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filo rosso da Pechino a Landini


I gruppi politici che chiedono un aumento delle retribuzioni o un elevato “salario minimo” contando sull’intervento statale, hanno evidenti attitudini al parassitismo. Questa condizione mentale dell’italiano medio che pensa al welfare e al benessere diffuso come ad un “diritto” del cittadino verso le classi più produttive, è il male più insidioso di cui occorre trovare la cura.

Qualsiasi parlamentare, opinionista o sindacalista, per discutere con un minimo di onestà intellettuale sulla questione “salari”, dovrebbe rispondere alla seguente domanda: ”Per quale ragione, se in Italia ci sono retribuzioni ai limiti della sopravvivenza da almeno trent’anni, in tutto questo periodo si è verificato il più pesante esodo di imprese verso l’estero, mentre l’ingresso di aziende straniere è sempre stato limitato, sofferto, saltuario e spesso incentivato da contribuzione pubblica”.

Referendum sul jobs act

Salario minimo, referendum e ombre cinesi: il filo rosso da Pechino a Landini –
Blitzquotidiano.it (foto Ansa)

Anzitutto, non è solo il costo del fattore lavoro ad attrarre le imprese.

Per un’industria, è importante il prezzo dell’energia, l’entità degli investimenti per addetto, la frequenza degli scioperi e la sicurezza sociale, l’efficienza dei servizi pubblici, la credibilità del governo e del legislatore, la “giurisprudenza” dei magistrati.

Gli altri fattori rilevanti sono l’efficienza delle burocrazie, l’accettazione di una certa mobilità della mano d’opera, la facilità di ottenere finanziamenti, il basso livello della fiscalità e il contenimento dell’inflazione.

In conclusione, a parte il problema delle fonti energetiche, in tutti gli altri casi è sempre il fattore lavoro ad essere determinante per l’insediamento durevole di un’impresa. Infatti, l’efficienza di un sito produttivo, dei governi, di una burocrazia, della magistratura, dei servizi pubblici, delle forze dell’ordine, delle banche, dipende in gran parte dalla professionalità e dall’impegno dei rispettivi addetti.

Tali addetti non sono premiati in funzione dell’utilità da essi prodotta per il “sistema paese”, ma per la rendita di posizione del singolo “settore”.

I privilegi dei bancari

È noto che in Italia i dipendenti dei comparti bancario, assicurativo o petrolifero godono di retribuzioni più elevate, mentre rappresenta un esempio di situazione sacrificata quella dei metalmeccanici. Il lavoro di un idraulico fa aggio su quello di un insegnante e, per comprendere meglio come il diritto di proprietà sopravanza la stessa tutela fisica della persona, il mediatore finanziario, l’avvocato e il commercialista guadagnano mediamente più di un medico.

Gli imprenditori lamentano che non si trovano persone in grado di svolgere alcuni lavori impegnativi e che molti giovani non accettano ruoli di responsabilità e chiedono maggior tempo libero.

Formare una classe lavoratrice adeguata alle esigenze del mercato è più difficile di quanto comunemente si creda. Esistono nazioni che devono importare tecnologia e con essa i tecnici per farla funzionare. Certi paesi che detengono la rendita petrolifera dipendono quasi in tutto da operai e tecnici provenienti dall’India, dal Pakistan e dall’Egitto. Se venisse meno la “rendita petrolifera” questi arabi ritornerebbero al “nomadismo”.

L’altra caratteristica del fattore lavoro è che, quando abbandoni certe attività, ci vogliono anni per formare una nuova classe operaia “competitiva”. Lo sta scoprendo Trump. La “Louis Vuitton” aveva spostato nel Texas una fabbrica che utilizzava mano d’opera di artigiani del sud Italia. Gli operai texani hanno prodotto danni a catena nel ciclo produttivo e i due terzi si sono licenziati. Finirà che la griffe francese dovrà esportare in America mano d’opera italiana o cinese, alla faccia dei dazi che dovrebbero proteggere i lavoratori Usa, ormai privi di “manualità”.

Il mondo si muove in funzione della capacità produttiva del fattore lavoro, che si sposta da uno Stato all’altro. L’America ha perso da tempo molti operai specializzati e da questo deriva la sua crisi attuale. Recuperare tale prezioso bene immateriale con i dazi, è pericoloso quanto inutile.

Politici e sindacalisti italiani secondo i quali l’aumento dei redditi dei lavoratori incrementerà la domanda interna, dovrebbero considerare che il potere d’acquisto sarà indirizzato per almeno i due terzi verso prodotti esteri, dal momento che i beni più richiesti in Italia sono importati e costano meno.

Per rispondere al quesito iniziale, potremmo concludere che i lavoratori italiani più efficienti possono essere espropriati dal frutto della loro fatica dai gruppi organizzati più forti all’interno delle istituzioni e delle burocrazie.

L’arma più micidiale contro il lavoratore dell’industria e del commercio è l’inefficienza di altri lavoratori dei comparti pubblici. A conti fatti, se usciamo dalla retorica sindacale, quando un paese europeo attrae aziende italiane, significa che dispone “complessivamente” di una forza lavoro migliore della nostra.

In Italia i sindacata nazionali sono forti nella tutela dei ferrovieri e degli autisti dei bus pubblici in grado di paralizzare il paese, nonché di certe categorie impiegatizie che godono del diritto alla “inamovibilità”, ma non sono in grado di incidere sui contratti di lavoro agricoli e del turismo, che restano al palo.

A questo punto occorre capire bene le regole del globalismo economico al quale siamo “condannati” da almeno trentacinque anni, in alternativa “salvifica” al “protezionismo” del cinquantennio precedente.

L’ ideologia del mercato è in sé rivoluzionaria: il consumatore ha il diritto di ricevere beni e servizi di buona qualità, ai prezzi più bassi determinati dall’effettiva competizione tra i produttori. Non sono consentiti interventi a favore di imprese pubbliche allo scopo di mantenere complessi improduttivi. Lo stesso privato non può essere favorito da rendite di posizione particolari, da aiuti o sussidi di settore: la concorrenza non deve mai essere falsata.

Di fatto, nessun paese al mondo ha mai applicato alla lettera questi principi, dal momento che le condizioni di partenza della “competizione” possono variare in misura considerevole. I paesi che possiedono energia e materie prime a basso costo e capacità imprenditoriali diffuse, partono con un chilometro di vantaggio rispetto ad altri che ne sono privi.

Ad esempio, la Francia che dispone di centrali atomiche, detiene una rendita ai danni dell’Italia che era stata ”tarpata” da un referendum popolare.

Non si può seriamente pensare a un governo inerte rispetto al verificarsi di particolari eventi sociali o economici, insensibile alle richieste delle imprese che chiedono protezioni, sussidi, franchigie, ogni volta giustificate per compensare eventuali gap strutturali.

Perché gli americani avevano imposto il globalismo economico? Essi volevano conquistare nuovi mercati e pensavano di mantenere la supremazia tecnologica, finanziaria e militare, come armi di sottomissione “imperiale” degli altri popoli.

Era facile prevedere che, nel lungo periodo, non sarebbe stato possibile contenere la spinta demografica dal sud al nord del pianeta da parte dei paesi che non avessero saputo cogliere le opportunità del mercato globale.

Il più agguerrito player internazionale, che ha interpretato e sfruttato i vantaggi del globalismo, è stato la Cina, che applica le stesse armi che erano state puntate nei suoi confronti durante i secoli passati. La Cina utilizza persino la politica delle lobby di origine anglosassone.

Come è avvenuto per la politica green così cara ai verdi e alla sinistra. L’interesse dei cinesi era quello di accelerare la riconversione del settore auto, nel quale essi avevano il predominio nella produzione di modelli, delle batterie elettriche e del loro smaltimento; e fin qui ci sono riusciti, considerato che gli europei stano pensando a sovvenzioni statali.

Quale sarebbe l’interesse di queste lobby silenti rispetto al salario minimo? La perdita di competitività di tutte le aziende a scarso valore aggiunto italiane, a vantaggio di quelle cinesi.

Prendiamo una risaia del vercellese. Il costo orario del lavoratore è quello previsto dal contratto nazionale del settore agricolo. L’interesse dei cinesi sarebbe che questo salario fosse aumentato in modo esponenziale. Lo stesso accade per il settore dei pomodori, che i cinesi vendono già a prezzi molto ridotti rispetto a quelli italiani e per altre centinaia di prodotti e servizi.

I cinesi sperano nel successo dei referendum del prossimo otto e nove giugno in materia di lavoro, promossi dalla CGIL, che peseranno sui conti delle imprese italiane o si risolveranno in contributi pubblici. E’ il serpente che si morde la coda.

E’ evidente che le nostre aziende, se gravate da ulteriori oneri, dovrebbero essere protette con l’introduzione di più pesanti dazi nei confronti dei prodotti cinesi ed è proprio questo che hanno sempre chiesto i nostri sindacati per tutelare i salari reali.

Ma una tale politica provocherebbe reazioni da parte della Cina in altri settori, come quello della moda e del lusso e ciò danneggerebbe le esportazioni delle aziende italiane di tali comparti.

A questo punto, come farebbe l’Unione Europea a lamentarsi della politica dei dazi voluti da Trump per proteggere le industrie americane, laddove la stessa Europa adottasse tali metodi verso i prodotti cinesi o indiani?

Ricordate l’esempio che facevano i sindacati per giustificare il protezionismo verso i paesi in via di sviluppo? Si trattava dei palloni da football, per la cui fabbricazione si usava mano d’opera infantile. Considerate, si affermava, che i prezzi bassi derivano dallo sfruttamento indiscriminato della “merce uomo”: dobbiamo espellere quei prodotti dai nostri mercati con ogni mezzo.

Se ne faceva una questione di etica planetaria.

In realtà l’utilizzo dei minori nella produzione era un miglioramento netto delle condizioni di vita di individui destinati alla carità di Maria Teresa di Calcutta. Queste centinaia di milioni di derelitti mettevano in gioco le loro vite per sopperire al disavanzo tecnologico di partenza. Ed ora che questi paesi hanno alzato la testa, dovrebbero essere discriminati con i dazi per tutelare il benessere di fasce di popolazioni privilegiate dell’occidente.

Personalmente sono contento che in India stia venendo su una classe dirigente ed operaia in grado di costruire le grandi opere senza bisogno di ricorrere ad appaltatori europei o americani. La sudditanza economica deve venire meno attraverso le nuove generazioni motivate ad un sacrificio mirato al miglioramento.

Se facessero appalti internazionali regolari per la ricostruzione dell’Ucraina, vincerebbero i cinesi. Accettare aziende europee o americane farà parte dei trattati di pace e ciò è contro le leggi di mercato, perché la commessa è affidata per via delle armi, come avviene per le “terre rare”.

Per diventare competitivi gli “Europei” dovranno trovare al proprio interno le risorse per lo sviluppo senza ricorrere a dazi. Dovranno per questo eliminare le fasce di parassitismo ancora presenti nel loro sistema, adattarsi a qualsiasi lavoro, ridurre i costi dei servizi, recuperare lo Stato di diritto, svegliare le proprie burocrazie ed istituzioni.

Sul piano politico, non devono commettere l’errore di “espellere” le forze politiche emergenti in odore di “fascismo”. I post comunisti, oggi al potere, dovrebbero ricordare che i loro “progenitori” erano stati “discriminati” dai partiti di governo per lunghi decenni.

L’alternativa a tutto ciò potrebbe essere la Terza guerra mondiale, questa volta non più “a pezzi”. Lo scambio di missili tra India e Pakistan, paesi che possiedono la bomba atomica, deve far riflettere i grandi della Terra.

 



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