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La disuguaglianza globale è tornata ai livelli del colonialismo


La stagione Piketty Mania sembra passata, anzi, cancellata. L’economista francese Thomas Piketty (classe 1971), con il suo best seller “Il capitale nel XXI secolo”, pubblicato nel 2013 in Francia e tradotto in quaranta lingue, con due milioni e mezzo di copie vendute a livello mondiale, ha avuto il pregio di porre all’attenzione dell’opinione pubblica il tema dell’inequality, che potremmo tradurre con disparità. Sono passati più di dieci anni e il tema sembra essere passato in secondo-terzo piano.

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Eppure, il World Inequality Report 2022 – pubblicato dal World Inequality Lab (Wil) – che ha coinvolto più di duecento ricercatori di tutto il mondo, guidati dall’università parigina Paris School of Economics e dall’Università di Berkeley (California), ha fornito questo dato: la metà più povera della popolazione mondiale – circa due miliardi e mezzo di adulti – ha un reddito medio annuo di circa 3.920 dollari, equivalenti più o meno a tremilaquattrocento euro; detiene, inoltre, solo l’8,5 per cento del reddito globale, contro il cinquantadue per cento detenuto dal dieci per cento della popolazione mondiale più ricca.

Il tema non è affatto scomparso. «Le disuguaglianze globali contemporanee sono vicine al loro livello dell’inizio del XX secolo, al culmine dell’imperialismo occidentale», si legge nel Rapporto, che sottolinea come, da un punto di vista storico, sembri che le disuguaglianze globali siano grandi oggi come al culmine dell’imperialismo occidentale all’inizio del Novecento.

In effetti, la quota di reddito catturata dalla metà più povera della popolazione mondiale è circa due volte inferiore oggi rispetto al 1820, prima della grande divergenza tra i Paesi occidentali e le loro colonie. Gli fa eco il State of Social Protection Report 2025 della Banca Mondiale, pubblicato anch’esso lo scorso aprile, che offre un quadro globale sui temi legati all’assistenza sociale, all’assicurazione sociale e ai programmi di supporto al mercato del lavoro.

Nonostante i recenti progressi, tre persone su quattro nei Paesi più poveri non hanno una copertura di protezione sociale. Per circa due miliardi di persone, ammalarsi significa, giusto per capirci, «sperare in Dio…».

Secondo uno studio che ha coinvolto diversi ricercatori sia del Department of Environmental Systems Science dello Swiss Federal Institute of Technology di Zurigo (Svizzera), sia dell’United Nations Children’s Fund di New York, pubblicato nel 2024 sulla rivista Science, oltre quattro miliardi e quattrocento milioni di persone – più della metà della popolazione mondiale – non hanno accesso ad acqua potabile sicura.

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Nel 2024, ancora circa settecentotrentasette milioni di persone (la maggior parte delle quali – circa l’ottanta per cento – risiede nell’Africa subsahariana) vivono senza accesso all’elettricità. Secondo le proiezioni dell’International Energy Agency (IEA), se non si accelera il ritmo degli interventi, circa seicentoquarantacinque milioni di persone rimarranno senza elettricità anche nel 2030.

Il recentissimo Rapporto a cura del Dipartimento degli Affari Economici e Sociali dell’Onu, World Social Report 2025 – A New Policy Consensus to Accelerate Social Progress, butta ulteriore benzina sul fuoco. Oltre seicentonovanta milioni di persone vivono in condizioni di estrema povertà, sotto i 2,15 dollari al giorno di disponibilità. E più di un terzo della popolazione mondiale – oltre due miliardi e ottocento milioni di persone – vive nella forbice tra i 2,15 e i 6,85 dollari al giorno.

Interessante quanto Max Roser, professore dell’Università di Oxford a capo del Programma di Sviluppo Globale presso la Oxford Martin School, ha messo in discussione, in un articolo del The New York Times nel settembre dell’anno scorso, il valore della soglia di povertà di 2,15 dollari al giorno (64,5 dollari al mese), suggerendo invece – spiegandone i razionali – trenta dollari al giorno come soglia più coerente all’intero pianeta.

Ebbene, solo il diciassette per cento della popolazione mondiale nel 2024 ha vissuto con più di trenta dollari al giorno! «Sappiamo che un mondo in cui nessuno viva in povertà è possibile, ma siamo ancora lontani da un mondo del genere», scrive Roser. Senza contare i grandi e piccoli shock ai quali la popolazione più povera è decisamente più sensibile: l’aumento degli eventi estremi climatici, nonché dei conflitti e delle guerre, esacerbano la povertà e ostacolano tutti gli sforzi per alleviarla.

Non così esiziale, ma comunque degno di attenzione, l’ultimo rapporto del settembre 2023 dell’International Telecommunication Union, agenzia delle Nazioni Unite che sostiene programmi relativi alla connettività nelle reti di comunicazione e allo sviluppo dei relativi standard internazionali per diffondere l’accesso alla rete in tutto il mondo, che mette in evidenza come ancora un terzo circa della popolazione mondiale – due miliardi e seicento milioni di persone – sia priva di internet (pensiamo alla telemedicina, all’insegnamento a distanza, alla possibilità di comunicare, alle tante e diverse possibilità, in alcuni casi anche risolutive, che internet potrebbe portare a tali popolazioni).

Tornando al Rapporto dell’Onu, vi è una chiara indicazione che riguarda le istituzioni politiche: «L’aumento dell’insicurezza e la disuguaglianza radicata hanno contribuito a una crisi di fiducia nelle istituzioni che mette a dura prova i fondamenti stessi della solidarietà e dell’azione collettiva. Sono necessari sforzi decisivi per interrompere questo circolo vizioso e questa paralisi politica».

Un campanello d’allarme che guarda anche davanti a noi. «In base alle tendenze attuali, e senza azioni correttive, è probabile che la fiducia nelle istituzioni continui a diminuire in futuro», si legge nel Rapporto che, senza mezzi termini, non guarda al futuro con la dovuta speranza.

Il tema della fiducia nelle istituzioni politiche è ampiamente rimarcato: «Il cinquantasette per cento delle persone in tutto il mondo ha bassi livelli di fiducia nel proprio governo», cita una survey condotta tra il 2017 e il 2022 dal World Values Survey, il prestigioso istituto di ricerca internazionale con sede a Vienna.

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Molto interessante lo studio recentemente pubblicato dalla rivista dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti d’America (Pnas), ricerca che ha coinvolto oltre venti istituzioni accademiche e scientifiche in tutto il mondo, tra le quali figurano l’Università di Oxford, il Field Museum di Chicago, l’Università di Cambridge, il Conicet in Argentina, l’Università di Bonn e l’Università Bocconi di Milano, dove i ricercatori hanno analizzato la distribuzione delle dimensioni delle case in più di 1.100 siti in tutto il mondo, negli ultimi diecimila anni. Hanno scoperto che, mentre la disuguaglianza è stata comune nel corso della storia umana, non è inevitabile e non appare uniformemente in tutti i luoghi e tempi.

I ricercatori hanno utilizzato le distribuzioni variabili delle dimensioni delle case per calcolare un «coefficiente di Gini», metrica comunemente utilizzata per valutare la disuguaglianza, che va da 0 (uguaglianza completa) a 1 (disuguaglianza massima). Lo studio mostra che la disuguaglianza ha iniziato ad aumentare circa millecinquecento anni dopo l’avvento dell’agricoltura. Le innovazioni tecnologiche, come l’irrigazione, hanno aumentato la produzione agricola, ma hanno anche ampliato le lacune di ricchezza.

La proprietà della terra fertile è diventata una questione cruciale. Gli individui e le famiglie che controllavano queste risorse potevano accumulare più ricchezza. Questa dinamica ha portato alla formazione di gerarchie sociali, con ricchezza sempre più concentrata nelle mani di una élite: i proprietari terrieri.

L’archeologia, quindi, ci aiuta nella comprensione delle antiche dinamiche sociali e delle loro implicazioni moderne. I risultati sfidano la nozione di un mondo preindustriale uniformemente povero. Invece, rivelano un graduale accumulo di ricchezza e marcate disparità economiche rispetto alle prime società agricole.

Molto interessante il giudizio finale emerso dalla ricerca: «Sebbene la storia ci abbia dimostrato che gli elementi della tecnologia e della crescita della popolazione possono aumentare il potenziale di disuguaglianza in determinati tempi e luoghi, quel potenziale non è sempre realizzato, poiché le persone hanno implementato meccanismi di livellamento e sistemi di governance che attenuano quel potenziale. Le opinioni spesso ripetute secondo cui determinate condizioni o fattori economici, demografici o tecnologici rendono inevitabili grandi disparità di ricchezza semplicemente non sono confermate dal nostro passato globale».

«La scelta umana e la governance e la cooperazione hanno svolto un ruolo nell’attenuare la disuguaglianza in determinati momenti e luoghi, e questo è ciò che spiega questa variabilità nel tempo e nello spazio», afferma Gary M. Feinman, noto archeologo che lavora per il Field Museum of Natural History (Fmnh) di Chicago, uno dei più grandi musei di questo tipo al mondo. Anche l’archeologia ci indica una strada. Siamo e saremo sempre noi a decidere che mondo vogliamo.

 

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