utilizzato dalla CGIL per questo quesito è che “Il lavoro deve essere dignitoso e perciò ben retribuito”. L’abolizione del tetto massimo del risarcimento consentirebbe al giudice di quantificarlo in base ai diversi parametri (età, carichi familiari, capacità economica dell’azienda), senza limitazioni imposte dalla legge, riconoscendo così una tutela più adeguata al lavoratore licenziato; e ciò rafforzerebbe la funzione dissuasiva della norma, come rimodulata in caso di esito positivo del referendum abrogativo.

Condividete questa prospettazione? 

L. Zoppoli. In linea di massima condivido la necessità di adeguare le sanzioni per i licenziamenti ingiustificati nelle piccole imprese. Nutro solo la preoccupazione che l’eliminazione del massimo venga utilizzata dai giudici al ribasso. 

O. Razzolini. Il quesito referendario affronta il tema della natura dell’indennità dovuta in caso di licenziamento illegittimo. Parliamo di un risarcimento in senso tecnico, nel qual caso la previsione di tetti massimi costituisce un oggettivo e inaccettabile impedimento per il giudice di modulare il risarcimento al fine di garantire al lavoratore un integrale ristoro del danno subito? O parliamo di un’indennità che non aspira a garantire al lavoratore un risarcimento integrale ma un equo indennizzo, tenendo conto anche delle esigenze di salvaguardare l’impresa e i suoi interessi? A me sembra che questo sia il punto.

È evidente che il Comitato sociale europeo, nelle decisioni CGIL vs Italy e Finnish Society vs Finland, ha adottato la prima delle due posizioni e che, in parte, anche la Corte costituzionale con la sent. n. 192 del 2018 ha seguito questa linea pur confermando poi la legittimità dei tetti. Tuttavia, è altrettanto evidente che gli stati europei hanno sul punto una posizione ben diversa. Non solo l’Italia, ma la Spagna, la Francia, la Grecia, la Finlandia, il Regno Unito, prevedono tetti minimi e massimi all’indennizzo dovuto al lavoratore per non parlare del metodo di calcolo fondato sull’automatismo, da noi dichiarato incostituzionale, ma ancora vigente in Spagna dove al licenziato spetta un’indennità pari a 33 giorni di retribuzione per ogni anno di anzianità di servizio con un massimo di 24 mensilità. E la ragione dei tetti è, spiega il Tribunal Constitucional spagnolo, proprio il fatto che l’indennità non ha natura pienamente risarcitoria ma è funzionale al contemperamento degli interessi del lavoratore con quelli di politica economica e sociale.

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In altri termini, il legislatore, prevedendo dei limiti, ammette che l’indennizzo – che pure deve essere adeguato e anche dissuasivo – non è rivolto all’integrale ristoro del danno patito dal lavoratore poiché vengono in rilievo esigenze di tutela dell’impresa che impongono un contemperamento. Alla stessa conclusione giunge il Conseil constitutionnel in Francia.

A me sembra che gli stati e le legislazioni nazionali abbiano tutto il diritto di scegliere, nell’esercizio della loro discrezionalità, di continuare a seguire questa impostazione. Naturalmente il fatto che la compensazione dovuta al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo abbia natura indennitaria e non risarcitoria non esclude che l’ammontare della stessa possa essere soggetto al giudizio della Corte costituzionale sotto il profilo dell’adeguatezza, della ragionevolezza e anche della dissuasività. Anzi, si può parlare di adeguatezza e ragionevolezza proprio perché parliamo di indennizzo; se parlassimo di risarcimento, in senso tecnico, non vi sarebbe alcuno spazio per ragionare di tetti minimi e massimi o di adeguatezza poiché in contrasto con il principio dell’integrale risarcimento del danno alla persona. E sotto questo profilo la previsione di un indennizzo compreso tra 3 e 6 mensilità, una forbice ristretta ed esigua, desta notevoli perplessità.                  

C. Caruso. Colgo l’occasione di questa domanda per fare un discorso più ampio.

Il “lavoro degno” è l’obiettivo verso cui devono convergere le politiche del lavoro in Italia. Non un lavoro purchessia, ma un’attività lavorativa che, a prescindere dalle mansioni in cui si concretizza e dai contesti in cui viene svolta, sia in grado di emancipare la persona, ne consenta la completa realizzazione e, allo stesso tempo, la piena partecipazione alla vita politica, economica e sociale della Repubblica.

Questi, in fondo, sono gli imperativi che discendono, con diversità di accenti, dai primi quattro articoli della nostra Costituzione. Lo ha ricordato anche il Presidente Sergio Mattarella nelle dichiarazioni rese in occasione della Festa dei Lavoratori, quando con vigore e insistenza, ha rimarcato come i salari bassi e la insicurezza sul posto di lavoro siano le emergenze che il nostro Paese deve immediatamente affrontare. La stagnazione delle retribuzioni, nonostante l’aumento della produttività e la alta qualificazione dei lavoratori, deprimono, nelle parole del Presidente, il nostro “capitale umano”. “[L]e morti del lavoro [sono] una piaga che non accenna ad arrestarsi e che, nel nostro Paese ha già mietuto, in questi primi mesi, centinaia di vite, con altrettante famiglie consegnate alla disperazione. Non sono tollerabili né indifferenza né rassegnazione”.

Il lavoro è “espressione della creatività e della dignità umana”. Secondo il nostro Capo dello Stato, gli stravolgimenti portati dalla società della tecnica non possono incidere sui suoi significati di “libertà e coesione”. È la dignità umana che deve costantemente ispirare le politiche del lavoro, l’orizzonte verso cui deve volgere lo sguardo la nostra società nel suo complesso (istituzioni, forze politiche, organizzazioni sociali, lavoratori e datori nelle loro azioni quotidiane). Va collocata in questo contesto la generale strategia referendaria del principale sindacato italiano, che ha proposto, tra i diversi quesiti, quello relativo alla abrogazione del tetto massimo dell’indennizzo per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese più piccole.

Non vi è dubbio che la mobilitazione referendaria lanci un sasso nello stagno e stimoli, nell’attuale immobilismo della compagine di governo, le forze politiche a rimettere al centro del pubblico dibattito la questione del lavoro e delle sue tutele.

Peraltro, allo stato attuale, l’inerzia della maggioranza, sullo specifico oggetto di questa intervista, si traduce in una vera e propria omissione legislativa in odore di incostituzionalità, solo si consideri il monito espresso dalla Corte costituzionale nella sent. n 183/2022. In quell’occasione (sul punto si tornerà infra), il Giudice delle leggi aveva rilevato come la disciplina del Jobs Act sull’indennizzo nei licenziamenti ingiustificati nelle piccole imprese non realizzasse un “sistema” in grado di attuare “quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi”. Pur senza pronunciare l’incostituzionalità della normativa, la Corte segnalava al legislatore “che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente”.

Senonché la via referendaria, imboccata dalla CGIL, pone alcuni problemi sia a livello di equilibri generali sia per ciò che concerne la soluzione che, con l’abrogazione, si vorrebbe introdurre.

Quanto ai primi, è evidente che, attraverso la battaglia referendaria, il sindacato mira ad ergersi a referente e terminale principale delle politiche del lavoro. Non è una novità: in passato non sono mancati casi simili (si pensi all’iniziativa referendaria di inizio anni 2000 volta ad estendere la tutela reale alle piccole imprese), ma è evidente che, in questo modo, uno strumento di democrazia diretta, che i Costituenti consideravano di natura oppositiva (quasi un atto di controllo), viene utilizzato a fini propositivi e, in qualche modo, piegato alle logiche di funzionamento della democrazia rappresentativa. Il referendum diviene il mezzo per emergere nella competizione con i principali attori politici (e le altre organizzazioni sindacali), guadagnare visibilità, accrescere i propri consensi, e in qualche misura, dettare l’ordine di priorità dell’agenda politica. Una fuga in avanti, dunque, che non aiuta la composizione di una piattaforma programmatica volta a costruire una credibile alternativa di governo.

Inoltre, come ben sanno i politologi, il referendum è un gioco a somma zero, nel senso che la vittoria (o la sconfitta) è totale e senza sconti (chi vince prende tutto e chi perde lascia tutto). In caso di vittoria, qualsiasi soluzione diversa, capace di introdurre una qualche forma di mediazione rispetto alle scelte del legislatore referendario, potrebbe essere considerata in fraudem alla volontà popolare (e a rischio di incostituzionalità, a voler prendere sul serio la sent. n. 199/2012, con cui la Corte ha dichiarato illegittimo un intervento del legislatore rappresentativo di segno contrario all’esito del referendum del 2011 sui servizi pubblici locali).

La sconfitta o il mancato raggiungimento del quorum di validità potrebbe, all’opposto, cristallizzare l’attuale scelta normativa, rendendo politicamente assai complicato, di fronte a un governo che non brilla certo per attenzione alla questione sociale, riaprire il discorso delle tutele del lavoratore. E questo senza considerare i paradossi e le criticità, già evidenziate dai colleghi lavoristi, che deriverebbero dall’abrogazione del tetto indennitario: imprevedibilità delle soluzioni equitative fornite dal giudice, paradossale corsa al ribasso nella liquidazione del quantum, possibile disarmonia nei regimi tra i lavori assunti in un momento successivo o precedente al Jobs Act (in caso di un improbabile ma non impossibile esito diverso di tale quesito parziale rispetto a quello totale sul Jobs Act).                  

 

V. A. Poso. Resta fermo, però, il limite minimo dell’indennità risarcitoria( che va valutato nella sua congruità).                  

C. Caruso. Sì, il “taglia e cuci” realizzato dalla abrogazione referendaria “salva” il minimo ed elimina il massimo indennitario, restituendo una norma così strutturata: “Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo minimo di 2,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti”.

O. Razzolini. Sì, è così. In teoria, a voler trasformare l’indennizzo in risarcimento in senso tecnico, anche la soglia minima non ha senso. Per come è formulato il quesito il limite minimo resta. La ragione politica è prevalsa in questo caso sulla coerenza tecnica. 

L. Zoppoli. Il minimo di 2,5 mensilità previsto dalla norma rimane, essendo ancora espressamente qualificato come tale. Casomai il problema è che viene fissato a un livello davvero irrisorio e che poco si poteva fare con lo strumento referendario.                

 

V. A. Poso. È opportuno, credo, fare una riflessione sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale, anche alla luce delle fonti internazionali, sulla adeguatezza della tutela meramente indennitaria, rispetto a quella reintegratoria, trattandosi di due regimi sanzionatori alternativi, ma compatibili con i principi di tutela del lavoro nel nostro ordinamento complessivamente inteso, anche se il quesito referendario non è diretto ad eliminare la tutela indennitaria per i licenziamenti illegittimi nelle imprese minori, ma solo il tetto massimo del risarcimento stabilito per legge.

In diverse occasioni, infatti, la Corte Costituzionale ha affermato la necessità di realizzare un equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi. 

L. Zoppoli. Come dici tu stesso, la questione non riguarda il referendum sull’art. 8. E comunque, sebbene sia vero che la Corte costituzionale non sembra ritenere in alcun modo garantita la reintegrazione dalla nostra Carta, il ragionamento deve a mio parere essere più ampio dovendosi approfondire sia la questione della effettività e dissuasività dell’apparato sanzionatorio sia la valutazione di coerenza interna dell’ordinamento qualora la tutela indennitaria prevista per i lavoratori subordinati fosse peggiorativa rispetto ai risarcimenti previsti per danni similari nel diritto generale dei contratti. 

O. Razzolini. Come dicevo prima, in teoria, se accogliamo l’idea che l’indennità sia un risarcimento in senso tecnico, allora la reintegrazione, in quanto tutela in forma specifica, dovrebbe sempre essere la via privilegiata.

In questo senso, il Comitato europeo dei diritti sociali nel caso Finnish Society e successivamente in quello italiano promosso dalla CGIL nel 2020 ha valutato la non conformità alla Carta di tutti quei sistemi (caso finlandese e italiano) che non solo prevedono limiti massimi al risarcimento (24 mensilità nel caso finlandese, 36 in quello italiano) ma che escludono a priori la reintegrazione (considerata qui una forma di risarcimento in forma specifica).

Questa conclusione interpretativa però non solo non si evince dalla lettera dell’art. 24 della Carta sociale europea che parla di “congruo indennizzo” (adequate compensation, non full compensation) o “altra adeguata riparazione” (appropriate relief), ma, come ricordavo molto sommariamente prima, si pone in contrasto con la tradizione degli stati europei e, pertanto, a mio parere, difficilmente potrà avere un seguito. Per tale ragione, i proponenti il quesito referendario hanno seguito ma non portato fino alle sue estreme conseguenze la linea interpretativa del Comitato.

In fondo, gli ordinamenti considerano le conseguenze del licenziamento illegittimo un ambito in cui non si può tenere conto del solo punto di vista della vittima dell’illecito, assicurandone l’integrale ristoro, laddove possibile in forma specifica, bensì un ambito in cui le esigenze di tutela del lavoratore vanno contemperate con quelle, altrettanto importanti, dell’impresa e delle sue caratteristiche. Esigenze che, in modo coerente, non vengono invece rilievo, dando pieno spazio al risarcimento integrale, nei casi in cui il licenziamento appaia intollerabile, contrario alla dignità della persona, limite invalicabile dell’iniziativa economica: ad esempio il licenziamento discriminatorio, per motivo illecito o della lavoratrice madre.                  

C. Caruso. Per quanto riguarda le imprese più grandi, a partire dalla sent. n. 194/2018, che tutto sommato non ha fatto altro che sanzionare una sorta di automatismo legale, irragionevole nella sua rigidità, la Corte costituzionale ha progressivamente ricostruito un sistema di tutele alternativo rispetto a quello disegnato dal legislatore, pur mantenendosi in apparenza fedele all’assunto, radicato nella sua stessa giurisprudenza, secondo cui non può dedursi dalla Costituzione una unica soluzione costituzionalmente obbligata (la tutela reale non sarebbe cioè il solo punto di approdo di una adeguata protezione del lavoratore).

Le pronunce successive non fanno altro che rapportare le differenziate ipotesi introdotte dal legislatore all’unico tipo legale considerato di fatto compatibile con la Costituzione, e cioè alla tutela ripristinatoria (attenuata) prevista per il licenziamento illegittimo senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo. È la identità della causa dell’illegittimità del recesso a postulare l’identità delle tutele, sia nel regime Fornero sia nel regime del Jobs Act.

L’univocità costituzionale del tipo legale viene ricostruita attraverso alcuni passaggi che, anzitutto, si preoccupano di rivedere il regime previsto dalla l. n. 92/2012: in primo luogo, in caso di insussistenza del fatto, anche il licenziamento oggettivamente ingiustificato deve essere sanzionato con la tutela reale, e non è possibile lasciare alcuna valutazione al giudice, il quale deve, in ogni caso e a prescindere dalle risultanze del caso concreto, procedere alla reintegra; in seconda battuta, attraverso una sorta di presunzione legale, la Corte si è premurata di demolire l’ordine di priorità delle tutele definito dal legislatore (nel senso di lasciare la reintegra solo in caso di manifesta insussistenza del fatto), così costruendo un sistema che, nei casi dubbi, dia comunque prevalenza alla stabilità del posto di lavoro.

Non vi è dubbio che queste sentenze traccino una preferenza per un determinato modello, sia nei presupposti (insussistenza del fatto) sia negli effetti (reintegra). E questa preferenza prevale a prescindere dal motivo e, più in generale, dalle circostanze del caso (ad esempio, dal rapporto che in concreto il lavoratore intrattiene con il datore di lavoro, dal tipo di impresa in cui presta la sua attività, dalle effettive ragioni che hanno portato al licenziamento): queste non assurgono mai ad elementi di valutazione giurisdizionale, che deve invece attenersi allo schema legale tipizzato dall’unica forma di tutela costituzionalmente ammissibile.

In virtù di tale prospettiva, focalizzata sulla stabilità del posto di lavoro, la garanzia del lavoratore sembrerebbe esprimersi solo e soltanto con la protezione ripristinatoria, con alcune rilevanti e contradditorie eccezioni (tutela indennitaria per mancato repêchage nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, reintegra in caso di violazione delle clausole disciplinari del contratto collettivo, ma solo per le fattispecie determinate, licenziamenti collettivi).

Non è inusuale che la Corte costituzionale progressivamente costruisca un disegno sistematico, nelle diverse branche dell’ordinamento, alternativo a quello positivizzato dalle istituzioni rappresentative. Della complessiva razionalità di tali regimi, che vengono a crearsi per via di progressiva sedimentazione alluvionale di origine giurisprudenziale, è però lecito dubitare: la naturale vocazione casistica porta la giurisdizione costituzionale a rispondere alla singola questione proposta, lasciando inevasa tutta una serie di problemi che, in via consequenziale, possono presentarsi a causa degli innesti progressivamente apportati dalla Corte. Una sorta di ius singulare su cui lo stesso Giudice costituzionale è spesso costretto a tornare più volte, per correggere o specificare le soluzioni o le combinazioni normative risultanti dai suoi stessi interventi. Questa produzione continua di giustizia costituzionale a mezzo di giustizia costituzionale è conseguenza di una rincorsa casistica al fatto, che produce sistemi normativi dotati di scarsa o debole coerenza interna.

Anche per superare tali incongruenze, frutto delle numerose dissociazioni compiute dalla Corte, si rende necessario un nuovo intervento di stabilizzazione sistematica da parte del legislatore.

L’iniziativa della CGIL, che pure ha ad oggetto un ambito non direttamente toccato da questa giurisprudenza (salvo quanto si dirà dopo), si inserisce nel quadro di una giurisprudenza che ritiene comunque sbilanciato, a sfavore del lavoratore, l’attuale quadro normativo. Introducendo però un ulteriore elemento di incongruenza: se, infatti, la tipizzazione giurisprudenziale della tutela ripristinatoria delimita la discrezionalità giudiziale, il referendum in oggetto la allarga a dismisura. La tutela del lavoratore, calata a mo’ di asso pigliatutto, deve prevalere sempre nei confronti dell’impresa, anche a costo di incidere sulla sua sostenibilità e capacità di programmazione finanziaria nel medio-lungo periodo (con evidenti ricadute sulle capacità occupazionale e reddituali garantite agli altri lavoratori).

                     

V. A. Poso. Qualche considerazione dobbiamo fare sulla base della sentenza della Corte Costituzionale 22 luglio 2022, n. 183, che pronunciandosi su un’altra norma, l’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 (indennità dimezzate per piccole imprese e organizzazioni di tendenza e limite massimo di sei mensilità) ha dichiarato inammissibile la q. l. c., sollevata con riferimento a diverse norme della Costituzione e all’art. 24 della Carta Sociale Europea, con l’avvertimento al legislatore di essere costretta a intervenire, ove nuovamente investita, in caso di sua prolungata inerzia.

Si legge nella motivazione, al punto n. 5.2 « Quanto al secondo profilo, si deve evidenziare che il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che, a ben vedere, non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete. – Invero, in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli. – Il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza». 

L. Zoppoli. Questa sentenza conferma pienamente quanto dicevo inizialmente. E va considerato che, nel silenzio del legislatore che ha fatto seguito al monito di Corte Cost. 183/2022, già il Tribunale di Livorno con l’ordinanza pronunciata il 29 novembre 2024 ha sollevato una nuova eccezione di incostituzionalità dell’art. 9 c. 1 del d. lgs 23/2015. 

O. Razzolini. Su questo punto ho già risposto sopra.

Concordo con la valutazione della Corte costituzionale e ritengo che il legislatore dovrebbe intervenire e modificare la nozione di piccola impresa, ai fini del licenziamento, adottando quella di “microimpresa” proposta del D.M. del 2005 che utilizza il triplice criterio del numero dei dipendenti (fino a 10), del fatturato e dell’attivo patrimoniale (non superiore a 2 milioni di euro).

È vero però che, come ha sottolineato di recente il “Gruppo Freccia Rossa”, i criteri del fatturato e dell’attivo patrimoniale sono di difficile applicazione mentre assai più semplice risulta quello numerico, non a caso privilegiato dalla legge non soltanto italiana.

E tuttavia affidarsi al solo requisito numerico rischia di costituire un incentivo per operazioni di frammentazione dell’impresa.

Sotto questo profilo, sarebbe opportuno aprire una riflessione sul perimetro dell’impresa che si prende in considerazione. In altri termini, il requisito numerico deve essere oggi letto alla luce delle realtà organizzative complesse dove un’attività economica sostanzialmente unitaria viene frammentata fra una pluralità di soggetti di diritto fortemente integrati e che perseguono uno scopo imprenditoriale comune e condiviso. In questo senso, la giurisprudenza anche di Cassazione che riconosce la codatorialità a determinati fini, tra i quali il ripescaggio e il computo del requisito numerico selettivo del regime di licenziamento, offre indicazioni importanti.                

C. Caruso. Due sono i profili censurati dalla sent. n. 183/2022, relative alla norma del Jobs Act concernente la tutela indennitaria nelle piccole imprese: il requisito numerico, di per sé non idoneo a giustificare la differenziazione di trattamento per i lavoratori delle imprese più grandi, e il tetto del massimo indennitario o, meglio, “l’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità”. Su questi due aspetti il legislatore è chiamato, dalla Corte, ad intervenire, secondo soluzioni libere, cui lo stesso Giudice delle leggi non accenna se non per sommi capi (quando fa riferimento, ad esempio, ai “cospicui investimenti in capitali” e al “consistente volume di affari” da tenere in considerazione per valutare la dimensione della impresa). Nella individuazione della soglia dimensionale, il legislatore dovrebbe, per un verso, evitare, come già sottolineato da Orsola Razzolini, l’eccessiva frammentazione della regolazione e, per altro verso, aumentare la forbice indennitaria, che allo stato attuale “vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio”.

 

V. A. Poso. Ritorno sulla risposta precedente di Lorenzo Zoppoli che ha anticipato che la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi nuovamente sulla stessa questione di legittimità costituzionale, sollevata, questa volta, dall’ordinanza del 29 novembre 2024 del Tribunale di Livorno (stando al calendario delle udienze della Consulta, la q. l. c. dovrebbe essere decisa il 23 giugno prossimo). Qualche vostra considerazione in proposito, anche sui possibili esiti, tenuto conto della precedente sentenza n. 183/2022 della Corte Costituzionale.                   

C. Caruso. L’esito non appare così scontato, come si potrebbe pensare alla luce dei toni usati della Corte costituzionale nella sentenza, che in effetti non sembravano lasciare vie di fuga alla dichiarazione di incostituzionalità. La sent. n. 183/2022 è una decisione che può essere ricondotta al genere letterario delle sentenze di incostituzionalità accertata ma non dichiarata: la Corte accerta, nella parte motiva, il vulnus di incostituzionalità ma omette di sanzionarlo con un dispositivo coerente con la motivazione. La pronuncia, infatti, è di inammissibilità, non formale ma sostanziale: a mancare non è una condizione o un requisito processuale, che rende impossibile l’esame nel merito della questione, ma un elemento che attiene alla sostanza della questione sollevata: nella specie, a difettare è una grandezza normativa, presente nell’ordinamento, che consenta alla Corte di sostituire il frammento legislativo ritenuto viziato.

È stato sostenuto, in letteratura, che le inammissibilità sostanziali fossero destinate a essere progressivamente abbandonate dall’armamentario decisorio della Corte. In effetti, a partire da un trittico di sentenze adottate tra il 2017 e il 2019, la Corte ha abbandonato la dottrina, risalente a Vezio Crisafulli, delle rime obbligate, secondo cui l’addizione o sostituzione, realizzabile in via pretoria dal Giudice delle leggi, sarebbe solo quella univocamente desumibile dal tertium comparationis evocato dal giudice remittente e ispirato all’eadem ratio della norma impugnata. Era questa una teoria pensata per limitare la creatività della Corte e tentare, in qualche modo, di rispettare la discrezionalità del legislatore, valore di rango costituzionale esplicitato dall’art. 28 della l. n. 87/1953, secondo cui “il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”.

Da qualche anno la Corte si accontenta, invece, di intervenire a “rime adeguate”, rinvenendo, anche d’ufficio, nella trama dell’ordinamento soluzioni che le consentano di corregge il vizio di incostituzionalità prospettato dal giudice a quo. È verosimile ritenere che la ragione della inammissibilità pronunciata con la sent. n. 183/2002 sia da rinvenire proprio nella difficoltà di reperire una grandezza idonea a esprimere un ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti.

Tale difficoltà permane anche nella nuova questione prospettata dal Tribunale di Livorno. Bene avrebbe fatto il giudice a quo a ipotizzare una soglia indennitaria massima, argomentando sulla adeguatezza dell’ipotesi così suggerita e, così facendo, tutelarsi da una seconda pronuncia di inammissibilità. Il Tribunale ha invece chiesto una caducatoria secca dell’art. 9 del d.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui prevede che “l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’articolo 3, comma 1, dall’articolo 4, comma 1 e dall’articolo 6, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”. Viene così richiesta la completa espunzione del quantum indennitario (non solo del massimo!), con il rischio di lasciare impregiudicata persino il tipo di tutela, e, in ogni caso, senza alcuna indicazione circa l’eventuale sostituzione chiesta alla Corte. In altri termini, se non vi fosse il precedente del 2022, la Corte avrebbe avuto buon gioco a dichiarare inammissibile la questione proposta. Non viene invece attinto, dal petitum della questione, il requisito dimensionale (interessato solo genericamente dagli argomenti spesi dal remittente in relazione alla scarsa dissuasività della tutela).

È quindi verosimile ritenere che la Corte costituzionale, peraltro in una composizione radicalmente diversa da quella del 2022, non si pronuncerà sul requisito dimensionale.

In relazione al massimo indennitario, invece, la Corte dovrà scegliere se rimanere fedele al proprio precedente o appoggiarsi alla laconica ordinanza di rimessione per trovare un commodus discessus. Nel caso in cui voglia dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione, la Corte sarà chiamata a determinare la soglia quantitativa massima, andandola a individuare in via equitativa. Da questo punto di vista, una misura ragionevole potrebbe essere quella prevista dalla proposta di ddl elaborata dal “Gruppo Frecciarossa”, che immagina di raddoppiare, fino a 12 mensilità, la tutela indennitaria, pari alla metà del quantum stabilito dalla legge Fornero per la tutela indennitaria nelle imprese maggiori. 

O. Razzolini. Il caso affrontato da Tribunale di Livorno – licenziamento per giusta causa illegittimo intimato da un’impresa con 14 dipendenti e 4 milioni di fatturato – ben dimostra l’opportunità di intervenire sul piano legislativo rivedendo la nozione di piccola impresa alla stregua del triplice criterio dipendenti (fino a 10), fatturato annuo e attivo patrimoniale (non superiore a 2 milioni di euro).

La questione è come potrà reagire la Corte costituzionale dopo la sentenza di tipo monitorio n. 183/2022. In effetti, come sottolinea il Tribunale di Livorno, sono passati già più di due anni da quella sentenza e il legislatore, nonostante il monito della Consulta, non è intervenuto (anche se pare nelle intenzioni farlo a breve).

La Corte potrebbe dunque dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1 del d.lgs. n. 23 del 2015 poiché la forbice estremamente ridotta (da tre a sei mensilità) entro la quale deve essere determinata l’indennità da licenziamento illegittimo nelle piccole imprese non appare rispondente ai criteri della adeguatezza e della dissuasività, senza contare che definire le piccole imprese sulla base del solo criterio numerico dei 15 dipendenti appare, in effetti, per le ragioni dette, anacronistico.

A mio parere, il giudizio di illegittimità costituzionale potrebbe tuttavia investire il solo limite massimo delle 6 mensilità, lasciando viceversa integra la previsione per cui nelle piccole imprese l’importo previsto dagli artt. 3, co. 1, 4, co. 1 e 6, co. 1 è dimezzato. In questo modo, nel caso di licenziamento ingiustificato nelle piccole imprese, l’indennità potrebbe arrivare a ben 18 mensilità, una cifra certamente congrua, adeguata e sufficientemente dissuasiva anche nel caso di piccole imprese con fatturati elevati. Verrebbe al contempo rispettata l’esigenza di mantenere un regime differenziato per le piccole imprese.

Resterebbe certamente l’anacronismo dell’unico criterio numerico utilizzato per selezionare queste ultime, ma sul punto sembra difficile che la Corte possa pienamente sostituirsi al legislatore tracciando direttamente una diversa e più circoscritta nozione, tratta ad esempio dalla raccomandazione europea e dal decreto ministeriale, da valere “fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento”, come fatto ad esempio nella nota sentenza sul fine vita (Corte cost. n. 242/2019).

La semplice declaratoria di illegittimità del limite delle 6 mensilità appare sufficiente a garantire la “tenuta” costituzionale della disciplina vigente, ferma restando la necessità di un più complessivo intervento legislativo che metta ordine in una materia ormai pressoché inestricabile. 

L. Zoppoli. A mio avviso, le motivazioni della nuova ordinanza di rimessione sembrano abbastanza diverse da quelle che hanno condotto alla sentenza 183/2022 di tipo monitorio.

In effetti riprendono puntualmente le censure della sentenza 183 della Corte costituzionale e non si vede come la medesima Corte possa evitare una pronuncia di accoglimento.

Per come è formulata la questione di costituzionalità a me pare che la Corte potrebbe anche semplicemente dichiarare l’incostituzionalità della differenziazione dell’ indennità in ragione del numero dei dipendenti che non risulta un indicatore razionale e convincente della forza economica dell’impresa (nel caso livornese l’impresa ha 14 dipendenti, ma fattura oltre 4 milioni di euro nel 2023). Una pronuncia simile aprirebbe però più problemi sistematici rispetto all’esito positivo del referendum sull’art. 8, che in fin dei conti, pur eliminando i limiti massimi alle indennità, lascia in piedi il criterio del numero di dipendenti che il giudice anzi, insieme agli altri, dovrebbe continuare ad utilizzare.                    

 

V. A. Poso. Prima di rivolgere la successiva domanda, cerco di illustrare, a beneficio dei lettori, l’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024, che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito relativo all’art. 8 della l. n. 604/1966, nel testo vigente a seguito delle modifiche apportate dall’art 2,comma 3, l. n. 108/1990 e per le parti piò sopra indicate. Anche a seguito di interlocuzione con i promotori, alla denominazione del quesito è stato assegnato il seguente titolo sintetico, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “Piccole imprese – Licenziamenti e relativa indennità: abrogazione parziale”.

Nessun problema si pone per la vigenza del testo normativo in questione per il quale l’Ufficio Centrale per il Referendum richiama, anche, l’art. 1, comma 1, d. lgs 1° dicembre 2009, n. 179( recante: “Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246”), che, in combinato disposto con l’Allegato 1 allo stesso decreto, ha dichiarato indispensabile la permanenza in vigore delle disposizioni di cui agli artt. da 1 a 10, 11, comma2, 12,13 e 14 della l. n. 604/1966. Mi sembra di poter dire che si tratti di una legge «ricognitiva».                 

Vado oltre. Merita segnalare – ne dà conto anche l’Ufficio Centrale per il Referendum nella sua ordinanza – che la Corte Costituzionale, con sentenza 6 febbraio 2003,n. 41 ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione della medesima norma oggi oggetto di nuova richiesta referendaria( oltre che dell’art. 18, commi primo, secondo e terzo della l. 20 maggio 1970,n.300, come modificato dall’art. 1 della l. n. 108/1990 e degli artt. 2, comma1, e 4, comma 1, secondo periodo, sempre della l. n. 108/1990); richiesta dichiarata legittima, con ordinanza del 9 dicembre 2002, dall’Ufficio Centrale per il Referendum.

Per quanto di nostro interesse, a chi vuole rispondere chiedo una valutazione di questa sentenza. 

L. Zoppoli. Due osservazioni. La prima è che la sentenza citata si legge con vero piacere perché è scritta in modo piano e convincente: non a caso la “penna” è quella di Gustavo Zagrebelsky. La seconda è che quel referendum avrebbe avuto un effetto molto più profondo ed ampio di quello attuale: eppure, come mette in rilievo la sentenza, non avrebbe omologato il regime sanzionatorio dei licenziamenti per tutti i lavoratori (alcune categorie ne sarebbero rimaste fuori).

Questo però non era imputabile al quesito referendario, ma ad antiche scelte legislative non tutte nel radar del comitato promotore. Perciò la Corte non ritiene che la permanenza di esclusioni infici la scelta abrogativa proposta agli elettori incentrata sull’eliminazione della differenziazione basata sul numero dei dipendenti. L’esito del referendum proposto nel 2024 sarebbe assai più ristretto perché omologherebbe il regime dei licenziamenti solo con riguardo all’eliminazione dei limiti massimi alle indennità sanzionatorie/risarcitorie mantenendo la reintegrazione fuori dalle imprese più piccole (salvo per vizi formali e discriminatori).

Dopo vent’anni l’esigenza di giustizia uguale per tutti i lavoratori si accontenterebbe così di un risultato parecchio ridimensionato? Forse no, perché a me pare piuttosto che l’universalizzazione delle tutele contro i licenziamenti si muova oggi all’interno della logica che ha ispirato le riforme del nuovo millennio che hanno posto la tutela indennitaria/risarcitoria al centro del sistema purché il giudice possa ragguagliarla al danno effettivamente procurato al lavoratore.

Non sono sicuro però che così si raggiunga realmente un sistema universale ed equilibrato. Anche perché i criteri di determinazione delle indennità introdotti dalla L.n.108/90 (non soggetti a referendum e da integrare con quelli indicati dall’ art. 30 c. 3 della L. n. 183/2010) mi pare obblighino il giudice a differenziare sensibilmente le indennità in base anche alle dimensioni dell’impresa. Che fine fa così anche una pur minima garanzia di universalizzazione delle tutele? 

 

V. A. Poso. L’Ufficio Centrale per il Referendum ha rilevato – a me pare correttamente – che non sussiste la condizione ostativa prevista dall’art. 38 della l. n. 352 del 25 maggio 1970, in ragione della riproposizione del quesito referendario dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.41/2003, sopra richiamata, e dopo l’espletamento del voto popolare indetto con d.P.R. 9 aprile 2003,in mancanza della partecipazione della maggioranza degli aventi diritto al voto, come richiesto dall’art. 75, comma quarto, Cost.,« posto che il citato articolo 38 limita, per il periodo di cinque anni, la possibilità di promuovere nuovamente la medesima iniziativa referendaria solo nel caso in cui i cittadini si siano effettivamente espressi per il mantenimento della normativa sottoposta al loro sindacato, ovvero nell’ipotesi in cui la consultazione abrogativa sia risultata invalida ai sensi dell’art.75, quarto comma, Cost.(n.d.r.: che ritiene necessari i requisiti del voto espresso dalla maggioranza degli aventi diritto e della maggioranza dei voti validamente espressi), limitazione temporale non operante nel caso di specie, dato il maggior tempo trascorso dalla precedente iniziativa».            L. Zoppoli. La posizione dell’Ufficio Centrale per il Referendum, che tu hai efficacemente riassunto, mi pare ineccepibile.

Si può ancora sottolineare che, dopo il Jobs Act, le questioni riguardanti le piccole imprese si sono aggravate perché le tutele contro i licenziamenti illegittimi sono state ulteriormente indebolite. È un tema sul quale sarebbe bene invitare gli elettori ad esprimersi invece di auspicare un assenteismo che faccia nuovamente mancare il quorum, come molti più o meno esplicitamente dicono.

Il cittadino deve capire bene su cosa deve pronunciarsi. Ma non mi pare ci sia bisogno di essere geni per pronunciarsi su alcune domande essenziali che si possono così sintetizzare: “ritenete che i 4/5 milioni di lavoratori italiani occupati in imprese con meno di sessanta dipendenti e/o in articolazioni delle imprese con meno di quindici dipendenti debbano ancora essere esposti alla decisione di un licenziamento del tutto arbitrario? Ritenete che la normativa attuale, che prevede l’obbligo di corrispondere al massimo 5/6 mensilità al lavoratore licenziato senza alcun motivo o per un motivo futile, sia efficace per indurre il piccolo imprenditore a non licenziare?”.

Certo oggi la situazione occupazionale è ancora tale che nelle piccole imprese le assunzioni a tempo indeterminato non sono frequentissime. E il cittadino potrebbe giustamente temere che aumentare anche di poco le tutele possa ancor più favorire lavoro precario e nero. Mi pare però più che giusto sul piano della crescita culturale e civile che ogni elettore italiano si prenda la responsabilità di andare a votare e avallare una situazione antica in cui esistono lavoratori di serie A (imprese medio-grandi e pubbliche amministrazioni) e lavoratori di serie B (occupati nell’80/90% delle piccole imprese italiane).

Non sono scelte da fare in modo opaco o elitario. E, oltretutto, bisogna anche sapere che così diritti fondamentali previsti dalla Carta dei cittadini europei – tra cui rientra il diritto di ogni lavoratore alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato (art. 30) – vengono tutelati nel nostro ordinamento in modo enormemente squilibrato. 

C. Caruso. Ineccepibile nel merito, la decisione dell’Ufficio Centrale per il Referendum è invece criticabile là ove equipara, ai fini del divieto di esperibilità della consultazione referendaria, il voto negativo al mancato raggiungimento del quorum. L’art. 38 della legge n. 352/1970 prevede infatti il divieto di riproposizione solo in caso di esito negativo, non certo per il mancato raggiungimento del quorum di validità posto dall’art. 75 Cost. Nonostante il passaggio argomentativo non sia altro che un obiter dictum, irrilevante nel caso di specie (posto che la consultazione del 2003 risale a più di venti anni fa), inconsapevolmente l’UCR ha individuato, in via pretoria, un nuovo limite alla consultazione referendaria non previsto dalla legge (un limite che non avrebbe consentito, ad esempio, di riproporre, nel 2000, il referendum per l’abolizione della quota proporzionale, che nel 1999 non raggiunse il quorum per un pugno di voti). Non resta che sperare si tratti di un lapsus calami.

                   

V. A. Poso Mi sembra di poter dire che l’Ufficio Centrale per il Referendum, a differenza di quanto ha dovuto fare per il requisito relativo all’abrogazione del d. lgs. n. 23/2015, nella sua interezza, proposto dai promotori con riferimento al testo originario, nel caso che ci occupa si è trovato facilitato negli adempimenti che ad esso competono in quanto la norma oggetto di quesito referendario è stata indicata con riferimento al testo vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 108/1990; come abbiamo più volte precisato sopra. 

L. Zoppoli. Credo proprio che questa sia una giusta considerazione.               

                                   

V. A. Poso. Con la sentenza n.13 del 7 febbraio 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione della norma e per le parti indicate oggetto del quesito.

La Corte Costituzionale, correttamente, ha precisato, nel delineare il perimetro della norma, «che l’odierno quesito referendario è destinato a incidere su una previsione (la fissazione del tetto massimo, pari a sei mensilità, maggiorabile fino a quattordici, per la liquidazione dell’indennità da licenziamento illegittimo) che, nella sua attuale vigenza – espressamente confermata, come rilevato dall’Ufficio centrale, dal combinato disposto tra l’art. 1, comma 1, e l’Allegato 1 del d.lgs. n. 179 del 2009 –, riguarda esclusivamente i lavoratori assunti presso datori di lavoro di “piccole” dimensioni prima del 7 marzo 2015».

Quali sono le Vostre valutazioni, di carattere generale, in merito? È, questa, una pronuncia attesa, quanto meno prevedibile? 

C. Caruso. La giurisprudenza costituzionale in tema di ammissibilità del referendum abrogativo ha dimostrato, negli anni, un elevato tasso di creatività, individuando una ampia congerie di limiti che sono andati ben al di là di quelli previsti dall’art. 75 Cost. Questa elevata creatività è stata accompagnata da una spiccata imprevedibilità decisoria, che spesso non ha arriso all’ammissibilità dei quesiti. Nel caso di specie, il quesito non sembrava porre particolari problematiche se non, forse, per la possibile contraddizione, in caso di esito negativo o mancato raggiungimento del quorum, che verrebbe a crearsi all’interno dell’ordinamento nel caso della permanenza in vigore il d.lgs. n. 23/2015. D’altro canto, i promotori non avevano altra scelta se non mostrare il fianco a questo possibile inconveniente di fatto (ancorché di non poco momento). Se, infatti, non fosse stata coinvolta, attraverso la proposizione di un altro quesito, la analoga disposizione contenuta nel Jobs Act, la richiesta di abrogazione del solo art. 8, l. n. 604/1966, sarebbe stata inammissibile. La Corte infatti richiede, ai fini dell’ammissibilità del quesito, l’autosufficienza dello stesso, nel senso che l’eventuale approvazione della richiesta non deve lasciare intatte «disposizioni idonee a garantire la perdurante operatività di interi plessi normativi di cui si chiedeva l’eliminazione ad opera del voto popolare» (tra le tante, sent. n. 57/2022).

O. Razzolini. A me sembra una pronuncia coerente con l’impostazione adottata dalla Corte costituzionale che ben spiega peraltro quale sarebbe la ricaduta di un risultato referendario positivo. Certo, qualora passasse questo quesito referendario ma non quello sul contratto a tutele crescenti si arriverebbe ad una situazione di disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima o dopo il 7 marzo 2015 ben poco razionale e tollerabile e che solo in parte sarebbe mitigata da un eventuale accoglimento della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Livorno con riferimento all’art. 9, d.lgs. n. 23 del 2015. 

L. Zoppoli. Non so dire se fosse attesa nel senso di “prevista”; e probabilmente qualche dubbio si poteva avere vista la ridotta propensione della Corte in altre pronunce a considerare giuridicamente problematica la differenziazione di disciplina in materia basata sulla data di assunzione dei lavoratori. Credo però che la Corte abbia correttamente messo in rilievo l’effetto che avrebbe l’esito abrogativo di questo referendum considerato ex se. Se invece dovesse prevalere il sì anche nell’altro referendum sull’ abrogazione integrale del d.lgs. 23/2015, la nuova disciplina per le imprese minori riguarderebbe tutti i lavoratori. È abbastanza evidente che solo questo secondo risultato eleverebbe il tasso di razionalità del sistema: il che, anche per questa ragione, lo rende massimamente auspicabile.

 

V. A. Poso. Detto questo, è ammissibile, a Vostro avviso, e con quali limiti il referendum parziale abrogativo della norma in esame? Nessuna preclusione è ravvisabile in ragione dei divieti posti dall’art. 75, comma 2, Cost., tantomeno sono risultano profili attinenti a disposizioni a contenuto costituzionalmente obbligato: sotto questo aspetto mi sembra condivisibile la pronuncia della Consulta.

A Vostro avviso, e sotto altro profilo, il quesito risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, così come individuati dalla giurisprudenza costituzionale? Mi riferisco, in particolare, alla c.d. tecnica del ritaglio operato sulle parole oggetto di abrogazione.              

C. Caruso. Tutti i requisiti manipolativi non sano mai chiari o, meglio, autoevidenti in sé. La matrice razionalmente unitaria del quesito manipolativo non può che delinearsi alla luce dell’intenzione dei proponenti, per come obiettivata nel titolo e nella lettera del quesito (e, dunque, anche nella conformazione della normativa di risulta). Nel caso in esame non mi pare che la proposta referendaria presentasse problemi tali da inficiarne l’ammissibilità.

Lorenzo Zoppoli. Sotto il profilo della tecnica utilizzata dal comitato referendario non vedo alcun problema e condivido pienamente il giudizio di ammissibilità. Come ho già detto, non sono così certo che l’abrogazione del tetto massimo dell’indennità induca i giudici a muoversi con più libertà rispetto alle previsioni riguardanti le imprese più grandi. A mio parere resterà una sorta di implicita parametrazione al ribasso che indurrà la magistratura a non equiparare nel massimo le sanzioni risarcitorie tra imprese grandi e imprese “sotto soglia”. 

O. Razzolini. Non sono una costituzionalista, ma anche a me la decisione della Corte sembra del tutto condivisibile.              

                 

V. A. Poso. Ritorno sulla precedente domanda e mi chiedo se, per come è stato confezionato, il quesito referendario sia «privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale» (sentenza n. 57 del 2022). Si potrebbe sostenere, infatti, che la consultazione referendaria è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (sentenza n. 13 del 1999), proprio con riferimento all’abolizione del limite massimo del risarcimento, venendo meno il carattere prettamente abrogativo.

Sotto questo profilo a Vostro avviso risulta superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito referendario? 

C. Caruso. Ho molti dubbi, in generale, sulla adeguatezza del requisito che richiede al quesito manipolativo di non essere “eccessivamente” manipolativo. Si tratta di uno dei tanti limiti, opposti al referendum, creati ad hoc dalla Corte costituzionale, la cui applicazione dà esiti difficilmente prevedibili (si pensi, in positivo, al referendum del 1993, sulla soglia dei collegi uninominali al Senato, al quesito sulla cittadinanza o, in negativo, al referendum “Calderoli” sulla estensione dei collegi uninominali nel c.d. Rosatellum, o all’estensione, tramite ritaglio, della tutela reale in caso di licenziamento illegittimo all’impresa con più di 5 dipendenti, che avrebbe reso generale una norma speciale, pensata per il solo imprenditore agricolo).

Una volta ammessa la possibilità di proporre referendum manipolativi (una possibilità in fondo coerente con la natura stessa del referendum abrogativo, almeno a volere prendere sul serio la tesi crisafulliana secondo cui persino la mera abrogazione esprime una innovazione dell’ordinamento giuridico, posto che abrogare non è altro che “disporre diversamente”) non ha molto senso chiedersi, in astratto, quale sia il grado manipolatività consentito dall’art. 75 Cost. Se in ogni proposta referendaria l’elemento innovativo è insopprimibile, l’inammissibilità delle proposte manipolative dovrebbe essere confinata ai soli quesiti formulati in modo da incidere sulla univocità della richiesta, su quella «matrice razionalmente unitaria» che consente di determinare, oggettivamente, la direzione del quesito.

Solo qualora non fosse assolutamente desumibile il verso dell’abrogazione sarebbe impossibile l’autodeterminazione del corpo elettorale, e cioè l’esercizio di quel voto consapevole che, a partire dalla sent. n. 16/1978, la Corte costituzionale ritiene requisito imprescindibile per l’ammissibilità del referendum.

La sent. n. 32/1993, nell’ammettere il referendum “Segni” sulla legge elettorale del Senato, ha evidenziato come fosse «per sé irrilevante il modo di formulazione del quesito, che può anche includere singole parole o singole frasi della legge prive di autonomo significato normativo, se l’uso di questa tecnica è imposto dall’esigenza di “chiarezza, univocità e omogeneità del quesito” e di “una parallela lineare evidenza delle conseguenze abrogative”, sì da consentire agli elettori l’espressione di un voto consapevole». È l’univocità del quesito, ricostruita alla luce della ratio obiettivata nella richiesta e dell’intenzione dei promotori, a consentire la razionalizzazione del referendum e il suo innesto nella democrazia rappresentativa: una volta garantita tale condizione, l’innovatività propositiva del referendum non dovrebbe rappresentare un pericolo, ma anzi un salutare elemento di partecipazione capace di sparigliare l’oligarchia delle forze politiche organizzate.

In tal senso, e sotto tale profilo, non può che essere apprezzata la decisione “aperturista” della Corte costituzionale. 

L. Zoppoli. Come può dedursi anche dalla mia risposta al quesito precedente, la mia opinione al riguardo è esattamente all’opposto: l’esito referendario è troppo poco manipolativo e rischia di lasciare di fatto in vigore una norma “occulta” dal tenore assai simile a quella che si vuole abrogare. 

O. Razzolini. A mio parere, il risultato pratico consistente nel lasciare al giudice, anziché prevedere per legge, la modulazione nel quantum dell’indennità non stravolge del tutto la ratio della disposizione, come maturata nel contesto originario, poiché, come sottolinea Lorenzo Zoppoli, i giudici terranno comunque ampiamente in considerazione la natura e le dimensioni dell’impresa, in base all’art. 8 della l. n. 604 del 1966. In definitiva, l’esito positivo del referendum non sembra comportare la “mutazione genetica” dell’indennizzo in risarcimento in senso pieno perché, come molti autori hanno rilevato, l’art. 8 impone al giudice di modulare l’indennizzo tenendo conto di criteri estranei alle tecniche di valutazione del danno ed assumendo il punto di vista non solo della vittima dell’illecito ma dell’autore (si pensi al riferimento alle “dimensioni dell’impresa” e alle condizioni “delle parti”).

 

V. A. Poso A Vostro avviso l’approvazione della richiesta referendaria, genererebbe o no «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (v. sentenza n. 26 del 2017)? Insomma, la normativa di risulta sarebbe pienamente in linea con i princìpi (v. sentenza n. 49 del 2022), e con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore (v. sentenza n. 13 del 1999) e del quale muterebbe i «tratti caratterizzanti» (v. sentenza n. 10 del 2020), considerato che in ogni ipotesi di risarcimento del danno conseguente a licenziamento è stato previsto dal legislatore sempre un limite minimo e un limite massimo? 

O. Razzolini. Certo, togliere il limite massimo cambia notevolmente ma, come dicevo prima, non comporta una vera trasformazione o mutazione genetica dell’indennizzo in risarcimento pieno. 

L. Zoppoli. Ripeto: assolutamente no!

C. Caruso. Sul punto rimando alle risposte dei colleghi lavoristi. 

 

V. A. Poso Quindi, mi pare di capire che, anche secondo Voi, il ritaglio operato non determina lo stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, tale da comportare l’introduzione di una nuova statuizione del tutto estranea all’originario contesto normativo, come argomenta la Corte che anche per questo si è pronunciata per l’ammissibilità di questo quesito referendario.

Lorenzo Zoppoli. Proprio così. 

O. Razzolini. Direi di sì.

 

V. A. Poso. C’è da dire, però, che in caso di esito positivo della consultazione referendaria, fermo restando il mantenimento della soglia minima (pari a 2,5 mensilità) la liquidazione dell’indennità, nel tetto massimo, resterebbe affidata all’equo apprezzamento del giudice sulla base dei criteri indicati dallo stesso art. 8 della legge n. 604 del 1966, non incisi dal quesito, che si riferiscono «al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti». Questo dice la Corte nella sentenza. E, aggiungerei, anche in base a quanto previsto dall’art. 30, comma 3, secondo cpv, della legge 4 novembre 2020 n. 183. Ritenete ammissibile questo ampio potere discrezionale, di valutazione, attribuito al Giudice? 

O. Razzolini. Mi sembra tu faccia bene a ricordare anche l’art. 30, co. 3, secondo cpv della l. n. 183 del 2010 che aggiunge il riferimento alle “condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro” e alla “situazione del mercato del lavoro locale”.

Certo il giudice viene dotato di un ampio potere discrezionale che d’altra parte ha già nel caso delle imprese con più di 15 dipendenti dove l’art. 18, testo vigente, prevede una forbice elevatissima: 6-36 mensilità. In mancanza di una definizione “aggiornata” di piccola impresa ancorata a parametri non solo dimensionali, ma economici e finanziari è in effetti solo il giudice, sulla base di una valutazione case by case, che può far sì che questi elementi giochino un ruolo effettivo nella determinazione del quantum dell’indennizzo.

Personalmente, per le ragioni che ho provato ad illustrare in precedenza, sono comunque favorevole alla previsione per legge di tetti massimi – purché certamente non irrisori – ma qui stiamo discutendo della legittimità di un quesito referendario sul piano tecnico, non sul piano del merito. Mi limito ad osservare che proprio le interessanti considerazioni di Lorenzo Zoppoli sulla probabile tendenza dei giudici, in caso di esito positivo del referendum, a liquidare comunque indennità molto basse mi spingono a pensare che il tetto massimo potrebbe giocare a favore dei lavoratori. In particolare, il tetto massimo di 18 mensilità potrebbe costituire per i giudici un invito a liquidare indennizzi ben superiori alle 6 mensilità, tenendo pur sempre conto dei criteri previsti dall’art. 8.

Lorenzo Zoppoli. Il potere del giudice è ampio ma non è illimitato: basti pensare ai criteri generali che riguarderebbero la determinazione delle indennità anche nelle imprese minori.

Qui c’è il problema da molti rilevato di una sensibile differenza stavolta a vantaggio dei lavoratori delle piccole imprese che non avrebbero il limite massimo di 24/36 mensilità. Non sono d’accordo. Anzitutto le differenziazioni ci sono sempre state e non sono incostituzionali se razionali. Scontata la limitata tecnica referendaria (solo abrogativa), non mi stupirei poi, come ho anticipato, se i giudici si orientassero a ritenere che i limiti massimi di cui all’art. 18 o al d.lgs. 23/15 (di cui si attende l’espunzione dall’art. 9 ad opera della Corte Costituzionale anche a prescindere dal referendum) valgano tendenzialmente anche per le imprese minori, che dovrebbero caratterizzarsi per la più ampia gamma di criteri legali per quantificare il danno dai quali deriverebbe la più attenta ponderazione tra gli interessi del lavoratore e quelli delle imprese.

Questa giustificazione darebbe razionalità alle residue differenziazioni, ferma restando l’auspicabile prospettiva di una più chiara e coordinata utilizzazione dei tanti criteri di determinazione delle indennità contenuti in una legislazione cresciuta più per affastellamento di suggestioni che in base a valutazioni oggettive.

Nell’era dell’intelligenza artificiale inaccettabile appare una simile approssimazione nel calcolo di una pur ambigua indennità che rimane a cavallo tra risarcimento e sanzione, ma che può certamente essere utilizzata dai giudici senza eccessivi soggettivismi. Insomma, con un po’ di ottimismo, non mi pare impossibile che uno degli esiti referendari possa essere la ricerca di un sistema sanzionatorio dei licenziamenti ispirato a maggiore universalismo, ma senza ignorare né le esigenze delle persone né quelle delle imprese in cui la dimensione personale e di relativa debolezza economica riguardi realmente anche il datore di lavoro. 

C. Caruso. L’esito positivo del referendum contribuirebbe a segnare la completa trasfigurazione delle politiche del lavoro inaugurate dal Jobs Act. Questo sistema, che disegnava un sistema di tutele indennitarie concentrato sulla predeterminazione legale e conseguente prevedibilità del firing cost, è stato fortemente ridimensionato dalle pronunce adottate dalla Corte. Il successo del referendum sarebbe la pietra tombale di quel sistema, superato a favore di un assetto che, nelle piccole imprese, riconoscerebbe al prudente apprezzamento del giudice il quantum indennitario da riconoscere. Molte sarebbero le considerazioni teoriche che simile passaggio solleciterebbe. Mi limito a segnalare la paradossale eterogenesi dei fini sottolineata da Lorenzo Zoppoli: non sempre la fiducia illimitata nel giudice, la cui decisione, al contrario di quella realizzata dalla intermediazione legislativa, tende ad assolutizzare un certo punto di vista, può essere favorevole al lavoratore. Il rischio non è solo quello di avere una moltiplicazione di pronunce diverse per casi simili, ma anche di andare incontro a una giurisprudenza minuta e pulviscolare capace di rendere imprevedibile buona parte del contenzioso lavoristico di questo Paese.

V. A. Poso Già subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale gli scenari che si potevano prospettare per evitare il voto popolare erano problematici, considerati i tempi ristretti e tenuto conto dell’attuale maggioranza parlamentare. Oggi è possibile solo il voto popolare. Si fa per ragionare: quale intervento avrebbe potuto adottare il legislatore (non solo quello demolitorio, ovviamente) sufficiente ad evitare il referendum abrogativo? 

L. Zoppoli. La domanda mi pare molto teorica: non vedo nessuna iniziativa diretta ad evitare i referendum e mi pare piuttosto diffusa la fiducia (spero mal riposta) in un ampio astensionismo. Rilevo che nell’unico sforzo recente, di matrice puramente dottrinale, volto a prospettare una riforma dei licenziamenti (mi riferisco alla proposta del gruppo Frecciarossa: ne ho scritto in LDE, 2025, n. 1) il tema delle piccole imprese è stato accantonato. Credo che, se il referendum non giungesse in porto, l’unico scenario plausibile è quello di un nuovo intervento della Corte Costituzionale, che però non si prospetta foriero di una soluzione definitiva in questa delicatissima materia. 

O. Razzolini. Anche a me sembra non vi sia alcuna iniziativa diretta ad evitare i referendum. Sarebbe stato invece opportuno cogliere l’occasione per mettere mano ad una complessiva riforma dei licenziamenti, rendendola più omogenea e meno irrazionale, e modificare la nozione di piccola impresa, passando almeno dai 15 ai 10 dipendenti. Ma questo non è stato fatto. Credo anche io che la complessità tecnica dei quesiti e la loro attinenza a questioni non universalmente percepite come prioritarie abbiano convinto il Governo che sarà davvero difficile raggiungere il quorum necessario alla validità del referendum.

 

V. A. Poso Sono così ovvi e scontati gli scenari che si prospettano in caso di esito positivo del voto popolare? Lo chiedo anche nella prospettiva di una bocciatura del referendum relativo al D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, venendosi così a creare un notevole divario tra le tutele indennitarie applicabili ai dipendenti delle piccole imprese: smisurata, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, assai compressa (fatto salvo il possibile intervento della Corte Costituzionale) per i lavoratori assunti in data successiva.

O. Razzolini. Ho risposto in gran parte sopra. Certo si arriverebbe ad un sistema irrazionale e incoerente a cui potrebbe porre rimedio solo in minima parte un’eventuale sentenza di accoglimento della questione di costituzionalità sollevata con riferimento all’art. 9, d.lgs. n. 23 del 2015. 

L. Zoppoli. Anche io ho già risposto in precedenza. Posso ancora precisare che, se fosse bocciata la richiesta di abrogazione dell’intero d.lgs. n.23/2015, saremmo davanti a non minori incongruenze di quelle attuali. Mi pare però difficile che i due referendum abbiano destini diversi: li vedo quasi gemellati, nel bene e nel male. Ma forse il mio auspicio personale – già espresso – fa velo sulla lucidità previsionale.

Immagine: Laurence Stephen Lowry, Operai, 1948.



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